Una scena di Aus dem nichts di Fatih Akın

Una scena di Aus dem nichts di Fatih Akın

Il Festival di Cannes si avvia verso la conclusione, domenica l'annuncio della Palma d'oro: sotto tono rispetto all'edizione precedente ma sempre ricco di titoli interessanti, soprattutto provenienti dal sud-est Europa

26/05/2017 -  Nicola Falcinella Cannes

Un regista francese nomade, Toni Gatlif, porta energia in una Grecia esausta e un greco, Yorgos Lanthimos, la sua visione mortifera e cinica negli Stati Uniti. Intanto in Russia sono ambientati alcuni dei film migliori di un'edizione non eccezionale del Festival di Cannes . L'atteso 70° va verso la conclusione di domenica sera con la consegna della Palma d'oro, sfiancato da troppe misure di sicurezza che hanno complicato la vita dei festivalieri e con un concorso sotto tono, sicuramente molto più basso di quello del 2016. Alla conclusione mancano pochi titoli, tra i quali “Aus dem nichts” del turco-tedesco Fatih Akın.

Rimasto deluso con i primi due lungometraggi di finzione, “My Joy” e “Anime nella nebbia”, entrambi presentati a Cannes e rimasti senza premi, Sergei Loznitsa ci riprova con “A Gentle Creature”. Il regista ucraino, bielorusso di nascita, ha girato in Lettonia una storia ambientata nella Repubblica Russa. Il viaggio all'inferno di una donna che vive in campagna da sola con un cane e si trova rimandato indietro il pacco che aveva inviato al marito in carcere. Parte in autobus per incontrarlo e sapere il motivo del rifiuto, ma all'ingresso della prigione la respingono più volte. La donna prende alloggio in una città che vive alle spalle dei parenti dei detenuti, li sfrutta e se ne approfitta, tra prostitute, albergatori poco ortodossi, papponi e mediatori di vario tipo. La protagonista (interpretata dalla magnifica Vasilina Makovtseva, espressiva pur lavorando in sottrazione) quasi non parla, ma assiste a tutto e ascolta. Intorno a lei tutti si raccontano storie sempre più assurde e violente, bevono, festeggiano e ballano. Si imbatte nella corruzione, la burocrazia, un potere senza nome e sordo, guardie carcerarie crudeli e perverse (molto bella la scena del controllo dei doni per i detenuti, il pane, gli alimenti, le ciabatte e il dentifricio), la polizia violenta, inaffidabile e ricattatrice. Intanto il popolo soffre, subisce, si lamenta e dorme.

Loznitsa, che non risparmia ironie sul passato comunista, lo vorrebbe ridestare, con un cinema potente, iperrealista fino agli ultimi 20 minuti onirici e grotteschi. Splendida come sempre la fotografia, opera del romeno Oleg Mutu (collaboratore anche di Puiu e Mungiu), con quasi tutte le scene riprese in piano sequenza.

Più classico è “Loveless – Nelyubov” di Andrei Zvyagintsev, un buon lavoro dell'autore de “Il ritorno”, anche se non tra i suoi migliori: un'altra critica alla società e alla politica russa e al nazionalismo, un ritratto dell'avidità e della mancanza d'amore. Un film compatto e ben scritto, ma forse un po' programmatico e schematico e senza le trovate e la forza di “Leviathan” o le sfumature e la profondità dei personaggi di “Elena”. Usare, come fa il regista, il figlio per far venir fuori gli scontri tra genitori che stanno divorziando e non si occupano di lui ha un che di troppo prevedibile. Quando il ragazzo all'improvviso sparisce, il dramma esplode e padre e madre dovranno esporsi: per Zvyagintsev non si salva nessuno e i danni si ripetono, non si impara dall'esperienza.

