Le guerre di dissoluzione jugoslava vengono spesso considerate un capitolo marginale della storia europea, ma le testimonianze di molti cittadini italiani restituiscono la memoria di conflitti che coinvolsero profondamente al di fuori dei confini dei paesi coinvolti
Nella rievocazione della storia europea più recente, le guerre di dissoluzione jugoslava vengono spesso dimenticate, eventualmente richiamate come l’ennesimo episodio di violenza in una periferia del continente da sempre turbolenta. Nella politica della memoria europea, Sarajevo ha fatto capolino in occasione del 28 giugno 2014, centenario dell’attentato che portò allo scoppio della Prima guerra mondiale. Ma i conflitti degli anni Novanta – fatta talvolta eccezione per gli episodi più tragici come il genocidio di Srebrenica – faticano a trovare spazio nelle commemorazioni pubbliche, nei programmi scolastici o nelle istituzioni museali.
Alcune ricerche recenti hanno tuttavia evidenziato quanto le guerre jugoslave abbiano coinvolto l’opinione pubblica europea e innescato numerose iniziative di solidarietà in diversi paesi. Tra il 2013 e il 2014, nell’ambito del progetto Cercavamo la Pace, OBCT si è impegnato a ricostruire l’impegno della società civile italiana in supporto delle popolazioni e a riportare alla luce le memorie di quell’esperienza, oggi conservate prevalentemente a livello individuale o coltivate in realtà circoscritte. Quello che emerge dalle testimonianze raccolte tra chi si impegnò in prima persona è un quadro complesso e sfaccettato, che apre numerose questioni. Tuttavia, il racconto corale complessivo riporta in particolare l’attenzione su quanto i conflitti jugoslavi furono sentiti e partecipati al di fuori dei paesi coinvolti, entrando a far parte del vissuto di molte persone in Italia e in Europa.
Un mare di relazioni
Una storia ancora poco raccontata è quella delle relazioni tra le due sponde dell’Adriatico nel secondo Novecento. Mentre i contrasti e le tensioni che hanno contraddistinto i rapporti in alcuni periodi storici sono spesso materia di discussione – basti pensare alle vicende della regione di confine alto-adriatica – dalle testimonianze emergono le memorie di una peculiare rete di rapporti e contatti personali.
I racconti dei testimoni sulle origini della mobilitazione di solidarietà degli anni Novanta riportano alla luce questa rete: “All'epoca la Magistrala, la strada che segue la costa da Trieste in giù, era veramente molto trafficata da furgoni, camioncini di italiani che portavano gli aiuti, magari attraverso i contatti che esistevano prima della guerra. È stata una delle caratteristiche ed unicità del coinvolgimento degli italiani: molti portavano degli aiuti umanitari alla gente che avevano conosciuto magari andando in vacanza lì un anno prima o anni prima”.
Mentre i legami costruiti dal turismo ritornano in numerosi racconti, altri si intrecciano ad un interesse di tipo politico. Un’attivista impegnata fin dalle prime fasi del conflitto si emoziona raccontando: “L’esperienza della Jugoslavia, con la costruzione del movimento dei paesi non allineati, era sembrata, nonostante le ombre, un punto di riferimento possibile per un socialismo diverso. Quindi c'era un affezionamento alla vicenda della Jugoslavia, che era in parte umano, per via delle vacanze, ma anche le vacanze venivano da quest'idea che la Jugoslavia fosse un paese a cui voler bene”.
Le relazioni riemergono negli ambiti più diversi, come quelli costruiti grazie ai gemellaggi stretti a partire dagli anni Sessanta tra diverse cittadine italiane e jugoslave. Ricorda un altro volontario: “molti di questi rapporti nascono, secondo me, più per caso che per ideologia. Nel senso che la città gemella di Ancona era Spalato e il primo contatto fu il sindacato Cgil che era gemellato con un sindacato di Spalato. Quelli della Cgil sono andati a Spalato e loro hanno detto: andate a sud, a Makarska e a Gradac”. Ovvero verso i primi campi profughi.
