Di madre bosniaca e padre montenegrino, Jakuta Alikavazovic è nata in Francia ma porta ancora dentro sé una lingua frammentata, il serbo-croato, come il Paese d'origine dei suoi. Fuga in blu è la sua prima opera tradotta in italiano. Un'intervista sul rapporto tra memoria e passato, sui destini dei migranti, sulla parola e il silenzio
Quest'articolo è stato originariamente pubblicato su Oblique.it
L’architettura occupa un ruolo importante in Fuga in blu, anzi è la prima cosa che si impone al lettore, grazie ad un prologo dedicato al cinema Londra-Luxor, luogo fantomatico e maestoso che diventa un vero e proprio personaggio, se non il protagonista del libro. Era però già presente in Corps volatils (Points,2010), come una cancellazione, una disgregazione…
L’architettura è innanzitutto un mezzo di localizzazione e di identificazione, al contempo visivo e mentale, perché abbiamo da un lato l’apparenza, la facciata, e dall’altro la profondità e lo spazio interno. Dopodiché, c’è evidentemente la metafora della letteratura come architettura, la metafora proustiana del libro-cattedrale. Io non ho certo la pretesa di scrivere libri-cattedrale, ma scrivo dei libri-cinema…deserti.
E poi l’architettura ha in sé un elemento di tensione, perché mi sembra davvero di parlare dell’umano, della necessità di trovare un rifugio, un punto fermo. E, nello stesso tempo, è una negoziazione perenne con le forze del tempo e della distruzione. Ha sempre bisogno di essere preservata. In Corps Volatils c’era questo versante, cupo e apocalittico, o meglio malinconico, dell’architettura. La pioggia corrodeva le facciate, a poco a poco tutto scompariva.
Qui si tratta piuttosto del luogo di uno sradicamento, di una compensazione per delle persone che non hanno un loro territorio e che, di conseguenza, si appropriano di questo. Un luogo estremamente massiccio e imponente nella sua architettura, quasi un bunker, e che al tempo stesso mantiene un lato immateriale e del tutto fittizio. È un cinema, un luogo di circolazione di immagini, di fantasmi, di proiezioni. E ci sono queste persone che sono in qualche modo amputate di una parte di loro. Sono figli della diaspora che, di conseguenza, avvertono la mancanza di quel territorio. C’è davvero una tensione tra la volontà di conservare e l’impossibilità di farlo. Un’impossibilità inevitabile, perché il peggio è sempre certo.
In questi luoghi, però, c’è anche un aspetto memoriale. Voglio dire che, oltre all’aspetto puramente architettonico, il luogo ha in sé anche la memoria di tutti i fatti che vi si sono svolti. Ci sono personaggi che appaiono e scompaiono, tracce di quello che è avvenuto in passato.
È vero, è proprio il luogo come posto della traccia e dell’apparizione. Io ho sempre più la tendenza a considerare la letteratura come un fenomeno di apparizione di fantasmi. Ed è proprio quello che succede nel cinema. C’è questa specie di stratificazione della storia, che conduce fino ai fatti più recenti. E i protagonisti sono inevitabilmente coscienti di fare parte del passato del luogo, che alla fine si incarna e torna a riproporsi. In realtà, è un po’ come una casa infestata. Ma con qualcosa di più astratto, di più letterario, più verbale…
C’è anche, mi pare, una parte di gioco. In questa cornice antica incontriamo una galleria di personaggi bizzarri, strampalati. Si ha l’impressione di trovarsi in certi film muti. C’è questo aspetto un po’ strano, in cui tutto è amplificato. C’è insomma un lato visivo molto forte. Inoltre, il romanzo è ambientato in un cinema in cui si muovono personaggi che hanno qualcosa di molto cinematografico. Quali sono state le tue fonti di ispirazione in questo senso?
È interessante quello che dici sul cinema muto, perché ripensandoci è proprio vero. Ci sono influenze di cui uno è perfettamente cosciente, come La donna che visse due volte di Hitchcock. Tutto quello che avviene nel libro, o almeno tutto quello che avviene all’inizio, e che innesca la narrazione, è esattamente come nel film di Hitchcock, con questa storia di una donna che cambia colore di capelli.
