Danubes 2024

Danubes 2024

Un viaggio da Est a Ovest tra Serbia e Croazia, seguendo le anse del Danubio alla scoperta di confluenze storiche, culturali e geografiche. Gli attivisti di FuoriVia hanno percorso un altro tratto del loro viaggio.

30/08/2024 -  Ilaria Carmen Restifo

Non è Orșova il punto di ritrovo per l'edizione Danubes 2024. Come da tradizione, i camminatori dell'associazione Fuorivia si incontrano ogni anno nel punto in cui si erano lasciati l'anno precedente per poi continuare a risalire le anse del Danubio, da Est a Ovest. L’edizione 2023 era finita a Orșova, in territorio romeno, presso le Porte di Ferro. Quest'anno ci si incontra poco più a monte, a Dobra, in Serbia, sulla sponda destra del Danubio. Si vogliono evitare lungaggini  al confine e ottimizzare il più possibile le tredici tappe che scandiscono il cammino di quest’anno: oltre 500 chilometri tra Dobra e Vukovar, in Croazia.

In un metaforico abbraccio del Vecchio Continente, dopo aver percorso la Via Egnatia da Ovest ad Est (2015-2019), Fuorivia inverte la rotta e torna ad Ovest, verso il centro dell’Europa, seguendo un’altra iconica via di comunicazione europea: il Danubio, simbolo di convergenze, diversità, stratificazioni, convivenze. 

Chi abbia avuto modo di seguire le cronache danubiane di questo gruppo di camminatori, ricorderà che il progetto era nato nel 2022, quando ci eravamo incontrati sul Mar Nero, a Sulina, nel Delta danubiano, al confine con l’Ucraina, nei mesi successivi all’invasione russa. Il progetto quinquennale prevede di risalire il Danubio dalla foce fino a Vienna, dove si concluderà nel 2026. 

Il 2024 è l’ago della bilancia, in bilico tra le zone più remote del continente, verso aree via via più antropizzate e centrali. Siamo in cinquanta e, come gli storioni, risaliamo il Danubio controcorrente, per dirla con Nick Thorpe

Confluenze. Sono loro a cadenzare le nostre giornate quest’anno. Il tema delle confluenze è il leitmotiv concettuale che ci siamo dati per il cammino 2024, tra Serbia e Croazia. Si aprono gli atlanti, si sogna sulle mappe. Basta guardare la carta geografica per notare che le zone attraversate si caratterizzano per una serie di affluenti, grandi e piccoli, che confluiscono tutti nel Danubio: Mlava, Nera, Sava, Morava, Tibisco, Timis…; senza contare la rete di canali secondari che collegano i fiumi. Confluenze, dunque, anche metaforiche, che hanno forgiato questi territori e la loro Storia.

Quel che cambia rispetto alle precedenti edizioni, è che quest’anno il Danubio non costituisce quasi mai confine: per la maggior parte passa all’interno del territorio serbo, da Ram al confine con la Croazia, Bačka Palanka. Così, scegliamo di camminare su entrambe le sponde, facendoci trasportare da imbarcazioni e, all’occorrenza, da autobus o treni pubblici. 

Il primo attraversamento via fiume è Ram-Stara Palanka (destra-sinistra); il secondo Kovin-Smederevo (sinistra-destra); il terzo Grocka-Jabukov (destra-sinistra). Il quarto passaggio avviene in autobus da Pančevo a Belgrado, collegate da un ponte (sinistra-destra); il quinto è Sremski Karlovci-Novi Sad (destra-sinistra). Da qui, rimaniamo sulla riva sinistra fino al confine con la Croazia. L’ultimo attraversamento è a piedi: Bačka Palanka-Ilok, attraverso il ponte del 25 maggio, che costituisce esso stesso una frontiera. In Croazia si rimane sempre sulla riva destra fino a Vukovar, ultima tappa; da dove si riparte nel 2025 per attraversare le pianure ungheresi: ultima fermata Budapest.

 

 

INDICE

  1. Dobra: La forma dell’acqua
  2. Golubac o il mito identitario
  3. Veliko Gradište. Mirabilia
  4. Ram. Di qua dal fiume
  5. Dubovac. L’ospite inatteso
  6. Smederevo. Dicotomie
  7. Grocka. Rivoluzioni
  8. Ivanovo. Scappo dalla città
  9. Belgrado. Nostalgie
  10. Novi Sad. Nella casa dello studente
  11. Gložan. Confini
  12. Šarengrad. Fulmini e saette
  13. Vukovar: rosso Danubio

 

 

1. Dobra: La forma dell’acqua

Paese che vai, romano che trovi. Come potrebbe essere altrimenti quando ti trovi sul sito di un antico insediamento adagiato sul limes romano del Medio Danubio, in Serbia? Si tratta di Saldum, un insediamento forse fondato durante il periodo dei Flavi. Oggi al suo posto sorge Dobra, un minuscolo villaggio di circa 700 anime alla foce del ruscello Kožica, sul Danubio.

È da qui che ripartiamo. L’adunata è al Camping Asin, top rated da Google maps e gestito da Milena, già incontrata a marzo durante il sopralluogo. Un ampio spazio verde, adibito per ospitare tende e camper, e addossato alla strada regionale che costeggia il fiume, tra vecchi annessi agricoli e strutture rurali. Immancabile il canto del gallo che ci sveglia alle cinque del mattino. 

Durante gli anni Sessanta del secolo scorso, erano state effettuate in questa zona alcune indagini archeologiche, ma i dati relativi all'intera area del sito rimangono sconosciuti. Perché? 

Il sito fu ricoperto dalle acque del lago di accumulo dopo la costruzione della famosa centrale idroelettrica di Đerdap I. Una vicenda che ci ha seguito fino in Serbia e che già l’anno scorso avevamo incontrato ad Orsova, in Romania. Le due località sono accomunate da una storia comune. Quella della diga Đerdap I, toponimo serbo delle Porte di Ferro.

Il progetto della diga Đerdap I era stato avviato come joint-venture tra i governi di Romania e Jugoslavia nel 1964. Quando fu inaugurata nel 1972, la centrale idroelettrica era la decima più grande al mondo. Il progetto diede luogo ad un innalzamento di 35 metri del livello dell'acqua, e per diversi centri abitati si rese necessaria l’evacuazione di circa 17.000 persone.

Nel 2008, la Serbia ha avviato un programma di ammodernamento delle turbine conclusosi nel 2023, con l'aiuto dell'azienda russa Power Machines e di alcune aziende nazionali. Leggiamo in un lancio d’agenzia di ottobre 2023 le dichiarazioni del direttore generale dell'Eps, l’ente statale dell’energia serbo: “Đerdap 1 è stato l'orgoglio del nostro settore idroelettrico per più di cinquant'anni e dopo questo riammodernamento lo sarà sicuramente per i prossimi 30-40 anni”.

