Un'immagine tratta da “In Bloom – Grzeli nateli dgeebi” di Nana Ekvtimishvili e Simon Gross

La 63ma edizione del Festival di Berlino, tenutasi nell'inverno scorso, ha portato alla ribalta molti titoli, poi riproposti nei festival dell'estate. Una rassegna del nostro critico cinematografico

27/08/2013 -  Nicola Falcinella

Alcuni di questi sono stati in calendario a Sarajevo, i restanti negli altri festival dell’estate. Vale la pena di tornare alla recente 63° edizione della Berlinale nella quale Balcani e Caucaso sono stati alla ribalta come non mai.

Oltre all’Orso d’oro romeno “Il caso Kerenes - Poziţia Copilului” di Călin Peter Netzer, uscito a giugno nelle sale italiane, e al bosniaco “Epizoda u životu berača željeza” che ha avuto due premi, quasi tutti i Paesi dell’area sono stati all’attenzione generale. Soprattutto il cinema greco e georgiano, ma anche Serbia, Croazia e Turchia.

Eka e Natia

Dalla Georgia due esordi rimarchevoli. Nella sezione Forum l’ottimo “In Bloom – Grzeli nateli dgeebi” di Nana Ekvtimishvili e Simon Gross, una gran bella storia di amicizia tra due ragazze quattordicenni, Eka e Natia.

Siamo nella Georgia del 1992, appena indipendente dall’Urss. Si sente un'atmosfera di guerra, con le lunghe code per il pane, le tante armi in circolazione, la cupezza che domina. I ragazzi vivono quasi in un mondo a parte, tra l'assenza o l’indifferenza degli adulti.

I genitori di Natia litigano spesso a causa del padre alcolista, mentre quello di Eka è rinchiuso in prigione per motivi politici. Le giornate non scorrono mai tranquille, l’inizio dell’adolescenza è segnata da litigi come altrove, ma ancora più duri e crudeli.

E le ragazze si trovano a dover vivere da adulte. Natia riceve una pistola con un colpo in canna come pegno d’amore, ma è anche rapita da un gruppo di giovani in mezzo alla folla senza che nessuno faccia nulla ed è costretta a sposarsi.

Una pellicola ricca di spunti, ironica e forte, diretta con mano felice e molto ben interpretato, con scelte di casting azzeccatissime. Alcune scene restano negli occhi, come il lungo ballo di Eka al matrimonio di Natia che ricorda quello di “Cous cous” di Kechiche.

Fotocopie in tribunale

In Panorama rimarchevole “A Fold in My Blanket – Chemi sabnis naketsi” di Zaza Rusadze. Un giovane di non particolari talenti nel mezzo di una storia corale di personaggi sballati e irrisolti, di favoritismi, ingiustizie, nazionalismo e la poesia di fondo del cinema georgiano.

Dimitrii non ha ancora deciso che fare, fa le fotocopie nel tribunale del quale suo padre è il presidente. Schiacciato dalla personalità paterna dentro e fuori casa, il protagonista si trova al centro di situazioni assurde.

Un uomo che distribuisce bandiere di uno stato che non esiste, una zia con l’Alzheimer convinta che il cognato la derubi, l’unico svago è andare fuori città ad arrampicare.

Un mondo statico, dove si passa il tempo in casa chiacchierando e mangiando dolci, fatto di piccoli e grandi paradossi, dove ci sono conflitti senza senso e tutti vivono proiettati nel passato più che nel presente.

La guerra

In Forum erano presenti due pellicole sull’eredità della guerra in Bosnia del ’92-95. Molto riuscito il serbo “Krugovi – Circles” di Srdjan Golubović, che ha un prologo nel 1993 e si sviluppa 12 anni dopo tra Halle (Germania), Trebinje (Bosnia) e Belgrado (Serbia).