E anche il cinema muto, sì, senza dubbio. Non ci avevo pensato, ma se ci penso ora è evidente. C’è perfino il personaggio del messicano, detto “il Mimo”, che è un personaggio muto, che ha fatto del silenzio una sorta di sacerdozio. Poi, un’influenza costante per me sono i film noir degli anni Quaranta e Cinquanta: Un bacio e una pistola di Aldrich, per esempio, che trovo un film straordinario. Ne parlo anche nel libro che sto scrivendo adesso.
Sì, ho una percezione della realtà che in un primo momento è molto visiva, forse è un po’ un’ipertrofia della visione… Inoltre, trovo che il processo di conversione sia molto interessante: capire come qualcosa che non è letteratura diventi letteratura. Come una forma d’arte, o un fenomeno, lasci una traccia puramente verbale. Ci penso spesso. Voglio dire, alle frizioni tra i diversi modi espressivi.
In Fuga in blu c’è una galleria di personaggi un po’ umoristici, che si muovono all’interno di situazioni strane. A volte faccio in modo che si senta che è finto. Proprio come nei film in technicolor si sentono le luci. In certi film di Hitchcock non si può dire che i colori siano esattamente quelli della vita vera! Tutto è fatto in modo da mostrare l’artificio e, nello stesso tempo, da fare in modo che dopo un po’ ce ne si dimentichi.
In Fuga in blu affronti la questione della guerra nella ex Jugoslavia, ma lo fai in modo indiretto. Il conflitto ha un peso determinante sulla vita dei personaggi e sui loro rapporti, ma agisce segretamente, come un non detto. Cosa ha motivato questo approccio?
Molto probabilmente la mia esperienza personale del conflitto. I miei genitori sono originari della ex Jugoslavia. Mia madre viene dalla Bosnia, mio padre dal Montenegro. Io sono nata a Parigi e ho sempre vissuto in Francia. In Jugoslavia ci andavo durante le vacanze. Parlo il serbo-croato, anche se l’ho un po’ dimenticato. E quindi all’epoca percepivo tutto con questo sfasamento, questa distanza.
Naturalmente la guerra era al centro delle mie preoccupazioni. Ma c’era questa distanza che a me sembrava infinita. E soprattutto ero molto giovane, una ragazzina. E questa specie di sfasamento… era molto difficile. Tutto sommato, non ci dicevano molto. Prima di tutto, perché le informazioni non circolavano granché. Era prima dell’esplosione di internet. La sera ascoltavamo Radio France Internationale, qualche volta avevamo gli aggiornamenti via telefono, ma non sempre era possibile. Tutto era immerso in quel silenzio. Questo ha lasciato un’impronta abbastanza forte su di me.
A livello personale, era una novità per noi, perché nella mia famiglia ci piace confrontarci su tutto. E in quel momento, all’improvviso, c’era una nuova qualità di silenzio. E di inquietudine. Non c’era nessuna possibilità di dialogo mentre quei fatti accadevano. Prima c’erano delle discussioni politiche. Ma a quel punto, era finita. Dopotutto, non si può vivere il dialogo politico nello stesso modo quando c’è un conflitto in corso e si hanno parenti in pericolo, quando tutto è minacciato dalla rovina e dalla distruzione. Quindi il discorso non aveva più quella qualità di gioco che aveva prima nella conversazione. L’arte della conversazione era scomparsa. All’improvviso, c’era solo preoccupazione. Un silenzio che non avevo mai conosciuto prima.
Indossava un vestito di un
blu intenso, oltremare,
che persisteva sulla retina.
Mi fece un effetto strano,
quel blu, aveva corpo e
presenza eppure era
spirituale, immateriale,
assente. Nel mondo antico
i primi blu erano
considerati barbari;
più tardi, i colori ebbero
il loro proprio luogo.
Parlando delle persone che vengono dai Balcani, dici che la cosa che sanno fare meglio è mantenere il silenzio. Pensi che sia una qualità tipica delle persone originarie dei Balcani o è solo una battuta?