A questa prima diga, nel 1977 seguì la costruzione di una seconda centrale idroelettrica più a valle, sempre in joint venture tra i due paesi. La Serbia sta inoltre progettando la costruzione di una terza centrale più piccola, la cosiddetta Iron Gate III, proprio nei pressi di Dobra, dove ci troviamo noi. “Sì, ne stanno parlando”, ci racconta Milena, “Non ne so molto. Mio marito è ingegnere e forse è più aggiornato di me. Ma francamente, ad oggi, resta ancora tutto da vedere”.

 

 

2. Golubac o il mito identitario

A far da sentinella all'ingresso Nord-Ovest della Gola di Kazan, nel punto in cui le falesie delle due sponde si fronteggiano altissime, c’è la fortezza medievale di Golubac. Una barriera naturale da difendere a tutti i costi. Una rocca contesa tra ungheresi e ottomani durante il XV Secolo. Un luogo dal passato tumultuoso.

Arriviamo via fiume alla fortezza di Golubac. Non si sa molto sulle origini dell'omonima cittadina adagiata sull'ansa destra del fiume, in corrispondenza di un bacino che si allarga fino a 7 km tra le due sponde, prima di incunearsi nella gola. Ma la leggenda che circonda la fortezza è ben nota a tutti, tanto che il confine tra fantasia e realtà ha contorni indefiniti nella narrazione delle guide locali.

Golubana è una fanciulla serba la cui bellezza è tale da fare innamorare il sovrano turco. Ma lei non ricambia questo amore, a dispetto dei regali di lui. Per vendicarsi, il pascià la lega a una roccia che emerge dal fiume, con l’intento di farla pentire. Ma la ragazza non cede al ricatto e muore di inedia legata alla roccia di Babakaj. Per questo sacrificio, gli abitanti del luogo dedicano la fortezza al suo ricordo.

“Non ci sono fonti che provino l’autenticità di questa storia”, ci racconta in inglese la guida comunale che ci accoglie al molo, “ma a noi piace pensare che sia andata così”. Poi ci indica col dito una roccia bianca, calcarea, appuntita. Emerge in mezzo al fiume in acque rumene: è proprio lo scoglio di Babakaj, al quale la fortezza era collegata tramite una grossa catena per controllare la navigazione.

Una leggenda che ben si adatta all’eroismo identitario nazionale contro il crudele invasore ottomano. Un mito che incarna un topos fondante, facendo leva su un tema tutto al femminile (o quasi): quello della bella fanciulla locale, cristiana, che rifiuta di cedere alle pretese amorose del crudele pascià turco e che, inevitabilmente, ne diventa la vittima.

La lettura scelta dal nostro Andrea per la cittadina di Golubac riflette questo mito che, con i dovuti distinguo, torna anche nella novella dello scrittore serbo Borisav Stanković (1876 - 1927), Stojanka la bianca fanciulla di Vranje. Andrea ci traduce il testo dal francese, in mancanza di una traduzione in italiano. I pilastri sono gli stessi: Stojanka rifiuta l’amore del Bey di Vranje pur essendone lusingata, poiché la tradizione, ma soprattutto la religione, impediscono una tale unione. Lei va promessa sposa ad un ragazzo locale e il Bey, folle di gelosia, la trafigge con un coltello: o sua o di nessun altro.

Diamo un ultimo sguardo alla fortezza prima di voltare le spalle e incamminarci ad Ovest, lungo i 24 chilometri che ci separano da Veliko Gradište, la terza tappa. La fortezza promette molto più dall’esterno, in realtà. Il colpo d’occhio è fenomenale, degno di un fantasy hollywoodiano: la rocca svetta con i suoi otto torrioni sulle acque del Danubio, come un gigante di pietra a protezione eterna della gola di Kazan. Ma la ricostruzione storica interna lascia perplessi. Forse denota una narrazione un po’ a senso unico? Forse si avverte qualcosa di artefatto nella ricostruzione? Non capiamo fino in fondo il perché, ma non ci soffermiamo più di tanto a pensarci: siamo distratti dagli strani uccelli dei falconieri, accampati in costume d’epoca nel cortile del castello. 

Certo è che l’amministrazione ha messo in campo sforzi notevoli per la conservazione della fortezza, una delle principali testimonianze medievali della Serbia. La rocca medievale era caduta in uno stato di completo abbandono. Negli anni Trenta del secolo scorso era stata addirittura costruita una strada regionale che la tagliava a metà, distruggendo murature e portali. Ma la costruzione della centrale idroelettrica Đerdap I ha spinto l’istituto dei beni culturali a proteggere il patrimonio archeologico dell’area, dichiarando la fortezza monumento culturale di importanza strategica.

 

3. Veliko Gradište. Mirabilia

La municipalità di Veliko Gradište comprende una serie di villaggi minori, alcuni dei quali sono distribuiti attorno a un “capriccio” del Danubio: una serpentina a U che racchiude un’isola, collegata alla terraferma da due imponenti terrapieni carrabili - uno a est e uno a ovest - creando uno dei laghi più amati della Serbia. Un lago oblungo, dal nome impronunciabile: Srebrno Jezero, alias Silver Lake, se vogliamo renderci la vita più facile. Un lago è per antonomasia un bacino di  forma arrotondata, quanto meno ovale. Il lago d’argento no. È una sorta di canale sinuoso lungo 14 km, dove il rapporto col “lago” è molto sentito dalla popolazione locale.

Tra il Danubio e lo Srebrno Jezero c’è questa grossa isola, anch’essa di forma ribelle, chiamata Ostrovo. A est dell’isola, c’è Veliko Gradište, il comune che ci ospita nel parco comunale e dove le autorità ci offrono per cena una zuppa di fagioli. A ovest dell’isola sorge uno dei villaggi minori, Zatonje, dove siamo obbligati a passare per raggiungere Ram, la quarta delle nostre tappe.

Raggiungere Zatonje da Veliko Gradište non è scontato. Non tanto per la difficoltà del tragitto, in realtà  molto agevole, ma per la sorpresa di percorrere una direttiva est-ovest attraversando una strana isola, Ostrovo, e l'omonimo villaggio. In serbo isola si dice ostrvo. Si suppone dunque che il villaggio prenda il nome da un'isola chiamata Isola. Le strade non sono asfaltate, si vede qua e là qualche casa in legno sospesa sul fiume. La vegetazione è varia, alcuni appezzamenti sono coltivati, altri lasciati a maggese. Granoturco, girasoli, alberi di fico, noci, prugne, pomodori... e poi eucalipti e piante acquatiche.

È tutto un po’ curioso in questa zona, compresa l’allegra brigata dei Rom di Veliko Gradište che per qualche motivo conosce bene Vicenza. I bambini giocano scalzi per le strade sterrate del quartiere; alcuni corrono a piedi, altri in monopattino, altri salgono in tre su una bicicletta. Sembrano gli scugnizzi del nostro neorealismo migliore.