Golubović, quarantenne figlio d’arte (il padre Predrag fu regista importante negli anni ’70 e ’80), si è confermato al terzo film dopo “Apsolutnih sto” (2001) e “Klopka” (2007) come una delle voci migliori del cinema balcanico odierno. Un film basato su fatti realmente accaduti e selezionato anche al Sundance. Il prologo si svolge in pieno conflitto, con una scena che si completa nel finale: alcuni soldati serbi sono pronti a eseguire la condanna a morte contro il musulmano Haris, il proprietario di una tabaccheria colpevole di non avere sigarette della marca preferita da un ufficiale.

Uno di loro, Marko, si oppone alla decisione e viene freddato davanti agli altri che non riescono a intervenire in tempo. Ai nostri giorni Haris si è rifatto una vita in Germania, sposando una donna tedesca, facendo due figli e con un lavoro, ma la riconoscenza lo spinge ad aiutare una concittadina in fuga da un marito vendicativo.

L’arrivo dell’uomo che la inseguiva fa precipitare la situazione, Haris, a costo di mettere in pericolo i suoi cari, non viene meno all’impegno e nasconde e protegge la giovane. Intanto l’anziano padre di Marko a Trebinje mette tutte le energie nel ricostruire una chiesa sulla sommità di una collina, fatica a perdonare ma spera che la morte del figlio sia servita a qualcosa.

Nebojša che era stato testimone impotente è ora un chirurgo belgradese che si trova a dover salvare la vita a Todor, l’ufficiale di allora, vittima di un incidente stradale e affidato alle sue mani.

Destini che si incrociano, parti che si ribaltano in un cerchio chiuso dove tutti solo legati, però basta poco per interrompere la catena dei rancori. Golubović sa costruire l’intreccio, conserva la tensione fino alla fine, dirige un bel cast (tra gli altri Aleksandar Berček, Nebojša Glogovac e Leon Lučev) e non fa sconti a nessuno, ponendo continui dilemmi morali. condannando il maschilismo ancora presente.

Il ponte

E' ambientato al giorno d’oggi, nella Mostar del ponte che ancora separa, “A Stranger- Obrana i zaštita”, lungometraggio d’esordio del croato Bobo Jelčić.

Slavko (un bravissimo Bogdan Diklić) è un settantenne croato di Mostar messo in difficoltà dalla notizia della morte di un vecchio amico musulmano sull’altra sponda della Neretva. Anni dopo la fine della guerra, ricostruito il ponte, persiste la divisione, soprattutto psicologica, tra le due parti.

Così Slavko è incerto se andare al funerale ed è solo sull’insistenza della moglie (Nada Djurevska) che decide di raggiungere la casa del defunto, che li aveva aiutati in più circostanze. Lo fa seguendo un percorso alternativo nel timore di essere notato e anche al cimitero se ne sta defilato per non farsi riconoscere.

La linearità della vicenda è complicata da alcune sottotrame, come la visita all’ufficio di un potente della città per ottenere non si sa quale favore (con una chiara stoccata alla sudditanza verso l’autorità e alla corruzione) e l’attesa dell’arrivo del figlio che vive in Croazia.

Girato in modo molto realista, con uno stile quasi documentaristico, con camera a mano molto vicina agli attori, è però interrotto più volte da inserti fantastici di morti metaforiche del protagonista. Una soluzione narrativa che funziona solo in parte, più che scarti verso l’alto sembrano inserimenti un po’ meccanici dentro l’impianto della storia. Jelčić, insegnante di recitazione all’accademia di Zagabria, si mostra molto bravo nel dirigere gli attori e trova una modalità non convenzionale per trattare una questione anche difficile.

In Grecia

La Grecia ha presentato tre film molto interessanti. Su tutti “I kori – The Daughter” di Thanos Anastopoulos, coproduzione tra Grecia e Italia nella sezione Forum, che ha tocchi polanskiani.

La crisi del Paese ellenico attraverso i ragazzini, coloro che più ne pagano le conseguenze, soprattutto dal punto di vista morale. Un’adolescente sequestra un bambino, figlio del socio in affari che ha mandato in rovina il padre. Assenti gli adulti tocca ai piccoli, giovani aguzzini e indifese vittime sacrificali.