Lo dicevo per ridere, e anche per tagliare l’erba sotto i piedi a un certo tipo di cliché sui Balcani. Il cliché secondo cui portiamo gonne lunghe e beviamo vino mangiando formaggio di capra… Il cliché che chiamerei dei “Balcani-fisarmonica”, che è ancora in circolazione, soprattutto grazie a Kusturica. Era più che altro un modo per riderci sopra.
Al di là di questa situazione penso che il silenzio sia una virtù, sì. Sono intimamente convinta che l’ellissi, il non detto, gli spazi bianchi e il silenzio, siano quanto c’è di più interessante in letteratura. Eppure, per renderne la qualità siamo obbligati a parlarne. Ci troviamo di fronte a una specie di ossimoro. Come esprimere qualcosa che non è stato detto, che si fa fatica a dire, che non si può dire? E, alla fin fine, come dirlo? Penso che la cosa non sia priva di interesse.
In Fuga in blu la maggior parte dei personaggi si portano sulle spalle il peso di un passato complicato. E tuttavia riesci a farne degli esseri leggerissimi, direi aerei, che rivendicano il loro diritto a dimenticare. Questa rivendicazione del diritto all’oblio di sé stessi e di una storia traumatica è abbastanza rara. Abbiamo più spesso a che fare con una letteratura della memoria. Qual è la tua visione della memoria e dell’oblio?
Al di là della necessità di una memoria sociale, e politica, se considero l’aspetto estetico, artistico, della questione (ripeto, non parlo della mia visione sociale e politica), ho una visione della memoria che in realtà si ispira molto alla mnemotecnica. E, tornando alla prima domanda, è per questo che i luoghi sono così importanti.
La mnemotecnica è una tecnica medievale di memorizzazione, un modo per ricordare, perché all’epoca era complicato conservare i testi. E quindi bisognava assicurarne la continuazione dentro di sé. La propria testa era ancora il posto più sicuro per salvaguardarli. E in questa tecnica di ricordo ritroviamo il motivo architettonico. In pratica, ci si immagina uno spazio e si dispongono le parti del discorso che si vogliono ricordare, i vari episodi dei poemi epici per esempio. Stiamo parlando di testi di una lunghezza incredibile. È uno strumento che abbiamo perso. Insomma, disponi nello spazio quello che vuoi ricordare, e poi quando sei in una situazione di parola, di declamazione, attraversi mentalmente quello spazio. E grazie allo spazio che ti sei costruito nella testa, tutto ritorna.
Basta entrarci. Per esempio, se dici: «Ho messo mio figlio in salotto» (è una specie di analisi selvaggia, la mia!), oppure: «Nella biblioteca c’è la mia prima storia d’amore» eccetera. Basta attraversare le stanze con la mente e tutto ritorna. Per concludere, ciò che è molto interessante in queste tecniche, e che ritroviamo menzionato nei numerosi trattati sull’argomento, è l’ultimo stadio dell’arte della memoria, lo stadio più raffinato e più complicato da padroneggiare che è l’arte dell’oblio. Perché, di tanto in tanto, è necessario azzerare tutto. Era considerata una vera e propria arte, e penso che abbia avuto una grande influenza su di me. Anche perché, di fatto, la possibilità del perfetto oblio sta scomparendo sempre di più. In parte perché è indubbiamente impossibile per l’uomo, dal momento che, comunque sia, ci sono sempre i sintomi che tornano a galla.
La psicanalisi ne ha fatto strumenti di conoscenza, ma anche una fede. Nel senso che ci dice che non è possibile dimenticare, e che se le cose riemergono siamo obbligati a confrontarci con esse. E d’altra parte è vero anche in termini di tecnologia, perché ci sono tracce ovunque. E anche quello che credevamo scomparso torna a galla, negli archivi informatici, nella digitalizzazione dei manoscritti. È una specie di flusso generale, di memoria esterna all’individuo, che fluttua tra le nuvole. E allora quello che mi chiedo è: esiste ancora un diritto all’oblio oggi? Ho accennato un po’ al libro che sto scrivendo adesso, che parla molto di questo.
Giusto per curiosità, in cosa consisteva la tecnica dell’oblio?