Ma la cosa più curiosa di tutte in quest’area, è una storia legata al villaggio di Kisiljevo, all’estremità sud della serpentina, sulla terra ferma. Forse non tutti sanno chi è Petar Blagojević. O meglio, chi era. La storia di Petar è il più sensazionale caso di isteria vampiresca dei suoi tempi, ben documentato nella relazione dell’allora procuratore austriaco Ernst Frombald.

Petar morì nel 1725 e fu sepolto secondo le usanze locali. Entro otto giorni dalla sua dipartita, morirono misteriosamente nel villaggio altre nove persone, le quali, sul letto di morte, giurarono di essere state visitate dal loro compaesano deceduto. Ma non finisce qui. Qualche giorno dopo, Petar avrebbe fatto visita notturna anche alla moglie.

Gli abitanti, terrorizzati, decisero di dissotterrare il corpo per verificare la presenza di segni di vampirismo, come la crescita delle unghie o l'assenza di decomposizione. Pretesero inoltre che Frombald fosse presente alla procedura. In caso contrario, avrebbero abbandonato il villaggio per salvarsi la pelle. Frombald si recò sul luogo e constatò che davvero il cadavere sembrava rigenerato. I cittadini trafissero il cadavere con un palo appuntito e ne bruciarono i resti. Così scrive Frombald: “Di ciò voglio informare l'amministrazione e nell’istesso tempo vorrei chiedere se in totale onestà sia qui stato commesso un errore, non io ne venga ritenuto il responsabile, ma la folla, che era fuori di sé per il terrore”. Questo rapporto ebbe un forte scalpore tra il pubblico di tutta Europa. Fu pubblicato sul Wiennerisches Diarium, un giornale viennese oggi noto con il nome di Wiener Zeitung.

 

4. Ram. Di qua dal fiume

A Ram ci si rende conto, più che altrove, del rapporto privilegiato che hanno i locali con il grande fiume. E forse non è un caso. Questo è il primo villaggio dove sull’altra sponda del Danubio non c’è la Romania, il confine, ma sempre la Serbia. E sarà così fino alla frontiera con la Croazia, a  Bačka Palanka.

L’acqua è vita, il fiume è nostro, il godimento è nostro, il trasbordo sull’altra sponda è cosa nostra, il rispetto che dobbiamo al fiume lo decidiamo noi. Sembra sia questo che esprimono i locali, senza dirlo veramente. Il diritto all’autodeterminazione nel rapporto col fiume è evidente. Non si vedono grosse infrastrutture, alberghi, condomini. O se ci sono, sono quasi invisibili. Magari non del tutto regolamentati, c’è da dire, però è certo che la memoria fa fatica a ricordarsene come un pugno nell’occhio.

La quiete attorno a noi è commovente. Un villaggio sospeso nel tempo, immoto. Una distesa d’acqua piatta. Una striscia di terra all’orizzonte. L’unico movimento lento è quello delle chiatte che trasportano passeggeri, biciclette e automobili da questo a quel lato del fiume. Chiatte senza motore. Con affascinanti manovre, il rimorchiatore spinge col muso la zattera verso l’altra sponda. Gli orari sono affissi sul gabbiotto dell’unico molo, scritti a mano. Impossibile sbagliare. Linea Ram-Stara Palanka, tempo di percorrenza, 25 minuti. Orari: 7-10-13-16-19. Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è. Punto. 

Abbiamo detto villaggio. Ma a guardar bene, più che un villaggio, sembra un imbarcadero d'altri tempi. Eppure, in passato, l’attuale insediamento di Ram si è sviluppato attorno a una roccaforte ottomana voluta dal sultano Bayezid II alla fine del XV Secolo, che evidentemente deve aver ritenuto Ram un luogo strategico per il commercio, degno di essere protetto contro le incursioni ungheresi da una fortezza, la Ramska Tvrđava, altro nome impronunciabile.

Del resto, c’è una testimonianza innegabile sul legame di Ram con il commercio. Il nucleo originario dell’insediamento risale alla costruzione di un caravanserraglio voluto dai turchi, l’unico rimasto in Serbia. Ventiquattro stanze ospitavano le carovane di mercanti che si spingevano fin qui. Oggi, le mura di quello che un tempo fu un caravanserraglio circondano il cortile di una chiesa serba ortodossa del XIX secolo. 

Ci sediamo sul sagrato ad ascoltare la lettura quotidiana di Andrea: "È Oriente", di Paolo Rumiz. Colpisce una frase, riferita all’Ungheria, ma che sembra perfetta anche qui. “Per accorciare il percorso fu ripristinato un traghetto. Sbarcava biciclette e Mercedes, camion e cavalli. Vi transitava un’umanità incredibile, il mondo di ieri si mescolava al Duemila”. 

Ci riporta all’ordine il fischio della chiatta. Mancano pochi minuti alle 10. Stara Palanka ci attende di là dal fiume. Mentre sulla chiatta guardiamo la fortezza di Ram allontanarsi lentamente, speriamo in cuor nostro che la furia del tempo non cambi mai luoghi come questi. Ed è subito amore per Ram, nostalgia del presente.

 

5. Dubovac. L’ospite inatteso

Siamo diretti in una baia naturale presso Dubovac, su una striscia di terra che chiude il Danubio in una specie di lago. Una strada sterrata scorre lungo la striscia di terra, separando le proprietà dai punti di attracco sul fiume.

Ci chiediamo come funziona il sistema di concessioni per chi ha una proprietà con accesso all’acqua. Tanto più che in Serbia non c’è il mare. Il mare è il Danubio. Ci dovrebbe essere competizione, secondo i nostri parametri. Ma a dire il vero, non la notiamo da nessuna parte. L’accesso al fiume, privato o no, non sembra essere esclusivo. Nemmeno nella proprietà di  Goran, che ci ospita a Dubovac Marina, dove ha due casette sul fiume e un prato su cui piazzeremo le tende.

Ma prima di arrivare nel piccolo paradiso di Goran, ci attendono quindici chilometri sotto il sole, lungo la strada regionale 134, a scorrimento veloce. Se anche ci fosse un limite di velocità, le macchine corrono comunque come saette, clacsonando alla nostra vista. Il meteo dice che le temperature sono in aumento. Bisogna trovare un luogo di ristoro disposto ad accettare un bivacco di cinquanta persone per almeno tre ore, in attesa che il caldo ci dia tregua prima di ripartire per la baia di Dubovac.

Camminiamo lungo una strada regionale senza apparenti sbocchi laterali. È un rettilineo d’asfalto interminabile. Nessun caffè, taverna o minimarket dove sostare. I terreni sembrano divisi come si faceva con le centurie romane. L’unica cosa da fare è andare avanti, ignorare i clacson delle automobili e camminare in fila indiana sul bordo della strada, in silenzio. Tra la sconsolazione generale, il caldo e le zanzare, nessuno si aspetta di inciampare per caso in uno spiazzo con un cancello aperto. 