Il piccolo, prelevato a scuola dalla ragazza, viene recluso nella falegnameria ormai abbandonata che diventa luogo da incubo. Il film ha un impianto realistico con elementi di fantastico che fanno sì che le apparenti incongruenze appaiano credibili: il rapimento non è organizzato, è opera di una quattordicenne che non sa come attirare l’attenzione perché suo padre, che viveva separato dalla madre, è scomparso nel nulla.

“The Eternal Return of Antonis Paraskevas” di Elina Psykou inizia con un’auto che viaggia in una zona montagnosa. Arriva a fermarsi davanti a una grande costruzione abbandonata e dal bagagliaio esce un uomo che entra nell’edificio e vi si rinchiude. È un noto mezzobusto della tv, presentatore da 20 anni di un programma del mattino che ora è un po’ in crisi, di audience e personale.

L’edificio è un hotel e non c’è nessuno. Antonis ne prende possesso, come se aspettasse qualcuno o qualcosa: ha delle borse con la spesa ed è fornito per stare lì qualche giorno o più. Tutto là è funzionante. L’uomo si siede e guarda la tv, in attesa di sentire cosa dicono della sua scomparsa. Soprattutto passa il tempo nella grande cucina e guarda e studia i video di cucina di un cuoco francese e cerca di ripetere da solo le ricette. Come se si preparasse a un nuovo programma e a un rientro a sorpresa che gli restituisca la fama.

Il complice che l’aveva portato lo aiuta nel fingere un rapimento e chiedere un riscatto al presidente dell’emittente. Ma qualcosa va storto, Antonis si rade i capelli, diventa irriconoscibile ed esce per i prati. Un film sulla fuga, sulla possibilità o impossibilità di ricominciare, sul ripetersi eterno delle cose, come se fosse tutto già scritto, già chiuso: non a caso è ambientato mentre la Grecia sta entrando nell’euro. Un esordio interessante che si inserisce nel filone del cinema greco delle stranezze che ha capofila in Athina Rachel Tsangari e Yorgos Lanthimos e lavora sulla metafora, l’assurdità delle situazioni, la ripetitività e una minaccia incombente.

Sempre sul terreno della metafora agisce il sorprendente “Sto lyko – To the Wolf” di Christina Koutsospyrou e Aran Hughes, solo in apparenza un documentario. Anche qui la paura, un senso di fine e di minaccia presente, quasi il buio che sembra pronto a inghiottire tutto. Un’altra zona di montagna, scura, filmata spesso di notte o con cattivo tempo. Scene di pastorizia alternate a dialoghi che sembrano strani nelle case o nei bar. Discorsi che si comprendono solo a poco a poco, in villaggi dove sono rimasti solo gli anziani che stanno esaurendo i pochi risparmi. Tutto converge verso la tragedia alla quale non si può scampare e che scuote lo spettatore e resta negli occhi a lungo.

Gli altri

In Panorama il turco “Soguk – Cold” dell’attore (“Soul Kitchen”) e regista Ugur Yulcel, un po’ thriller e un po’ melò. In un triste e povero villaggio vicino alla frontiera con la Georgia, Balabey vive di poco con la sua famiglia e si scontra regolarmente con l’arrogante poliziotto che può far fermare il treno a suo piacimento. D’inverno l’uomo si innamora di Irina, una giovane prostituta russa appena arrivata nel locale bordello. È l’inizio di una tragedia amplificata dal paesaggio coperto di neve e ancora più inclemente. Un film non del tutto riuscito, ma con momenti molto intensi come la vendita da parte di Balabey dell’unica vacca.

Tra le altre presenze, da menzionare il già noto attore sloveno Marko Mandić alla ribalta sia in “Gold” di Thomas Arslan (in concorso), a fianco della star tedesca Nina Hoss, sia in “Lose your head” di Stefan Westerwelle e Patrick Schuckmann. Mentre girato in buona parte a Bucarest è “The Necessary Death of Charlie Countryman” di Fredrik Bond, presentato in concorso, con Shia LaBeouf nella parte di un giovane americano in viaggio per l’Europa dopo la morte della madre (Melissa Leo) che si innamora di una ragazza ungherese (Evan Rachel Wood).


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