Allora, c’erano diverse tecniche. Ce n’era una che mi sembra molto pratica, e che consiste nel cancellare mentalmente un quadro. A poco a poco ti sbarazzi di tutto. Praticamente è un esercizio di meditazione. L’altro procedimento di cui ho avuto notizia prevede di immaginare tutto quello che si è memorizzato come dei personaggi, e di farli saltare fuori dalla finestra. È estremamente violento, l’oblio. Ha qualcosa di una purificazione, e quindi di un sacrificio, di un assassinio.
C’è una violenza nell’oblio, ma una violenza che è necessaria, se controllata. Personalmente, quello che mi inquieta è l’incompiutezza. Che può essere l’incompiutezza della memoria di cui non si ha un controllo completo, che non è interamente vissuta, e che perciò è una memoria subita. Oppure l’incompiutezza di un oblio che in realtà non è un vero e proprio oblio, e che quindi prende la forma di un sintomo. Non pensare a qualcosa non significa averlo dimenticato.
Fuga in blu può essere letto anche come una riflessione sulla perdita delle origini. In particolare, definisci la condizione degli esuli balcanici come una distanza tra due punti di cui uno è perso per sempre. E d’altra parte, le due protagoniste, Esme e Ariana sono caratterizzate una dalla sua assenza, e l’altra dalla sua astrazione. Mi sembra che, in fondo, si tratti di due immagini di questa condizione ambigua. Da dove viene questa idea?
Viene probabilmente dalla difficoltà che hanno le persone a dire le cose, ad attribuirgli un nome. Poco fa, per esempio, ho detto: parlo il serbo-croato. Questa lingua si chiamava così quando ero piccola, quando l’ho imparata, ma adesso non si chiama più così. C’è tutta una frammentazione del territorio, dei nomi, del modo in cui chiamiamo le cose. E alla fine, uno è obbligato, ogni volta che ne parla, a riconfigurare tutto in modo intellettuale, per sé e per il suo interlocutore. C’è una distanza, un bisogno di intellettualizzare qualcosa che normalmente è uno slancio spontaneo della persona: l’origine è l’origine, la casa è la casa. Ma una volta che non c’è più, devi ripassare ogni volta per quel frammento di storia distruttrice che ha portato a fare di un luogo che esisteva una finzione, o un passato. Che poi è la stessa cosa. E allora mi chiedo: com’è che si fa? Era questa l’idea.
L’idea della sospensione, dello scarto, di non essere né qui né là, può secondo te applicarsi alla condizione di qualsiasi esule, o la vedi più come una cosa propria degli esuli dei Balcani?
No, credo che sia una proprietà dell’esilio in generale e più il ritorno è impossibile, più penso che questo sentimento di perdita sia forte. La perdita dei punti di riferimento, il disorientamento è potenziato ancora di più da quello spostamento forzato che sono la diaspora, o l’esilio. E anche quando lo spostamento è scelto, in realtà è indotto da ragioni economiche o di altro tipo, e quindi subisci comunque un po’ questo disorientamento, questa perdita. Sia che si tratti di uno status sociale, della lingua materna, sia della necessità costante di saper rispondere in un’altra lingua. Il che può anche essere una liberazione. Dipende dal modo in cui è avvenuto lo spostamento, immagino. Ma c’è, per forza di cose, uno scarto dello sguardo. Edward Saïd, in Riflessioni sull’esilio, finisce per dire (no, non so se finisce per dirlo, ma è così che me lo ricordo) che in definitiva la letteratura è questo sguardo dell’esilio/dell’esiliato, per cui si è nello stesso tempo fuori e dentro.
Il tema della perdita era già al centro dei tuoi libri precedenti, Histoires contre nature e Corps volatils. Che ruolo ha nella tua scrittura?
Per me si tratta davvero del motore della scrittura, o meglio del vuoto che permette il dispiegarsi della narrazione. È il vuoto del mozzo che fa girare la ruota. È il vuoto centrale intorno a cui è costruita la ruota e che consente la rotazione, il movimento. E la letteratura è movimento. È un’arte del tempo, un dispiegarsi del tempo.
