Il summit di Bruxelles segna l'inizio di un lungo percorso destinato a ridisegnare le fondamenta dell'Unione europea. La larga adesione al patto sull'unione di bilancio sembra per il momento scongiurare la nascita di un'Europa a più velocità, temuta dai paesi dell'est, ma tutto potrebbe cambiare in fretta. Per i Balcani occidentali le prospettive di ingresso si fanno ancora più lontane
Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata oggi sul quotidiano Il riformista.
Con lo scivolamento della Gran Bretagna ai margini dal nucleo dell'Unione europea, e il contemporaneo ingresso della Croazia che ieri, firmando il trattato di accesso all'UE, si appresta a divenirne a tutti gli effetti il 28simo stato membro, la geografia politica del Vecchio continente slitta verso est.
Nella periferia orientale d'Europa, però, la grande disputa sul salvataggio dell'unità monetaria e politica dell'UE, sfociata ieri Bruxelles nel nuovo accordo intergovernativo (da affiancare al trattato Ue) per un'unione di bilancio, che dovrebbe essere sottoscritto entro marzo 2012, continua a suscitare non pochi timori.
Lo spettro che si aggira su questa parte del continente si chiama “Europa a due velocità” o “Europa ad integrazione variabile”. Uno scenario che spaventa molti stati dell'area, che in questa prospettiva si vedono destinati a rimanere sempre più marginali e periferici.
L'ampiezza dell'accordo di ieri che, a meno di sorprese provenienti dai parlamenti di Svezia, Repubblica ceca o Ungheria, dovrebbe raccogliere 26 degli attuali 27 membri dell'UE (manca all'appello soltanto Londra), a prima vista allontana il rischio di faglie e fratture ad oriente. Anzi, viste le difficoltà di paesi come Grecia, Italia, Spagna, a differenza di venti anni fa sembra essere la direttrice nord-sud quella potenzialmente più problematica.
Tutti i paesi dell'area orientale che non fanno parte dell'Eurozona, anche quelli più riottosi come l'Ungheria, hanno optato per un'adesione volontaria, pur di evitare l'isolamento. Le decisioni di oggi però, come scrive Timothy Garton Ash sul Guardian rappresentano soltanto l'inizio, e non la conclusione, di un lungo processo destinato a ridisegnare dalle fondamenta la struttura dell'Unione. Nell'evoluzione tumultuosa ed imprevedibile della crisi, le cose potrebbero ancora evolversi e cambiare in fretta.
Per paesi come la Romania e la Bulgaria, entrati nell'UE soltanto nel 2007, il legame con il “nocciolo duro” continentale rappresenta un obiettivo politico perseguito con tenacia dal crollo del Muro, e l'unica alternativa credibile per il proprio sviluppo politico, istituzionale, economico. Ecco perché tutti si affannano per non perdere il treno a trazione franco-tedesca. “L'Europa non deve essere divisa tra paesi che già adottano o meno l'euro. Non crediamo in un'Europa a due velocità”, aveva detto il primo ministro rumeno Emil Boc alla vigilia dell'incontro di Bruxelles.
Anche il premier bulgaro Boyko Borisov si è affrettato a ribadire l'intenzione della Bulgaria ad adottare la moneta unica nonostante le grigie prospettive del momento “non appena l'Eurozona fisserà i principi e le modalità” per risolvere i problemi che l'attanagliano. Atteggiamento simile più a nord, sul Baltico. “La maggioranza dei membri UE sono d'accordo con le misure approvate. La Gran Bretagna si è auto esclusa, ma l'Europa è unita”, ha dichiarato a caldo il presidente lituano Dalia Grybauskaite.
Non tutti guardano però ad un' eventuale UE a più velocità come ad un pericolo per l'Europa orientale. Secondo l'analista bulgaro Vladimir Shopov, il timore è in realtà più teorico che reale. “Con l'allagamento a 27, la costruzione di nuclei avanzati è una prospettiva inevitabile. La storia dell'integrazione europea ci insegna che questa strategia si è rivelata spesso vincente. Più che disgregare l'unità continentale, iniziative avanzate di un gruppo ristretto, come Schengen, hanno agito da volano, attirando paesi inizialmente rimasti fuori”.
Anche i Balcani occidentali, che (Croazia e Slovenia a parte) restano ancora fuori dall'UE, sono spettatori interessati dell'evolversi della situazione. La regione, nonostante tutto, continua ad essere la parte più euro-entusiasta del continente. Gli ostacoli al percorso europeo dei Balcani, Serbia in testa, appare però oggi sempre più complicato.
Belgrado, dopo aver proceduto agli arresti eccellenti dei criminali di guerra Mladic e Hadzic, sperava di ottenere ieri lo status ufficiale di candidato membro. Il no è arrivato però dalla Germania sulla questione della normalizzazione dei rapporti col Kosovo e tutto è rimandato (forse) a marzo 2012. Anche il Montenegro è stato rimandato all'anno prossimo, a quanto trapelato soprattutto a causa di pressioni francesi, mentre Bosnia, Albania e Kosovo restano al palo. Nemmeno la Macedonia fa passi avanti. Il Paese, candidato ufficiale dal 2005, nonostante una recente sentenza favorevole della Corte internazionale di Giustizia dell'Aja è ancora in attesa di una data di inizio dei negoziati di adesione, e rimane prigioniero del veto posto dalla Grecia sulla questione del nome.
A una, due o più velocità, per i Balcani occidentali l'Europa resta dov'è. Molto, ma molto lontana.
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