Il luogo è ombreggiato, immerso tra gli alberi. Sembra abbandonato. C’è una scritta: Vila Burdevak. Sulla destra, una casa fatiscente con un portico. Sulla sinistra, una rimessa degli attrezzi. Altalene arrugginite, lo scheletro di una casetta in legno, un gazebo senza tetto, una fontanella, legname sparso. Sullo sfondo, una casa a due piani ha le finestre chiuse. Si sente musica balcanica provenire da una vecchia radio con l’antenna. Dove siamo finiti? Un campeggio? Una falegnameria? Un’officina? D’un tratto, un signore sull’ottantina ci viene incontro. Sembra perplesso, ma ci fa capire in tedesco che possiamo sostare lì per il pranzo. Si chiama Slobodan, Libero. E libero, lui, lo è per davvero.

“Io sono jugoslavo, non mi importa da dove venite, siete miei ospiti. Avevo il passaporto rosso e potevo andare ovunque”, ci dice con una tazza di caffè in mano, la faccia del maresciallo Tito stampata sulla ceramica. Non sembra affatto turbato dal bivacco di cinquanta persone. Anzi! Ha una gran voglia di parlare. Gli offriamo una fetta di anguria e ci conquistiamo le sue confidenze. 

Durante la guerra degli anni Novanta, ha dovuto, senza voglia, fare il cuoco per l’esercito serbo. Ci tiene a sottolineare che non ha mai sparato a nessuno. Da quando è rimasto vedovo, passa il tempo a costruire casette di legno, lasciandole sparse per il giardino di quel che un tempo era un punto di ristoro gestito dai figli, adesso lontani. Nel 1975 era partito per l’Austria, dove è rimasto un anno imparando quel po’ di tedesco con cui riusciamo a comunicare. 

“A volte passano molti giorni prima che io parli con qualcuno. Ma oggi siete arrivati voi. È stato un regalo”, ci dice nel salutarci. Sono quasi le cinque e dobbiamo arrivare al più presto a Dubovac, da Goran. Non vogliamo arrivare col buio. 

L’istinto è di rimanere ancora lì, di abbracciarlo. Gli occhi sono umidi, i nostri e i suoi. Chi è l’ospite inatteso? Siamo noi per lui o è lui per noi? Poco importa chi sia l’ospite. È sull’inatteso che vale la pena soffermarsi. È lì che si crea la magia di certe epifanie. E intanto, il mito del nazionalismo identitario serbo non è mai stato più lontano di qui.

 

6. Smederevo. Dicotomie

Poiché il Danubio passa dentro la Serbia e non costituisce una linea di confine, ci adattiamo alla geografia e decidiamo di camminare lungo entrambe le rive del fiume. Raggiungiamo il piccolo porto turistico di Kovin, dove ci attendono due imbarcazioni per portarci a Smederevo, sulla riva opposta, entro il tramonto.

Il termine “porto turistico” non è del tutto pertinente. Forse internet offre una una definizione più adatta: “zona costiera attrezzata per l'imbarco e lo sbarco dei passeggeri”. Ma anche questa definizione non soddisfa. Insomma, si tratta di un braccio di fiume, il Kovinski Dunavac, che si allarga in un bacino dove vengono ormeggiate piccole imbarcazioni. Per lo più sono barche a motore di abitanti  locali o pescatori, altre volte motoscafi di modeste dimensioni, altre ancora si tratta di una šajka, come nel nostro caso. 

Si potrebbe scrivere un romanzo sulla storia di queste imbarcazioni. La šajka era un tipo di galea in legno che ha dato il nome alle cosiddette Šajkaši, le truppe della flottiglia fluviale a guardia del Danubio contro l'Impero Ottomano tra il XVI e il XIX secolo. A bordo della šajka, lungo il Kovinski Dunavac, si ha la sensazione di essere tra le pagine di Joseph Conrad  in “Cuore di Tenebra”, di navigare sul Nellie e risalire il fiume Congo, nel libero stato del Congo, al centro dell’Africa.

Questo Danubio non finisce mai di stupire, anche nei dettagli più banali: la vegetazione acquatica, i pontili di legno, i tuffi dei bambini, le capanne sospese sull’acqua, le barche a remi, i salici, le liane… Stupore ovunque. E poiché viviamo in un’epoca dove l’omologazione fa da padrona, è un’emozione preziosa. Ma questo stupore romantico dai toni ottocenteschi cambia repentinamente non appena la šajka lascia il canale e raggiunge il braccio principale del Danubio, passando sotto il ponte sospeso del gasdotto che alimenta la città con il gas naturale della compagnia di stato Srbijagas.

Smederevo è oggi una città industriale, centro della produzione serba di acciaio. L'ex acciaieria SARTID ha una lunga storia di investimenti esteri, nazionalizzazioni durante il periodo di Tito, privatizzazioni dopo la guerra degli anni Novanta e ulteriori passaggi in anni recenti. È stata attiva dal 1913 al 2003. Durante la guerra jugoslava aveva subito sanzioni internazionali perdendo valore di mercato e andando incontro alla bancarotta. Nel 2003 era stata rilevata dalla compagnia statunitense US Steel fino al 2012, quando cominciò un processo di privatizzazioni e aste, per lo più andate a vuoto per mancanza di solide assicurazioni per i lavoratori. Dal 2016 è in mano al gruppo cinese Hesteel. L’attuale nome è HBIS GROUP Serbia Iron & Steel e la sede è stata spostata a Belgrado. Storie a noi familiari.

Passiamo accanto agli stabilimenti di questa storica acciaieria situata al porto, sulla via per Grocka. Ma dalla strada non si riesce a comprenderne l’entità. Sappiamo che c’è un’altra acciaieria del gruppo HBIS a Radinac, 6 km a Sud di Smederevo. Le immagini su internet sono impressionanti. Sul sito della compagnia si parla di China ESG Report, in pratica standard ambientali, sociali e di governance richiesti a livello internazionale. Ma se si tratta di greenwashing, non è dato sapere.

La contrapposizione è ancora più forte quando si pensa all’altra faccia produttiva di Smederevo: i vigneti e il vino, che ha qui radici storiche. Nel XV secolo, infatti, il despota serbo Đurađ Branković iniziò a costruire la fortezza di Smederevo. Quando più tardi divenne anche signore di Tokaj, si mise a coltivare in Ungheria i vigneti provenienti da Smederevo. È questa l’origine del vino bianco Tokaji, noto in tutto il mondo.

Sulla strada per Grocka ci fermiamo in una vineria per una degustazione. Stanno cercando di sviluppare un mercato del lusso attorno al vino di Smederevo. E allora pensiamo che questa città non può fare a meno di proiettare le sue contraddizioni sull’animo del visitatore, suscitando reazioni opposte. Vorremmo avere più tempo per capirla, ma la settima tappa ci attende.