Credo davvero che questa mancanza originaria, questa perdita, che certo prende forme diverse a seconda dei libri, della mia evoluzione personale, sia un momento che c’è sempre. Può essere un punto cieco, oppure un’ellissi, come in Histoires contre nature. Sono una specie di novelle che si dispongono a raggio, come frammenti intorno a un vuoto centrale che non è mai chiaramente esplicitato.
Anche in Corps volatils c’è la perdita, ma sotto un altro aspetto. Sì, è indubbiamente il motore della scrittura. Anche se è più un dispositivo che il risultato di una perdita personale. O se perdita c’è, potrebbe essere una perdita di cui non ho coscienza e che si esprime nella letteratura.
Fuga in blu è la storia di due sorelle che si riflettono l’una nell’altra come in uno specchio. D’altra parte, il tema dello specchio trova un riferimento concreto nella galleria degli specchi del Londra-Luxor. E tutto il testo funziona in fondo come un gioco di specchi, con delle corrispondenze più o meno nascoste. I tuoi specchi però rinviano dei riflessi che non sono mai del tutto simmetrici. Ci sono sempre delle false corrispondenze...
È uno dei motivi che mi vengono dalla letteratura di genere. Dal cinema e dalla letteratura di genere. È quasi il doppelgänger, il doppio inquietante, lo sdoppiamento. Uno dei momenti più angoscianti della storia del riflesso è il momento del riflesso autonomo. Il momento del distacco, quando all’improvviso il tuo riflesso acquista un’autonomia. Questi devono essere ricordi cinematografici dell’infanzia, perché ho veramente in mente delle scene precise. All’improvviso il tuo riflesso vive di vita propria, ed è come se la tua personalità fosse passata in lui. È un motivo che ritroviamo molto recentemente in Lynch, ma che in realtà attraversa tutto il genere del fantastico inquietante.
Il piano superiore
del Londra-Luxor
era un monumento
al disorientamento;
lo zio vi aveva provveduto
lui stesso. Aveva supervisionato
di persona la posa di pareti
scorrevoli, paraventi
e grandi specchi che
rendevano lo spazio
impossibile da capire.
In Lynch, però, c’è un aspetto barocco abbastanza evidente. Anche nel tuo libro, mi pare che ci sia qualcosa dello specchio barocco. Avevi in mente qualche opera o artista?
È molto divertente lo specchio barocco. E più che soltanto lo specchio, tutte le superfici riflettenti. All’inizio del libro incontriamo il personaggio di Valéry, che scomparirà abbastanza rapidamente. Valéry si guarda in un cucchiaino e dice, se non sbaglio, che il suo riflesso non è conforme all’originale. Non lo giudica conforme, e quindi lo cancella.
Questo riflesso distorto è lo specchio barocco, nella sua dimensione di gioco, e anche di malinconia. La malinconia allo specchio. Penso a un quadro del Parmigianino che si chiama Autoritratto allo specchio convesso. La mano che dipinge è molto più grande rispetto alla scala. L’artista mette in rilievo, fa risaltare lo strumento della creazione, la sua mano.
Trovo estremamente interessante il fatto di giocare con il riflesso, cambiare la scala di grandezza, deformare una prospettiva in modo da mettere qualcosa in risalto. Si può spingerlo sul versante della deformazione, come nel caso di Valéry e del suo cucchiaino, come sul versante della prova, degli indizi. Ma sempre in maniera ludica, un po’ come per la galleria degli specchi. Siamo comunque nell’ambito del gioco.
C’è tuttavia anche qualcosa che ha a che vedere con l’illusione. Qualcosa del mondo alla rovescia, del rapporto tra reale e immaginario…
Quello è lo specchio di Alice, è l’altra parte dello specchio, il passaggio alla finzione, al gioco, alla letteratura. Tutti i mezzi di rappresentazione che possono essere la letteratura, o il cinema, o la pittura, sono nello stesso tempo specchi e finestre. Ha a che vedere con l’opaco e il trasparente. È un’illusione, nel senso che si tratta di una finzione, di una costruzione, ma possiamo anche giocare con i gradi di realismo, di fedeltà al reale. O al contrario, possiamo partire completamente verso l’illusione e mostrarla in quanto illusione, che esibisce la sua struttura e si impone in quanto tale. E che diventa autonoma. Ancora una volta è il riflesso che prende il sopravvento.