La “guerra in casa”
Fin dai primi giorni di combattimenti, il conflitto in ex Jugoslavia venne percepito come una “guerra in casa”. Le immagini che arrivavano in diretta televisiva nelle case degli italiani erano registrate a pochi chilometri di distanza, producendo un coinvolgimento sempre maggiore nell’opinione pubblica.
Le testimonianze rievocano una guerra sentita per via di un’attitudine umanitaria rafforzata da tale prossimità geografica: “Per me era inconcepibile che dei bambini come il mio, solo perché nati dall'altra parte dell'Adriatico, avessero un destino di sventura” sottolinea una volontaria. Mentre un altro spiega: “Io sono sempre stato abbastanza motivato in queste cose, ho sempre sentito la voglia di aiutare gli altri. Ma c'è stata una molla, perché io ci ero molto legato, l'ex Jugoslavia l'ho vissuta, l'ho girata da ragazzo. Quindi per me non poteva che essere così”.
Inoltre, era diffusa l’impressione che la vicenda in qualche modo riguardasse l’intero continente: “Credo che la questione jugoslava abbia impressionato davvero tutta l'Europa. Nel senso che l'idea che potesse essere scoppiata una guerra in Europa, dopo la Seconda guerra mondiale, credo abbia scosso tutte le persone con una coscienza civile e politica e con una sensibilità personale di un certo tipo. Quindi la solidarietà è stata grande. Abbiamo incrociato anche un convoglio che veniva dalla Scozia: anche loro portavano aiuti umanitari, un convoglio nato dai minatori scozzesi che ricordavano che all'epoca delle scelte thatcheriane – pesantissime sui minatori – proprio dalla Jugoslavia erano arrivati aiuti e solidarietà alla loro lotta”.
Spinti dalla prossimità, molti si approcciarono alla realtà jugoslava in guerra condizionati da difficoltà di interpretazione, visioni parziali, sedimentati cliché che figuravano un mondo distante e “altro”. L’impegno di numerosi volontari italiani risentì di tali approcci, ma al contempo spinse molti ad approfondire la conoscenza dei territori oltre l’Adriatico: “La cosa che mi ha colpito tantissimo – io in Jugoslavia non c'ero mai stato – è stato di trovare un popolo, delle persone, molto simili a noi. Al di là della lingua e di poche altre cose. Questo mi ha colpito. Il fatto di vedere una guerra, di quel tipo, colpire quelle persone”.
Quale Europa?
L’impegno diretto nel contesto bellico mise molte persone nella condizione di confrontarsi con le istituzioni sovranazionali attive nel conflitto. L’ “ora dell’Europa” era scattata, ma la risposta della Comunità europea era risultata tutt’altro che efficace. Nel corso del conflitto molte persone, di diversa provenienza e dalle convinzioni politiche più varie, discussero del ruolo e dei significati delle istituzioni europee come del destino politico del continente.
L’inattività e i problemi risultavano urgenti e gravi a chi era impegnato in prima persona: “L'Europa era immobile in quel periodo, proprio non sapeva come muoversi. Nel senso che c'erano problemi in Europa: la Francia e l'Inghilterra difendevano la Serbia, la Germania difendeva la Croazia. Per cui era un conflitto europeo più che dell'ex Jugoslavia”.
Volontari e attivisti si interrogavano sulle le responsabilità degli europei nel conflitto: “Per me personalmente, si è avuta chiara la percezione di quanto erano così vicini a noi, e di quanto anche noi avevamo delle responsabilità, al di là della storia italiana a Fiume e in Croazia. Lì si è capito benissimo quanto l’Europa non fosse preparata a una cosa del genere: dare subito l’ok alla Slovenia che si stacca, l’intervento del Vaticano per la Croazia, si è capito che comunque c’erano delle grosse responsabilità”.
