I paesi dei Balcani stanno attraversando una vera e propria deindustrializzazione. Un destino ineludibile? Secondo l'economista Vladimir Gligorov non è così
(Pubblicato originariamente da Novi Magazin, il1 aprile 2013, selezionato da Le Courrier des Balkans e OBC)
I dati sono più o meno conosciuti. Nel corso degli ultimi dieci anni, i paesi dell'Europa centrale – Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria – hanno visto il valore della loro produzione industriale aumentare più rapidamente del Prodotto interno lordo. Per i paesi dei Balcani questo non è avvenuto, e alcuni, come la Serbia, hanno addirittura subito un calo della produzione industriale. Dal 2007, con l'affermarsi della crisi finanziaria globale, la caduta della produzione industriale si è accelerata: a titolo di esempio in Serbia è scesa del 10% tra il 2007 e il 2012.
La caduta è stata ancor più rilevante in Bulgaria, Croazia, Macedonia ed in particolare in Montenegro mentre il livello di produzione industriale è aumentata in Romania, Bosnia Erzegovina e in particolare in Albania. E' probabile che negli anni a venire non si verificheranno radicali cambi di rotta. Ma perché si è arrivati alla riduzione della produzione industriale nei Balcani?
Mancate esportazioni
Questo si spiega con la contrazione del mercato interno e anche con la difficoltà ad accedere a quelli dei paesi sviluppati. Questa difficoltà non dipende solo dall'aumento di barriere doganali, ma anche da altri elementi del contesto economico globale, che spingono sullo sviluppo di altri settori economici e non dell'industria.
Solitamente si ritiene che uno sviluppo industriale durevole dipenda da investimenti ingenti e che piccoli interventi sporadici non servano a nulla. Questo è particolarmente vero se la produzione dipende in gran parte dal mercato interno e se non ci sono significative produzioni industriali già in campo. In queste circostanze l'aumento del volume della produzione implica investimenti fissi rilevanti e probabilmente non porterà profitto perché il mercato nazionale è ristretto e quelli internazionali rimangono inaccessibili.
Questo non deve essere dimenticato da chi è a favore di un'economia ancora più chiusa e che desidererebbe l'introduzione di restrizioni doganali e altre misure protezioniste, nella convinzione che le sovvenzioni all'economia nazionale siano sufficienti a rilanciare lo sviluppo industriale.
L'Europa centrale
I paesi dell'Europa centrale hanno invece creduto nella liberalizzazione commerciale, che li ha aiutati a rinnovare la loro industria, con politiche economiche attente alla stabilità e al carattere sostenibile degli scambi con l'esterno. Inoltre con l'investimento in infrastrutture sia materiali che istituzionali hanno abbassato i costi delle imprese. Infine questi paesi hanno salvaguardato e addirittura accresciuto il livello di formazione dei lavoratori.
Ai giorni nostri la produzione industriale esige infatti una qualifica dei lavoratori superiore alla media di questi paesi, in particolare se si tiene conto di chi lavora nell'amministrazione o comunque per lo stato.
La possibile reazione allo choc provocato dai recenti cambiamenti economici e al fallimento di numerose aziende, in particolare industriali, è quella di un rinnovamento dell'industria grazie all'apporto di lavoratori qualificati o che si sono riqualificati per lavori che esigerebbero qualifiche inferiori.
Investire nell'industria
I paesi dell'Europa centrale si sono assicurati investimenti stranieri proprio nel ramo industriale mentre i paesi dei Balcani hanno investito tutto sullo sviluppo dei servizi. E' per questo che hanno perso un gran numero di lavoratori qualificati, sia perché emigrati all'estero, sia perché hanno trovato lavoro in attività dove il loro percorso di formazione non era necessario. E la necessità di investire nella formazione e nella riqualificazione della mano d'opera rappresenta oggi uno dei principali ostacoli al rinnovamento industriale di questi paesi.
Quando si guarda alla Serbia non è difficile vedere che tutti questi modelli sono in azione. Si è ridotta significativamente la capacità delle singole aziende di esportare, in particolare nel tessile. Se si separa dall'intera produzione quella destinata all'estero, quest'ultima risulta molto limitata. E con investimenti sporadici non è possibile pensare di conquistare il mercato estero.
(…)
Cambiare tutto
Inoltre nei Balcani sono molto limitati anche gli investimenti nelle infrastrutture, le scelte fatte in questo campo sono discutibili per non parlare dell'efficacia degli investimenti fatti.
I ritardi principali riguardano le infrastrutture ferroviarie, che solitamente sono molto più significative per lo sviluppo industriale che non la costruzione di strade. Non bisogna dimenticare inoltre i problemi istituzionali e in particolare il buon funzionamento dello stato di diritto e che ad esempio i costi legati al sistema politico ed economico in un paese come la Serbia sono enormi.
Il problema sta nel fatto che si dovrebbero riformare al contempo più cose. E' necessaria una riforma generale. E nel caso di piccoli passi sporadici a favore dell'industria, falliscono perché incompatibili con il sistema in vigore.
Per riassumere, i paesi dei Balcani hanno perso la loro industria perché le loro economie sono rimaste troppo chiuse, le loro politiche economiche hanno favorito i settori non-industriali, non vi sono stati investimenti nelle infrastrutture e il livello di formazione generale si è abbassato.
Per invertire questa tendenza e rilanciare lo sviluppo industriale occorrerebbe fare esattamente il contrario di tutto quanto è stato fatto sino ad ora, in tutti i campi, ed in maniera concertata, per non dire tutto d'un colpo.
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa.
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