Sempre restando sul piano degli sdoppiamenti, c’è nella tua scrittura una seconda voce, spesso introdotta da trattini o parentesi, che interviene a modificare il racconto con commenti burleschi o ironici, spesso contraddittori. Essa produce un effetto di incertezza che rimette in causa la stabilità di quello che viene raccontato. Il che corrisponde perfettamente all’idea di vivere in un mondo instabile e opaco espressa da alcuni personaggi, come il Vicepresidente. Ma questa voce sembra essere anche qualcos’altro…
Io la sento come una specie di commentatore simultaneo, in un certo senso. Corrisponde, prima di tutto, al rapporto che ho con il mondo, un rapporto in cui c’è una voce che mi interroga su quel che succede. Ma mi sembra corrispondere anche all’epoca, che è completamente invasa da rappresentazioni, illusioni, nozioni spesso contraddittorie. E rispetto alle quali c’è una distanza.
La parentesi è una tecnica che mi appassiona. Perché, in qualche modo, è sia la voce dello scrittore nella lettura che, quando uno scrive, la voce del lettore nello scrittore. E poi soprattutto mi diverte moltissimo, mi fa ridere il fatto di creare questa specie di presa di distanza attraverso la parentesi, attraverso questa voce ironica senza un locutore immediatamente identificato o identificabile. La troviamo in tutti i passaggi alla terza persona, in tutto quello che è stile indiretto libero, dove in definitiva siamo dentro alla testa dei personaggi, e nello stesso tempo non lo siamo, perché è una parola indiretta, il frutto di una mediazione.
E questo corrisponde anche a un principio architettonico. È quasi l’equivalente dell’illusione del luogo. Ogni volta, suona falso (è un po’ come i muri vuoti, i controsoffitti, quella roba fintoegizia…). Suona falso ed è questa risonanza che entra in gioco nelle parentesi. Per ritornare a quello che dicevamo prima, è come il vuoto necessario all’interno della ruota. Ma è anche il vuoto necessario all’interno della struttura architettonica. Non si costruiscono dei tubi pieni, li si svuota, dopodiché abbiamo effetti d’eco. Penso che in questa specie di seconda voce ci sia un po’ di tutto questo. Ma soprattutto, la trovo divertente, mi fa ridere.
Fuga in blu è un libro attraversato dal colore, da questo blu che appare e scompare. Cosa rappresenta per te questo colore?
Non lo so, certe volte si è ossessionati da alcune cose che impregnano completamente la scrittura come un tessuto che viene dipinto. E qui il blu era davvero quell’immagine che c’è in una delle ultime scene del libro, e che in realtà è la prima scena che ho scritto. E poi, sai, quando uno scrive è un po’ stupido, soccombe al fascino di un’immagine, di una scena, di una musica interiore. Sì, uno diventa stupido, stupido come un innamorato.
Dovevo assolutamente capire cosa significasse quella prima scena, che in realtà poi ho spostato alla fine del libro. Il libro si è costruito su questa inversione. L’ultimo blocco che è andato a costituire il libro è stato il Londra-Luxor. Fuga in blu è esistito quindi per molto tempo senza il Londra-Luxor. Torniamo sempre alla questione dello specchio! Perciò il titolo italiano del libro [in originale: Le Londres-Louxor] ha eliminato questa inversione. È come un ritorno alle origini della scrittura!
In Fuga in blu, però, il blu rappresenta anche la perdita, la scomparsa. E nello stesso tempo è qualcosa di molto prezioso: ci sono dei personaggi che lo rubano, altri che lo tengono nascosto come un tesoro.