 

7. Grocka. Rivoluzioni

Siamo a metà cammino, settima  giornata, 9 agosto. Perdiamo un pezzo ma ne acquistiamo un altro: domani Nicolas ci lascia per tornare a casa; stasera Giulia ci raggiunge da Torino, via Belgrado.

Ci hanno suggerito che chi di noi deve partire, farebbe meglio a raggiungere l’aeroporto il prima possibile, poiché domani, 10 agosto, chiuderanno le strade di Belgrado per una grossa manifestazione di piazza. Alcuni attivisti ce ne avevano parlato al nostro arrivo in Serbia.

Grocka si trova 30 km a sud di Belgrado. Si potrebbe anche provare ad andare, ma la manifestazione sarà nel tardo pomeriggio ed è prevista una partecipazione massiccia, che confluirà a Belgrado da tutta la Serbia. Diventerebbe complicato raggiungere il gruppo domani notte a Ivanovo, sull’altra sponda. Optiamo per il no e continuiamo come da programma. Chi ha curiosità sull’argomento, potrà leggere le news su internet o chiedere informazioni agli attivisti di Belgrado quando saremo là tra due giorni.

Ma di che argomento si tratta? Questa storia si trascina ormai da qualche anno. Nel 2019 il governo serbo aveva concesso permessi per l’estrazione di litio a un gruppo anglo-australiano, la Rio Tinto. Nel 2022 aveva revocato le concessioni per le forti proteste contro l’apertura della miniera e per il timore di perdere consensi elettorali. Adesso, una serie di fattori hanno riacceso la miccia

In primis la sentenza della Corte costituzionale serba, la quale ha dichiarato a luglio che la revoca delle concessioni aveva violato la Costituzione. A questo, si aggiungono fattori di politica internazionale e dello status della Serbia come paese candidato ad entrare in UE. Nella valle del fiume Jadar era stato scoperto nel 2004 il più grande giacimento europeo di litio e borato. Entrambi i minerali fanno parte dell’elenco delle 34 materie prime critiche fondamentali alla transizione verde, e oggetto di un recente regolamento europeo che prevede l’estrazione in Europa di questi minerali per ridurre la dipendenza dalla Cina. La miniera di Jadar diventa quindi strategica per l’Unione Europea che, oltre ad aumentare la propria autonomia, spera di allontanare il paese dall’influenza russa e cinese. 

Le proteste sono state lanciate dalle iniziative dei contadini della valle del fiume Jadar, nella Serbia occidentale. Un’area a vocazione agricola dove i residenti lavorano principalmente nella produzione alimentare. Nell'area di estrazione prevista ci sono due fiumi: lo Jadar e la Korenita. Venti chilometri a valle, lo Jadar confluisce nella Drina, che a sua volta si unisce alla Sava e al Danubio. 

Ecco, questo è il contesto, la polveriera in cui si inserisce la massiccia manifestazione di domani. Le proteste della popolazione si concentrano sul fatto che l’impatto ambientale delle attività estrattive sarebbe dannoso per l’ecosistema e le persone. Nonostante le dubbie rassicurazioni della Rio Tinto (è bene ricordare che la Rio Tinto ha in passato basato gran parte delle sue fortune sul carbone e sull’uranio), i rischi per le falde acquifere sotterranee sono elevati. Va anche notato che se da un lato il governo vuol fare della Serbia un leader della transizione verde, dall’altro continua a investire pesantemente in operazioni legate all’Oil&Gas e al carbone. Insomma, ancora confluenze, ancora contraddizioni. 

Qui, dal campeggio di Grocka, sembra tutto molto lontano. La nostra necessità più impellente è quella della sopravvivenza quotidiana: pensare alle provviste d’acqua da portarci dietro, al cibo, alle vesciche, alle tendiniti, al riposo, al montare tende, al lavare noi e i nostri indumenti. Il tutto a 37°C di temperatura. Unico sollievo, l’escursione termica nelle ore notturne.  

Al mattino, prima di lasciare Grocka e attraversare il Danubio per raggiungere Jabukov con le barche dei pescatori, leggiamo alcuni estratti di Henry D. Thoreau. Per lui, camminare è un atto rivoluzionario. E anche per noi. Il pensiero corre ai manifestanti di domani, mentre marciano per le strade di Belgrado e scrivono il loro dissenso sui tombini: Rio Tinto, via dalla Serbia! 

 

8. Ivanovo. Scappo dalla città

Si arriva a Ivanovo da un sentiero che corre sulla cresta di un terrapieno. “Faceva parte delle opere previste per sistemare gli argini del fiume. È stato costruito da lavoratori ungheresi nella seconda metà del XIX secolo”. Così ci dice Vladimir,  gestore con la moglie Jelena del Cyclo Camp. Ivanovo è un villaggio di 1000 abitanti circondato da canali, un'oasi verde nella pianura del Banato. Siamo a 21 chilometri dal centro amministrativo di Pančevo che, dalla riva sinistra del fiume, fronteggia Belgrado sull'altra sponda. 

Il villaggio ospita una comunità ungherese composta dai discendenti degli operai che avevano costruito gli argini. Si è sviluppato proprio in relazione ai lavori di bonifica delle pianure alluvionali per ottenere terre coltivabili.  

Così come i fiumi che caratterizzano il paesaggio serbo - con le loro confluenze, mescolanze e intrecci - anche le genti sono confluite in quest’area in maniera sinuosa, dando vita a luoghi inaspettati come questo.

Ivanovo è stato fondato nel 1868. È il più recente insediamento di quest'area amministrativa. I primi ad insediarsi furono i pauliciani bulgari. Poi arrivarono tedeschi e ungheresi.

A differenza di altri villaggi da cui la gente se ne va, qui sembra esserci una controtendenza: ci si stabilisce a Ivanovo acquistando case e appezzamenti. Forse è quanto hanno fatto anche Vladimir e Jelena, con la loro piccola proprietà dotata di un ampio terreno su cui ospitano camperisti e backpackers come noi. Chissà se avevano mai ospitato 50 camminatori affamati tutti insieme.

Sta di fatto che dopo lo spopolamento di cinquant’anni fa, quando due terzi degli abitanti se ne erano andati, adesso il villaggio sta lentamente guadagnando nuove leve, per lo più provenienti da Pančevo e Belgrado. La vicinanza a Belgrado e una buona viabilità rendono il luogo attraente per gente che cerca una vita più tranquilla.

