La recente visita a Baku del Segretario di Stato Clinton ha mostrato ancora una volta che i vertici degli Stati Uniti sono disposti a chiudere un occhio sul curriculum dell'Azerbaijan in fatto di democrazia e diritti umani. Questo segnala chiaramente che l'Azerbaijan ha acquisito importanza non solo per la ricchezza di gas e petrolio, ma anche per il transito di truppe verso l'Afghanistan

17/08/2010 -  Arzu Geybullayeva Baku

Quando nell'aprile 2009 il presidente statunitense Obama inserì l'Azerbaijan nella lista nera in tema di libertà di stampa, la già fragile relazione tra i due paesi si incrinò ulteriormente. Tutto era cominciato nel 1992, all'epoca dell'indipendenza dell'Azerbaijan, quando era ancora in corso la guerra del Nagorno Karabakh (che sarebbe terminata con l'occupazione da parte armena di circa il 20% del territorio internazionalmente riconosciuto dell'Azerbaijan).

Nell'estate dello stesso anno, il Congresso USA approvò la famigerata Sezione 907 del Freedom Support Act, che vietava gli aiuti diretti al governo azero mentre li prevedeva per le vicine Georgia e Armenia. Tale decisione non solo sollevò dubbi sull'imparzialità del coinvolgimento statunitense come mediatore di pace nella regione e membro del Gruppo di Minsk dell'OSCE, ma portò l'Azerbaijan, per la prima volta, a diffidare degli Stati Uniti a causa dell'influenza della potente lobby armena.

I 18 anni successivi

La retorica dei 18 anni successivi prese la forma del solito politichese che infestò ogni dichiarazione congiunta, messaggio o discorso d'apertura con formule d'ordine quali “partnership duratura”, “alleanza strategica” ed altre trite formule tipiche del lessico protocollare.

Tuttavia lo strappo non fu mai ricucito del tutto, soprattutto da parte azera. Nel 2005, visto il sostegno statunitense alle rivoluzioni colorate in Ucraina e nella vicina Georgia, le autorità azere vollero assicurarsi che nulla del genere succedesse in Azerbaijan.

Negli anni successivi, una serie di eventi causarono un ulteriore deterioramento dei rapporti: intimidazioni al personale della sede di Baku dell'ONG National Democratic Institute (accusato nientemeno che di tentare un colpo di stato), elezioni parlamentari truccate nel 2005 e, infine, la chiusura delle radio Voice of America, BBC e Radio Free Europe nel 2008.

Che la situazione sia seria lo si può evince dal ritardo nella nomina del nuovo ambasciatore statunitense in Azerbaijan (un anno), dallo “smarrimento” dell'invito al presidente Ilham Aliyev per il summit sulla sicurezza nucleare a Washington nel 2010 e infine, più recentemente, dall'articolo del Washington Post che punta i riflettori sulla famiglia di Aliyev, e per la precisione sui suoi tre figli (compreso il minore, dodicenne) che possiederebbero immobili per 75 milioni di dollari a Dubai.

Il gioco continua

In cambio, l'Azerbaijan ha sabotato con successo l'iniziativa di Obama che avrebbe dovuto ricucire le relazioni turco-armene, convincendo la Turchia a inserire pubblicamente la risoluzione del conflitto in Karabakh tra le precondizioni di un nuovo avvicinamento fra Turchia e Armenia e bloccando così la riapertura del confine turco-armeno, chiuso nel 1993 in segno di solidarietà verso l'Azerbaijan.

Non dimentichiamo poi l'altro incidente diplomatico dell'aprile 2009, quando l'ostinato rifiuto del presidente Aliyev di incontrare il premier turco Erdoğan e il presidente USA Obama, durante la storica visita di quest'ultimo a Istanbul, fu seguito dalla firma di un accordo sul gas con la russa Gazprom.

Simili comportamenti non dovrebbero sorprendere, dato che negli ultimi vent'anni il paese si è trasformato da uno staterello privo di importanza nei primi anni Novanta in una delle economie in maggiore crescita al mondo. Oggi, l'Azerbaijan può permettersi di giocare a modo suo. Le risorse energetiche e la posizione strategica rendono il paese molto prezioso, e perfino una super-potenza come gli Stati Uniti deve fare i conti con questo cambiamento.

Nonostante tutto quello che è successo l'anno scorso (la cancellazione delle esercitazioni militari congiunte, la minaccia di sfratto alle compagnie petrolifere occidentali e la campagna anti-americana dei media statali), Washington continua a cedere alle pressioni, minimizzando tutti i problemi del paese e magnificandone i “grandi progressi” verso una società libera e democratica. Dichiarazioni di questo tipo sembrano essere anche conseguenza del fatto che circa un quarto dei rifornimenti militari americani verso l'Afghanistan transitano per l'Azerbaijan.

Hillary Clinton incontra il presidente azero Ilham Aliyev a Baku

Hillary Clinton incontra il presidente azero Ilham Aliyev a Baku (State Department photo )

Di conseguenza, persino il timido accenno al “progresso” da parte di Hillary Clinton nella sua recente visita a Baku a luglio è stato interpretato dagli analisti indipendenti come un segno di sostegno all'attuale governo piuttosto che alla costruzione della democrazia in Azerbaijan.

“Gli USA continuano a sostenere la dinastia Aliyev nonostante le tremende violazioni dei diritti umani e il crescente autoritarismo del regime. Mentre Washington ripete gli inviti ad una maggiore democratizzazione, i vertici statunitensi (compresa l'amministrazione Obama) abbracciano con invidiabile costanza le ragioni della realpolitik” scrive Murad Gassanly in un editoriale sulla webzine Azeri report.

Analogamente, Elmar Chakhtakhtinski, presidente dell'organizzazione statunitense di Azeri residenti in America Azerbaijani- Americans for Democracy (AZAD), conclude che “ora sembra che la più forte democrazia al mondo, ansiosa di tutelare i propri fragili interessi nazionali, sia stata costretta a rallentare sulla democrazia e rendere omaggio ai leader di una piccola dittatura petrolifera”.

E poi?

Allo stato attuale delle relazioni azero-americane, non è difficile concludere che, finché gli interessi statunitensi ruoteranno attorno alla sicurezza energetica (e tutto fa sembrare che sarà così per diverse decadi ancora), l'Azerbaijan riceverà sempre una pacca sulla spalla a prescindere dal numero di elezioni truccate, giornalisti arrestati o diritti umani violati. Ovviamente non mancheranno mai le dichiarazioni ufficiali di condanna, ma saranno sempre accompagnate da compiacenti riconoscimenti dei “progressi” del paese in questi stessi campi.


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