Nel dicembre 1988 un violento terremoto colpì l'Armenia. Akhtamar, il bollettino on line della comunità armena di Roma, dedica il numero di dicembre al ricordo della tragedia
Fonte: Akhtamar
Oggi Spitak è una tranquilla cittadina di quasi ventimila abitanti. Venti anni fa fu l'epicentro della violenta
scossa sismica (magnitudo 6.8 della scala Richter pari al nono grado della scala Mercalli) che colpì le province nord occidentali dell'Armenia Lori e Shirak, in un'area sostanzialmente compresa tra Gyumri, Stepanavan e Vanadzor. Spitak si trovò, giusto appunto, nel mezzo.
Il sisma causò oltre venticinquemila morti (ma c'è chi parla di una cifra quasi doppia) e lasciò senza casa quattrocentomila persone; per dare un'idea di questa catastrofe, un armeno su otto, dopo il 7 dicembre, non ebbe più un tetto sopra la testa. La rovina si abbatté su grandi centri, come Gyumri (all'epoca ancora con il nome sovietico di Leninakan) e piccoli villaggi di campagna.
Occorsero giorni e giorni per prestare i primi soccorsi alle frazioni isolate in montagna, con la macchina degli aiuti che si impantanava, e non solo metaforicamente, nelle vie di comunicazione
disastrate e nella disorganizzazione generale. Il sisma colpì in una fredda e piovosa giornata di dicembre, nel cuore della mattina, quando gli studenti erano a scuola e gli adulti al lavoro.
Una frustrata terribile che sbriciolò buona parte degli edifici costruiti al risparmio in stile sovietico brezneviano causando migliaia di vittime che si sarebbero potute evitare se solo fossero state rispettate le ordinarie regole di edilizia civile antisismica. In una zona, peraltro, ad altissimo
rischio come confermano i numerosi terremoti che hanno colpito la regione (l'ultimo in ordine di tempo ai primi di settembre al confine tra Iran e Nakichevan).
Fatalità, si dirà. Forse, non solo. Se il sisma fosse arrivato qualche minuto più tardi, gli studenti
delle scuole si sarebbero già trovati all'aperto e non dentro quei castelli di carta che la "stagnazione" aveva eretto in economia. Un movimento sussultorio causato da un'improvvisa "mancata spinta" della crosta terrestre squassò dunque Spitak radendola quasi completamente al
suolo. Si salvarono poche, isolate, costruzioni. La rovina fu totale in un'area non particolarmente
estesa ma che comprende la seconda e la terza città dell'Armenia.
Nella sola Spitak trovarono la morte non meno di quattromila persone. La maggior parte di loro venne seppellita su una collina, alle porte della città, sulla cui sommità ora è stata costruita
una chiesa a ricordo di quella vite spezzate in un attimo. Spitak (anticamente Amamlu) è rinata;
grazie all'impegno degli armeni ed ai tanti aiuti della cooperazione internazionale. Non ha cambiato quella sua immagine di piccolo centro della campagna armena, ma ora le sue case sono più solide
e costruite con maggior decoro. A fatica si è ripresa da quella tragedia. La vocazione industriale di epoca sovietica è un lontano ricordo.
Ora la città punta ai servizi, alla piccola manifattura, al turismo (un ponte del 13° secolo rimasto miracolosamente intatto, alcuni antichi villaggi curdi, la bellezza del paesaggio a 1500 metri
di altezza) ricercando una dimensione più a misura d'uomo. Come la piccola Stepanavan, qualche
chilometro più a nord, che approfittando della sua posizione naturale (sulle gole del fiume Dzoraguet) punta tutto sul turismo: un sito elegante e completo (stapanavaninfo.am) illustra
gli itinerari turistici (il monumento ed il museo dedicati al rivoluzionario Stepan Shahumyan, il parco naturale, la fortezza di Lori, le cave) puntando anche sul piccolo aeroporto per i voli turistici.
La vicinanza alla capitale è la scommessa che Spitak e Stepanavan hanno fatto per vincere il dopo terremoto: un turismo naturale e ricercato per allontanare per sempre i fantasmi di quel terribile 7 dicembre.
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