Veniamo a sapere che proprio stasera c’è a Ivanovo quella che da noi sarebbe una festa del paese: bancarelle, torroncini e zucchero filato. Al posto della processione con banda popolare e statua del santo, però, qui hanno pensato a un altro tipo di intrattenimento. Davanti alla chiesa cattolica è stato allestito un grosso palco per ospitare un famoso gruppo di hard rock degli anni Novanta: gli Osvajači, i conquistatori, una band jugoslava formatosi a Kragujevac nel 1990. Il gruppo originario si scioglie nel 1997. In seguito, il cantante Zvonko Pantović da un lato e il chitarrista Dragan Urošević dall’altro, fondano due band distinte ma con lo stesso nome: gli Osvajači All Stars e gli Osvajači, creando così una gran confusione tra i fan. Infine, nel 2005, i due leader si riuniscono con una nuova formazione degli Osvajači. Noi crediamo di aver ascoltato quest’ultima formazione della band. Ma non possiamo metterci la mano sul fuoco.

 

9. Belgrado. Nostalgie

Per quanto affascinante, accantoniamo l’idea di passare la notte in tenda sulla Grande Isola della Guerra, dove la Sava abbraccia il Danubio. Non che non si possa fare, il campeggio libero è appositamente previsto. Ma bisogna arrivarci coi bagagli attraverso un ponte di barche allestito per accedere all’isola, e poi rimanere lì a guardia dei bagagli, senza luce né elettricità, senza possibilità di prepararci la cena. 

Optiamo così per una grande icona del socialismo reale all’epoca di Tito, che sicuramente potrà alloggiare cinquanta persone: l’Hotel Jugoslavija. Un luogo mitico dove sono confluiti proprio tutti. La scelta last minute ci dà ragione. Veniamo a sapere di essere tra gli ultimi ospiti di questo storico hotel: tra dieci giorni verrà chiuso e poi demolito. 

Un’icona, un simbolo, un mito dal passato leggendario. Era il più grande albergo dei Balcani, considerato tra gli hotel più belli del mondo, testimone chiave di eventi che hanno plasmato la storia del Paese. 

L'hotel fu inaugurato nel 1969 da Rudi Kolak, presidente della Camera di Commercio jugoslava. Il presidente Tito lo aveva inserito nel suo protocollo ufficiale. Divenne simbolo del lusso, con quadri preziosi, posate e piatti in oro e argento, con il lampadario Swarovski più grande del mondo. Poi, col tempo, l’hotel si è gradualmente declassato in hotel a 3 stelle. Noi paghiamo 27 € a persona.

Sembra strano pensare di dormire in camere che hanno ospitato personaggi che hanno fatto la Storia. Tutti venivano all’hotel Jugoslavija: re, regine, vip, capi di stato. E criminali. Dalla regina Elisabetta a Gheddafi, da Richard Nixon a Jimmy Carter, dagli astronauti dell’Apollo 11 a Tina Turner, dalla regina Juliana dei Paesi Bassi a Willy Brandt.

Dopo una procedura fallimentare, a marzo 2024 l’albergo è stato venduto all’asta per 27 milioni di Euro alla Millenium Team. Il nuovo proprietario è noto per una lunga storia di collaborazione con gli organi di governo, ed è uno dei principali attori dell'edilizia serba, dalle infrastrutture gas al controverso sviluppo del Belgrade Waterfront, finanziato con fondi del Golfo e progetto simbolo del Presidente Vučić.

Nonostante diverse organizzazioni abbiano sostenuto la necessità di effettuare una valutazione dettagliata sul significato culturale dell'hotel, tentando di proteggerlo come bene culturale, il piano urbanistico prevede comunque un nuovo complesso residenziale e un business center con un'altezza di 155 metri.

Ci muoviamo come zombie tra ambienti enormi, senza avventori, tra ascensori fatiscenti, qualcuno fuori uso, tra sale di rappresentanza vuote, tra corridoi infiniti ricoperti di una moquette gialla e blu. Saliamo la grande scala monumentale a chiocciola. Siamo presenti solo noi per la colazione. L’atmosfera rarefatta ha un che di surreale. L’umore del personale è attonito, silenzioso. “Non possiamo credere che verrà cancellata la memoria di un edificio come questo. Ha fatto la storia del nostro Paese”, ci dice sconsolata una ragazza alla reception, mentre consegniamo le chiavi prima di andare via.

“La Jugoslavia non esisteva più, ma c’era ancora lo Jugoslavija”. Così le parole del film di Nicolas Wagnières, orso d'oro al Festival di Berlino nel 2018. Adesso, non sarà più lì nemmeno quello.

 

10. Novi Sad. Nella casa dello studente

Guardando la mappa ci si rende subito conto che tra Belgrado e Novi Sad ci sono circa 100 km, il che significa tre giorni di cammino. E di giorni non ne abbiamo abbastanza. Quindi che si fa? Optiamo per un treno regionale e scendiamo a Sremski Karlovici, che sembra già Austria se non fosse per il  caldo a 38°C e l’assenza di montagne. Poi a piedi fino a Novi Sad, attraversando il Danubio e approdando di nuovo sulla riva sinistra tramite il Ponte della Libertà, Most Slobode, bombardato dalla NATO nel 1999. Dodici chilometri tra campi e strada asfaltata fino alla Studentski Dom, in Boulevard Despota Stefana.

L’associazione Opens Youth Center, che gestisce un dormitorio per circa 2000 studenti, ci mette a disposizione lo studentato: 25 piccoli appartamenti, un po’ arrangiati, ognuno dei quali ha due letti e un bagno privato. Per noi è un lusso, abituati come siamo a parchi comunali, campeggi e sistemazioni improvvisate in giardini privati.  

Arriviamo a Novi Sad, città universitaria, proprio nel giorno internazionale dello studente. Concerti e eventi si organizzano un po’ ovunque lungo il fiume. La cosa che colpisce maggiormente è il cambio repentino di atmosfera rispetto alle zone rurali balcaniche o alle vibrazioni caotiche di Belgrado. Qui sembra di essere in una cittadina tedesca o olandese, bene organizzata, giovane. Più Mitteleuropa che Balcani. Forse meno esotica allo sguardo. Ma anche qui, il rapporto col fiume assume un carattere tutto suo. È questo l’aspetto più esotico.

L’associazione Opens Youth Center ci invita a un picnic organizzato su una spiaggia lungo il fiume. La spiaggia è un po’ defilata dalla zona degli stabilimenti, dove il Danubio fa un altro dei suoi capricci e si insinua in una baia, Dunavac, con casette galleggianti, moli, barche, cabine. Una baia concepita apposta per il refrigerio dei locali; strutturata, ma con ampie aree selvagge. Il tutto, dominato dalla campata in cemento del Ponte della Libertà che, invece di infastidire, dà quasi un senso di protezione. Fa simpatia, insomma. 

Siamo invitati al centro studi. Vogliono presentarci le loro attività e farci conoscere i loro rappresentanti. La struttura è moderna, ariosa, creativa. Invoglia allo studio e al lavoro. In Serbia esistono nove centri studenteschi, ognuno dei quali mette a disposizione un certo numero di dormitori. Novi Sad è tra i più rinomati di questi centri, tanto da essere stata Capitale Europea della Cultura 2021, grazie anche alla spinta di Opens, una federazione di associazioni giovanili fondata nel 2016. 

