L’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, a causa dell’ossessiva ricerca di figli maschi. Un approfondimento
Mariam, 31 anni, è madre di due bambine ed è originaria della regione di Armavir, Armenia occidentale. Anche dopo la nascita della seconda figlia, ha continuato a inseguire il suo sogno, avere un maschio, affidandosi ad un calcolo di probabilità. Ma non appena saputo di essere rimasta incinta e che si sarebbe trattato di un'altra femmina ha scelto di ricorrere all’aborto. “Mi sento colpevole di aver preso questa decisione, ma continuo a sperare di avere un figlio maschio un giorno. Non voglio scoprire ancora una volta che si tratta di una femmina e abortire di nuovo, non posso… Continuo a ripetermi che la prossima volta sarà quella buona”.
Spesso, in Armenia, molte donne come Mariam ricorrono alla pratica dell’aborto selettivo - spesso spinte in questo dal marito o dalla famiglia - per assicurarsi figli maschi, mettendo però a serio rischio la loro salute e lo stesso equilibrio demografico del paese.
Tra i primi al mondo per tasso di aborti selettivi
Secondo il 2016 Global Gender Gap Report , l’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, dietro solo alla Cina. Come ricorda Garik Hayrapetyan, rappresentante di UNFPA Armenia - agenzia Onu che si occupa di politiche famigliari - il sesso del feto è alla base del 10% di tutti gli aborti indotti effettuati nel paese caucasico, dove ogni anno circa 1.400 nascite femminili vengono interrotte. Il problema degli aborti selettivi è emerso in seguito all’indipendenza del paese, negli anni Novanta, sebbene in Armenia l’aborto venisse largamente praticato come metodo contraccettivo fin dall’epoca dell’Unione Sovietica (il primo paese a legalizzare l’aborto, nel 1920).
Questo problema non riguarda solo l’Armenia, ma è comune a tutto il Caucaso, come conferma la presenza nelle prime dieci posizioni della classifica dei paesi con il più alto tasso di aborti selettivi dell’Azerbaijan (al 5° posto) e della Georgia (all’8°).
Secondo un rapporto di UNFPA Armenia del 2013, il paese ha inoltre il terzo più alto livello di mascolinità alla nascita osservato nel mondo, e una sex ratio tale per cui per ogni 114-115 maschi nascono solo 100 femmine (la media mondiale è di 105 maschi per 100 femmine). Questa stessa ricerca dimostra come il divario aumenti progressivamente a seconda dell’ordine di nascita: mentre il rapporto tra sessi è relativamente equilibrato per la prima nascita, esso aumenta a 173 maschi per 100 femmine al terzo figlio.
Quali sono le cause di questo fenomeno?
Per Ani Jilozian, attivista presso il Women’s Support Center di Yerevan, questo squilibrio è dovuto principalmente a tre fattori tra loro correlati. Il primo è la preferenza verso i figli maschi, che deriva da una struttura familiare in cui le ragazze e le donne hanno un ruolo sociale, economico e simbolico marginale, e di conseguenza godono di meno diritti. I figli maschi garantiscono inoltre una sicurezza per ogni famiglia, in quanto hanno il compito di prendersi cura dei propri genitori e assisterli nel corso della loro vecchiaia, poiché le donne, una volta sposate, vanno solitamente a vivere presso la famiglia del marito. Un secondo fattore è lo sviluppo tecnologico applicato alla diagnostica prenatale, che ha permesso ai genitori di conoscere il sesso del bambino ancor prima della nascita. L’ultimo fattore è la bassa fertilità (in media ogni donna armena partorisce 1,7 figli), che riduce la probabilità di avere un figlio maschio nelle famiglie più piccole aumentando di conseguenza la necessità di selezionare il sesso.
Sebbene una statistica di UNFPA Armenia (2012) stabilisca che nel 70% dei casi siano le donne a scegliere di abortire, non sempre esse sono messe in condizione di prendere questa decisione in piena autonomia. Secondo uno studio qualitativo condotto da Ani Jilozian, basato su una serie di interviste realizzate con alcune donne che hanno fatto ricorso all’aborto selettivo, la maggioranza delle intervistate, pur rivendicando inizialmente la decisione di abortire, ha successivamente ammesso che la scelta è stata di fatto indotta dalla forte volontà del marito o della sua famiglia di avere un figlio maschio. Talvolta sono gli stessi mariti a prendere la decisione per la moglie, ricorrendo in molti casi anche a pressioni psicologiche.
Una legislazione inefficace
Secondo la legge armena una donna può effettuare un aborto fino alla 12ma settimana di gravidanza, periodo nel quale il sesso del feto non può ancora essere determinato, il che dimostra come la maggior parte degli aborti selettivi siano illegali e rischiosi. Solo il 57% delle donne è però al corrente dell’illegalità di questo processo e dei rischi che esso comporta.
Recentemente il governo armeno ha introdotto una nuova legge per combattere il fenomeno degli aborti selettivi. Secondo la nuova norma, prima di poter effettuare un aborto, una donna deve partecipare a una sessione di consulenza con il proprio medico, e successivamente aspettare tre giorni prima di ricevere l’autorizzazione per l'intervento. Secondo il governo armeno questa legge dovrebbe aiutare a sensibilizzare le donne sui rischi che comporta l’aborto e a metterle nella condizione di riflettere meglio.
Come spiega però Ani Jilozian, questa legge è inadeguata, in quanto limita la libertà riproduttiva della donna e ne mette a rischio la stessa salute. Dichiarare illegali gli aborti selettivi non è una soluzione che può combattere efficacemente il problema, in quanto non elimina le cause principali di questa preferenza sessuale, le quali sono profondamente radicate nella società patriarcale armena. Il tentativo di limitare l'accesso all'aborto senza affrontare le principali cause della preferenza del sesso potrebbe quindi finire per provocare una maggiore domanda di aborti illegali o non sicuri, in particolare per le donne provenienti dalle comunità più emarginate.
Inoltre, seppure negli ultimi anni in Armenia il numero di aborti selettivi sia in leggera diminuzione, secondo alcune proiezioni, se nel lungo periodo questo fenomeno non verrà adeguatamente contrastato, entro il 2060 in un paese di soli 3 milioni di abitanti verranno a mancare circa 93.000 donne, ovvero il 3% dell’attuale popolazione totale. Questo causerebbe un conseguente processo di emigrazione di una parte della popolazione maschile, destinata ad andare in cerca di una partner al di fuori del paese, mettendone a rischio l'equilibrio demografico.
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