Divide come sempre il greco Yorgos Lanthimos, il regista di “Dogtooth” e “The Lobster”, che ha girato negli Stati Uniti “The Killing of a Sacred Deer” con Colin Farrell e Nicole Kidman. La critica americana e inglese, soprattutto, ha incensato quest'opera che al contrario sembra aggiungere ai tanti limiti del regista anche i difetti di certo cinema americano. L'inizio con il primo piano di un'operazione a cuore aperto con sopra lo “Stabat mater” di Schubert prepara a un lungometraggio non fatto con la mano leggera. È la storia del chirurgo Steven Murphy e della sua famiglia, nella quale si insinua sempre più l'adolescente Martin che perseguita il padre e stuzzica la figlia tredicenne. Il ragazzo, l'irlandese Barry Keoghan visto nel bel “'71”, è molto bravo e ha la faccia giusta, ma il personaggio è così scontato e la malattia da lui indotta così immotivata e senza basi da risultare non credibile. Il suo scopo è vendicare la morte del padre dopo un'operazione al cuore nell'ospedale del dottor Murphy. Lanthimos ripropone lo schema dei film precedenti, appena adattato, per parlare ancora di potere, manipolazione, famiglia e sacrificio senza, al solito, gestire le metafore, e con un utilizzo urticante delle musiche. La Kidman è impiegata come una donna bambola, una bella figurina poco incisiva (il contrario di “The Buguiled” di Sofia Coppola dove è perfida) con diversi primi piani stretti dove c'è solo lei e che la astraggono dal contesto. Non è escluso che comunque il regista ellenico, come anche Zvyagintsev, possa ricevere qualche riconoscimento, in una competizione che al momento non ha un chiaro favorito.

Energia, musica, ouzo e sensualità sono gli ingredienti del trascinante “Djam” di Tony Gatlif, presentato fuori concorso. Il regista gitano francese di “Latcho drom”, “Vengo” ed “Exils” racconta della ventenne Djam, figlia di una cantante di rebetiko morta in Francia dove viveva esiliata. Siamo nel novembre 2016 e la giovane è mandata dallo zio da Lesbo fino a Istanbul con una biella della nave e un baglama. La protagonista ballerà e suonerà lo strumento nei locali per poi raggiungere l'amico dello zio per fare una copia del pezzo dell'imbarcazione, destinata a rimettersi in funzione al servizio del turismo sull'isola. Djam si imbatte però nella diciottenne francese Avril, che era partita con il fidanzato per andare al confine siriano per aiutare i profughi di passaggio ma era stata abbandonata e derubata. Le ragazze partono attraverso la Tracia e, dopo vari incontri, riescono a tornare all'isola. Una farà i conti con i ricordi della madre e la memoria del nonno, che era stato poliziotto al servizio del regime dei colonnelli, l'altra osserverà impotente la distesa di salvagenti, tende e abiti utilizzati dai fuggiaschi siriani approdati a Lesbo nell'anno precedente. Un film trascinato dall'esuberante protagonista Daphné Patakia (già Shooting Star al Festival di Berlino 2016 e vista in “Interruption” e “Spring Awakening”), una vera forza della natura, che si offre generosamente anche in varie scene di nudo. Non è tra i maggiori lavori di Gatlif, ne ha i soliti pregi (energia contagiosa, generosità, scene madri) e difetti e scompensi, ma si fa amare fin dalla scena d'apertura con Djam che balla e canta costeggiando un reticolato che delimita il confine.

Una rivelazione è il russo (per la precisione kabardino) Katemir Balagov, classe 1991 e allievo del grande Alexsandr Sokurov, che ha portato il suo debutto “Tesnota - Closeness” in Un certain regard. Siamo nel 1998 in Nord Caucaso, a Nalchik, capitale del Kabardino-Balkaria e città di nascita del regista, all'interno della comunità ebraica locale. La bella Ilana lavora come meccanico nell'officina del padre e si comporta da maschiaccio. Il fratello minore David si fidanza con Lea con una festa che coinvolge le famiglie, ma subito dopo i ragazzi sono rapiti in cambio di riscatto. Devono arrangiarsi da soli, la giustizia e lo Stato non sono per loro, si sentono estranei, non protetti e non voluti. La famiglia riceve poca solidarietà da parte della comunità e dovrà vendere tutto per trovare i soldi e Ilana prendere in mano la situazione. Saranno costretti ad andarsene, nella sequenza molto bella della partenza con le immagini rallentate della città, dei paesaggi e del viaggio, come fosse uno sradicamento, un addio definitivo. In “Tesnota” è forte la tensione, si sente tutta la difficoltà di una vita normale nel Nord del Caucaso.

Balagov ha molto stile e molto talento, la sua regia è curata, consapevole e potente, fa apposta a non far capire cosa stia succedendo. Quasi tutte le inquadrature sono giocate su due colori dominanti e contrastanti: soprattutto marrone – blu, marrone – verde, rosso – blu. Uno degli esordi più interessanti degli ultimi anni, un nome da segnare per il futuro se non si compiacerà troppo della propria bravura.

La sezione Cannes Classic ha poi proposto, in “una breve storia del festival”, uno dei capolavori del cinema jugoslavo, “Skupljači perja – Ho incontrato anche zingari felici” di Aleksandar Petrović, che nel 1967 vinse il Gran Prix.


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