Aleksandra ci mostra gli spazi, ci illustra le attività. I fondi principali provengono da bandi municipali, ma per buona parte sono anche finanziamenti Europei. Chiediamo quale sia il sentimento dei giovani rispetto all’accesso della Serbia in UE. Ci sembra scontato supporre che sia favorevole: giovani, internazionali, dinamici. La risposta ci stupisce: “Nel migliore dei casi sono indifferenti, ma per la maggior parte il sentimento è negativo”.

Le opinioni all'interno della società serba riflettono una complessa interazione tra percezioni storiche, propaganda nazionale e fattori reali. Tre le preoccupazioni principali: l’aumento dei prezzi, la corruzione diffusa, la disoccupazione. Se da un lato la maggioranza dei serbi esprime preoccupazioni socio-economiche comuni a tutta l'Europa, dall’altro, la visione della politica estera rimane scettica riguardo all'integrazione occidentale. Ci parlano anche della presenza in Serbia di giovani dissidenti provenienti dalla Russia. Non ufficialmente presenti ma tecnicamente assimilati a rifugiati politici. Si tratta spesso di ingegneri informatici upper class. “È una situazione complessa e piuttosto ambigua”, conclude Aleksandra.

 

11. Gložan. Confini

Sul Danubio, non sempre i ponti sono a “portata di piede”. Quindi, ci siamo spesso fatti trasportare da una sponda all’altra via barca. Però qui siamo al confine con l’Ue: dall’altro lato del Danubio c’è la Croazia. Mancano dieci chilometri al confine, poi c’è la frontiera: il Ponte del 25 maggio, che attraversa il Danubio al 1297° chilometro. Di qua dal ponte, Bačka Palanka, Serbia. Di là dal ponte Ilok, Croazia. You are now leaving the Serbian Sector

Ci informiamo se possiamo attraversare il ponte a piedi. Ci dicono di sì, anche se i rispettivi checkpoint non sono esattamente concepiti per i viandanti, solo per gli autoveicoli. Non c’è un gabbiotto laterale dedicato al controllo documenti per chi cammina a piedi. La fila per i nostri controlli confluisce nella fila prevista per le auto.

Il ponte è lungo 825 metri. È stato inaugurato nel 1974 come “ponte 25 maggio”, in onore del Presidente Tito, che in quella data compiva gli anni. Fu danneggiato durante il bombardamento NATO sulla Jugoslavia nell’aprile del 1999 e, dopo la ricostruzione, è stato aperto al traffico nell’aprile 2002.

“Abbiamo tutti passaporti europei. Che sarà mai?”, pensiamo mentre ci avviciniamo al checkpoint serbo. Ma non sappiamo che le operazioni da effettuare sono piuttosto complesse.

Intanto - una buona notizia - il furgone può lasciare la Serbia carico di tutti i nostri bagagli e vettovaglie: caffettiere, fornelli elettrici, cavi, prolunghe e moltiplicatori, detersivi, spugnette, tubo flessibile da usare nelle emergenze, pentole, contenitori di plastica, coltelli, taglieri, borse frigo, cibo. È una buona notizia perché si temeva di dover trascinare tutte quelle cose sotto il sole, a 38°C, per quasi un chilometro di ponte.

Dalla Serbia usciamo piuttosto agevolmente. Le cose si fanno più complicate dall’altro lato del ponte, al checkpoint croato. “La frontiera è il mentre, il confine l'adesso”, per citare le parole di Angelo Floramo in “Breve storia sentimentale dei Balcani”, una delle nostre letture mattutine.

E in effetti questo avverbio, il mentre, dura parecchio e siamo stremati quando arriviamo dall’altro lato del ponte. Qui ci raggiunge il nostro furgone, con targa della Repubblica della Macedonia del Nord. Ljupco, trasportatore professionista, sa che ci faranno scaricare tutto, che il furgone dovrà passare dall’altro lato completamente vuoto perché le nostre cose risulterebbero come merci commerciali.

Cominciamo a scaricare i bagagli e le vettovaglie di cinquanta persone sotto il sole cocente. I cento metri che ci dividono dal checkpoint sembrano lontani chilometri. Superati i controlli, due agenti della polizia croata (chiamati chissà perché dalla proprietaria del campeggio in cui alloggiamo stanotte) ci attendono sorridenti: “Benvenuti in Croazia”. Siamo in Ue.  

 

 

12. Šarengrad. Fulmini e Saette

Dinka ci ha preparato una cena a base di brodo di pollo e zuppa di fagioli. Siamo arrivati al suo campeggio al tramonto. Stanchi, sporchi e affamati.

Il sito è indicato come campeggio. È molto suggestivo ma, in realtà, non ha niente che richiami l’idea di un campeggio, se non un ampio prato davanti alla casa dove si possono piantare tende in riva al fiume. 

È una casa privata a due piani con cucina e living room: un annesso squadrato con grandi vetrate e travi di legno. Attraverso il living room si accede a un disbrigo interno, un cortiletto con lavandino, due cani e una scala che conduce alla balaustra superiore. Sulla destra della scala, un bagno esterno e una doccia.

Il cielo minaccia pioggia, il che non è male perché le temperature sono state insostenibili negli ultimi giorni. La proprietaria ci dice che, in caso di pioggia, possiamo buttarci sui due divani del living room, così lo chiama, e usare la stanza al piano di sopra con un letto matrimoniale. Possiamo anche usare la “libreria”. La libreria è una casetta di legno sul prato antistante la casa. Deliziosa, se non che sembra la casa dei lillipuziani dove al massimo ci entrano due persone abbassando la testa. E di libri non se ne vedono.

Al limite del prato davanti alla casa, dove piazziamo le tende in ordine sparso, c’è un gazebo rotondo che si affaccia sul fiume. Un palo della luce, sbilenco, pende pericolosamente tra le chiome degli alberi sulla riva. Piazziamo le tende anche sotto gli alberi per legarci i fili della biancheria. Il luogo ha richiami da profondo sud americano. Ricorda le pagine di Tom Sawyer. All’interno, affissa su una trave, c’è una targa con un logo: USAid. 

Col passare delle ore, la minaccia di pioggia si trasforma in allerta. All’orizzonte, oltre la riva serba, si vedono fulmini. Dieci secondi, poi il tuono. Cerchiamo su internet: Temporale in campeggio, cosa fare. Leggiamo. “Una tenda da campeggio non offre protezione contro i fulmini”. Ecco. “Tuttavia”, continuiamo a leggere, “adottando misure preventive si può ridurre il rischio”. Bene. “È consigliato ripararsi in macchina”. Ma siamo a piedi! “Evitare di: piazzare le tende sotto gli alberi, sistemarsi sulle rive dei fiumi, piazzare le tende sotto i pali della luce, legare i fili della biancheria tra la tenda e gli alberi”. Bingo! 