A contempo, in molti ambienti della mobilitazione si rafforzava la fiducia in una diplomazia internazionale promossa dal basso: “Un po’ tutti quei giovani che sono andati sotto la spinta, al limite, della semplice solidarietà. Erano tutti animati dal voler ricongiungere, ricostruire rapporti e comunità. Sono stati, penso, gli unici europei veri. Gli europei delle istituzioni o parteggiavano per qualcuno, o nelle istituzioni si adagiavano a quelle che erano le compatibilità internazionali e ai giochi dei potenti”.
Le interviste restituiscono il peso dell’esperienza diretta in tal senso: “Mi sembrava che l'Europa come concetto fosse là. Tornavo qua con la sensazione di essere stato in Europa. La nicchia, l'eccezione di benessere era di qua, mentre là c'era il luogo centrale della storia in quel momento. Si percepiva che quella guerra avrebbe avuto conseguenze drammatiche, non poteva non cambiare il concetto di Europa”.
In alcuni casi ciò si traduceva nel tentativo di fare pressione sulle istituzioni europee, come ricorda un attivista impegnato in favore dei disertori che fuggivano dal conflitto: “Per l'accoglienza degli obiettori di coscienza, avevamo partecipato ad un forum europeo e a una raccolta di firme che poi era stata presentata al consiglio europeo di Strasburgo, per il riconoscimento del diritto all'obiezione di coscienza nelle repubbliche della ex Jugoslavia ”. Un atteggiamento che trovò massima espressione nell’impegno di Alexander Langer “l'Europa nasce o muore a Sarajevo”.
Le testimonianze raccolte suggeriscono di guardare alle guerre jugoslave da una prospettiva più ampia rispetto a quella consueta. Esiste una memoria collettiva dei conflitti alimentata da esperienze, biografie, legami che hanno coinvolto migliaia di persone e che di rado trova spazio nella memoria pubblica riguardante quegli eventi. La violenza e la drammaticità dei conflitti degli anni Novanta non solo sconvolsero i paesi emersi dalla dissoluzione jugoslava, ma ebbero un forte impatto anche su molti cittadini italiani ed europei che in molti casi si tradusse in un’occasione di presa di coscienza e attivazione in ambito internazionale.
Ricerche
- Marzia Bona (2016), "Gli anni Novanta: una rete di accoglienza diffusa per i profughi dell'ex-Jugoslavia ", Meridiana - Rivista di Storia e Scienze Sociali, n. 86.
- Marco Abram, Marzia Bona (2016), “Sarajevo. Provaci tu, cittadino del mondo. L’esperienza transnazionale dei volontari italiani nella mobilitazione di solidarietà in ex-Jugoslavia ", Italia Contemporanea, n.280.
- Marco Abram (2014), "I territori italiani nella mobilitazione civile per la ex-Jugoslavia: i caratteri dell'esperienza trentina", Archivio Trentino. Rivista interdisciplinare di studi sull'età moderna e contemporanea, n. 2.
- Christine Schweitzer (2014), "A European Anti-War Movement. The Response of European Civil Society to the Conflicts in the Former Yugoslavia", in Bettina Gruber (a cura di), The Yugoslav Example. Violence, War and Difficult Ways, Münster, Waxmann.
- Vesna Janković (2012), "International Peace Activists in the Former Yugoslavia. A Sociological Vignette on Transnational Agency", in Bojan Bilić, Vesna Janković (a cura di), Resisting the Evil. [Post-]Yugoslav Anti-War Contention, Baden-Baden, Nomos Verlagsgesellschaf.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto Testimony – Truth or Politics. The Concept of Testimony in the Commemoration of the Yugoslav Wars, coordinato dal CZKD (http://www.czkd.org/ ) e cofinanziato dal programma "Europa per i cittadini" dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea.
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