È un’idea legata a certi tipi di blu. E anche a quell’espressione francese che ha dato nome a un profumo: l’or bleu. È un’espressione magnifica e, per molto tempo, non essendo cresciuta in una famiglia francofona, non sapevo cosa significasse. Era qualcosa di misterioso. Naturalmente, indica il momento del crepuscolo, un momento che associo alla malinconia. Da qui viene questa costruzione della perdita. Ma in realtà il blu come colore, come tecnica, come carica simbolica, ha una lunga storia, perché è stato il colore dell’apparizione, e in particolare dell’apparizione della vergine. È un colore nobile, perché in un certo senso è il colore più immateriale. Quindi mi sembrava corrispondere perfettamente a questa estetica tra incarnazione dei personaggi e suggestione, evanescenza, a questa specie di incertezza sulla loro natura, sulla loro realtà. Penso che il blu si imponga come colore, allo stesso titolo per cui i personaggi si impongono come personaggi di finzione. Non c’è una volontà di realismo. O forse il reale è ciò che è già andato perso.
La questione dello spazio, della geografia, è centrale nel tuo libro. È una questione che, sotto diverse forme, ritorna nell’opera di molti autori contemporanei francesi (basta pensare al manifesto per una “letteraturamondo” o ai libri di Maylis de Kerangal). Da dove viene questo tema, quest’idea delle mappe, delle carte geografiche, che ossessiona Esme? E perché, secondo te, la geografia ha assunto così tanta importanza nella letteratura francese d’oggi?
Non vorrei parlare in nome della letteratura francese d’oggi… ma penso che probabilmente sia dovuto a una riflessione sullo spazio nel momento in cui si è persa la distanza, in cui tutti i punti sono raggiungibili, in cui possiamo andare dovunque. Élisée Reclus, che era un geografo anarchico e utopista, diceva: «Adesso che abbiamo esplorato la Terra e che non abbiamo trovato il Paradiso, dobbiamo crearlo». Lo trovo molto divertente. Questo per quanto riguarda la geografia.
La questione della carta è ancora un’altra cosa. La carta e la mappa sono già una riflessione, un’intellettualizzazione dello spazio, e quindi della geografia. Sono già un codice, un codice che non è somigliante. A meno di essere un pilota di aereo. E tuttavia produce un senso, mette ordine. Non corrisponde alla nostra percezione, anzi è il suo contrario, perché normalmente siamo a rasoterra, abbiamo un sguardo orizzontale. Mentre lo sguardo della carta è uno sguardo verticale. È ancora una volta una questione di distanza rispetto all’oggetto. È una forma di comprensione che non è possibile se non nella distanza. Ho un’affezione di tipo plastico per le carte. Sono belle, mi interessano. Trovo meravigliosa questa capacità di costruire intellettualmente qualcosa che è somigliante e che al tempo stesso spiega, chiarisce.
La carta è qualcosa che ha un rapporto diretto con l’oggetto che rappresenta o è qualcosa di parallelo?
Ha un po’ delle due cose. Una carta senza la realtà a cui si riferisce è una carta? È interessante se prendiamo, per esempio, le carte di quella che fu la Federazione jugoslava e che naturalmente non esiste più. La stessa cosa vale per molti altri paesi che hanno conosciuto uno spostamento delle frontiere. La carta continua a esistere, ma non esiste più in quanto carta. E allora che cos’è? Per esempio, se prendiamo – per continuare nella gioia – tutte quelle isole che sono state distrutte dallo tsunami, che cosa sono diventate le loro carte, adesso? Ma la carta è anche la possibilità di orientarsi, è qualcosa di rassicurante. È diretta, indiretta, e rassicurante.
La struttura di Fuga in blu assomiglia a uno spaesamento geografico. Uno spaesamento creato da una lunga serie di riferimenti all’architettura, ai posti, alle strade di Parigi, da un certo modo di girarci intorno. Ma anche da tutto ciò che ritorna, dalle corrispondenze eccetera. La materia narrativa non si sviluppa secondo una linea precisamente temporale.
Ho dei problemi con il racconto lineare, con la temporalità, perché penso che il tempo non trascorra nello stesso modo per tutti, né per tutto quel che accade. O almeno, non trascorre nello stesso modo per le mie voci contraddittorie. Lo spazio è per me un modo per risolvere il problema del tempo senza eluderlo.
* Alice Volpi è la traduttrice della versione italiana di Fuga in blu
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