Meno male che Dinka, per qualche motivo a noi oscuro, aveva chiamato la polizia locale per segnalare il nostro arrivo. Non sappiamo come siano andate le cose, ma la presenza della polizia, che all’inizio ci aveva colti di sorpresa, si è poi rivelata molto utile per la disponibilità ad accompagnare in macchina chi di noi era stroncato dal caldo. Potrebbe essere utile anche adesso se le cose dovessero mettersi al peggio. 

Ma questa ipotesi non si materializza. Tra il fulmine e il tuono i secondi cominciano gradualmente ad aumentare. Dieci, dodici, quindici… Fulmini e saette ci sfiorano e passano oltre. L’alba è serena a Sarentrad, un minuscolo villaggio rurale di poche case. Il giorno che ci aspetta è più caldo che mai. Ventisette chilometri da qui fino a Vukovar, tredicesima e ultima tappa 2024.

 

13. Vukovar: Rosso Danubio

Talvolta, le torri piezometriche trascendono l’ingegneria idraulica per diventare strumenti di riconoscibilità territoriale. Se è così per molti luoghi, a Vukovar questa riconoscibilità assume un significato ancora più forte.

La vecchia torre idrica di Vukovar non riusciva più a soddisfare le esigenze della città con i suoi 19 metri di altezza e una capacità di 50 mila litri. Nel 1968 una nuova torre fu costruita per l’approvvigionamento idrico. Alta 50 metri e dotata di un serbatoio di 2200 metri cubi, divenne tristemente nota come simbolo nazionale della resistenza croata. Fu bersaglio dell’esercito jugoslavo e dei paramilitari serbi, i četnici, durante il sanguinoso assedio della guerra serbo-croata nel 1991. 

Si arriva a Vukovar in un torrido 15 agosto. La scelta di Vukovar come ultima tappa è dovuta a ragioni geografiche. Ma non possiamo ignorare il ruolo di questa città durante la guerra degli anni Novanta. Anzi, corona perfettamente la nostra metafora sulle “confluenze”, il leitmotiv che ci siamo dati per il cammino 2024. Confluenze che qui sono straripate, hanno scardinato gli argini e fatto esondare tutti i conflitti etnico-religiosi che scorrevano latenti. 

Anche il nome Domovinski Rat, guerra patriottica, come è chiamata in Croazia, la dice lunga sulle cause profonde che hanno scatenato il conflitto. Perché tutti gli stati coinvolti nella guerra della ex Jugoslavia parlano di guerra patriottica, lacerati com’erano da contrapposte aspirazioni nazionali e identitarie.

37°C, accidia pomeridiana, controra balcanica. I negozi sono quasi tutti chiusi: siamo in un territorio a prevalenza cattolica. Anche la religione è emblema della definizione identitaria nazionale. Ci stupisce sapere che, a Ferragosto, un’ordinanza proibisce alle poche panetterie aperte di vendere prodotti che non siano pane. Rinunciamo a una Coca Cola fredda e ci avviamo alla Torre dell’acqua, recentemente rientrata nella Federazione Mondiale delle Grandi Torri, insieme a Torre Eiffel e Empire State. “Così la nostra storia risuonerà in tutto il mondo”, si legge in una frase del sito web.

Dopo i lavori di riqualificazione, la torre è stata aperta al pubblico nel 2020 e comprende un museo della memoria. Tutta la narrativa ruota attorno al tema della resistenza e dell’indipendenza croata. C’è pathos nel tono: “La torre ha resistito a oltre 600 colpi da parte degli aggressori e ha dimostrato la resistenza, lo spirito e il coraggio dei difensori croati, che hanno resistito agli attacchi di una delle principali forze militari al mondo e delle unità paramilitari dell'aggressore, non solo a Vukovar ma in tutta la Croazia, per la cui indipendenza e libertà hanno combattuto”.

Nel giugno 1991, la dichiarazione di indipendenza della Croazia provocò l'intervento militare serbo-jugoslavo, deciso a impedire che territori abitati da serbi fossero divisi dalla “madrepatria”. L’intero arsenale jugoslavo fu riversato sulla città. Quando Vukovar cadde a novembre, le truppe paramilitari serbe, armate da Belgrado, commisero crimini efferati contro i superstiti. Dopo l’intervento dell’Onu e il riconoscimento della Repubblica di Croazia, nel 1995 l’esercito croato lanciò due imponenti operazioni militari, Lampo e Tempesta, allo scopo di riconquistare i territori controllati dai serbi. Le operazioni portarono alla devastazione di interi villaggi e alla morte di numerosi civili, soprattutto serbi. 

È sempre un terreno scivoloso quello di una ricostruzione storica neutrale, di fronte alla disgregazione di una nazione e ai conflitti fratricidi per accaparrarsi le risorse di quella che era stata la ex Repubblica Socialista di Jugoslavia. 

Come si ricostruisce una nazione dopo una guerra fratricida? Come si supera il trauma? Esistono organizzazioni, come la Europe House di Vukovar, co-finanziata dall'UE, che tentano di rinnovare una comunità frammentata, con l’obiettivo di riconciliare i rapporti tra i diversi gruppi etnici e religiosi. Pur con qualche tentativo di superarla, esiste ancora l’istruzione segregata nelle scuole.

Passeggiamo verso il Memoriale della guerra. Il richiamo all’identità nazionale è evidente un po’ ovunque: nella narrativa museale, nell’imponente ricostruzione della chiesa cattolica di San Filippo e Giacomo, nelle croci che si notano sui prati, nei murales. Colpisce un luogo semiabbandonato, in cui ci imbattiamo per caso, a pochi metri dal Memorial Centre. Non ci sono croci. C’è una stella di David sul tetto della “mala sinagoga”, parzialmente ristrutturata, ma per il resto fatiscente. Ci si entra attraverso una vecchia porta in laterizi. “Mala” sta per piccola, perché quella grande fu devastata dai nazisti nel 1941 e definitivamente demolita nel 1958 dalle autorità comuniste della Jugoslavia.

Una piccola sinagoga con un piccolo cimitero: non più di cento lapidi con iscrizioni in diverse lingue. Una sporadica testimonianza, quasi dimenticata, di quel che fu Vukovar in passato. Una città multietnica dove le diverse etnie e culti religiosi convivevano pacificamente, una perla architettonica grazie ai fondi delle famiglie dominanti serbe e croate, del ceto imprenditoriale tedesco, ebraico e ungherese. 

 

 

Crediti:

  • Foto di Vincenzo Cammarata (fosphoro)
  • Si ringraziano, per i loro contributi fotografici, i compagni Fuorivia: Davide Bozzi, Giulia Cerrato, Laura Cignoli, Letizia Chiti, Giulia Demara, Luisa Guidi, Giulia Melilli, Matteo Pizzi.
  • Per le foto della manifestazione di Belgrado, un ringraziamento speciale a Vuk

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