Ci sono stati non ebrei che durante l'Olocausto hanno salvato vite umane, anche a rischio della propria di vita. Quest'anno, per la ricorrenza della Giornata della Memoria proponiamo tre storie di Giusti tra le nazioni nell'allora Jugoslavia, selezionate da Božidar Stanišić
Spesso mi torna in mente quel lontano giorno d’autunno in cui andai a trovare Ado Kabiljo (1915-2022) nel suo appartamento in via Njegoševa, a Belgrado. Amico di mio padre, il primo ebreo ad essere riuscito a fuggire dal lager di Jasenovac, uno dei dieci ebrei del suo paese sopravvissuti all’Olocausto, nel corso di quell’incontro Ado Kabiljo mi disse più volte che nessun ebreo credeva che quelle notizie – che a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 giungevano anche a Visoko, sua città natale – fossero del tutto vere. “Non credevamo fosse possibile, forse gli ebrei in Germania e in Austria avevano fatto qualcosa di sbagliato…”, mi scrisse queste parole (vado a memoria) anche in una delle sue lettere, la ricordo bene.
Parole simili a quelle di Leon Dudo Montiljo (1909-1995), anch’egli amico di mio padre. Celibe, all’ultimo momento riuscì a fuggire a Dubrovnik, all’epoca sotto l’occupazione italiana, ma ancora considerato un posto sicuro per gli ebrei. Ricordo anche le conversazioni intrattenute con Montiljo a Visoko e a Belgrado, così come ricordo la sua incredulità. “Com’era potuto accadere?”.
Certo, Ado Kabiljo e Leon Montiljo non erano gli unici ebrei vissuti nel Regno di Jugoslavia a nutrire certe speranze. Un regno che, grazie al reggente, l’anglofilo Pavle Karađorđević, fu l’unico paese europeo, insieme alla Gran Bretagna, a resistere a lungo alle pressioni naziste. Nell’autunno del 1940 il reggente però cedette ai suoi oppositori politici – tra i quali spiccano i nomi di Stojadinović, Maček, Cvetković, Korošec – e il governo adottò una legge simile a quelle di Norimberga del 1935.
Sia Ado Kabiljo che Leon Montiljo mi parlarono del loro destino e di quello delle loro famiglie, profondamente convinti delle pericolosità dell’oblio, che ormai avvolge quella tragedia che resterà una macchia indelebile sulla coscienza dell’intera umanità. Sono trascorsi molti anni da quegli incontri, non ho però mai smesso di occuparmi di questo tema, non tanto come storico – per questo mi manca la cosiddetta “educazione convenzionale” – quanto come scrittore. Uno degli argomenti che mi ha sempre affascinato – probabilmente non sono l’unico – è il salvataggio di ebrei, rom e serbi nello Stato indipendente di Croazia, e il salvataggio degli ebrei in Serbia e in altre parti dell’ex Jugoslavia. Ovvero, il tendere una mano all’altro nonostante il pericolo per la propria vita.
Un gesto che Yad Vashem ormai da anni valorizza con la medaglia dei Giusti tra le nazioni, conferita a persone che durante l’Olocausto, anche mettendo in pericolo la propria vita, salvarono gli ebrei. Ad oggi in Serbia sono state conferite 139 medaglie, in Croazia 130, in Bosnia Erzegovina 49, in Slovenia 16 e in Macedonia del Nord 10.
Dietro ad ogni medaglia c’è una storia. Qui di seguito ve ne propongo tre, originariamente pubblicate sul sito Makabijada .
“Tanto non sopravvivrà”
Vera Andeselić viveva a Belgrado con sua sorella Natalija e sua madre Marija. All’età di diciannove anni iniziò a lavorare in un atelier di moda, accanto alla sua maestra, la stilista Lenka Lunginović. Col tempo le due donne strinsero uno stretto rapporto, diventando amiche. All’inizio del 1941, durante i bombardamenti di Belgrado, la casa di Vera fu distrutta. Rimasta senza un tetto sopra la testa, Vera si rivolse alla sua amica Lenka, che si diede subito da fare per trovare un riparo per Vera e i suoi familiari, facendoli ospitare da sua madre Bukica Demajo. Di lì a poco vennero promulgate leggi che imponevano ad ogni ebreo di presentarsi a Tašmajdan per dichiarare i propri beni. Ne seguirono arresti di ebrei e comunisti. Tra i primi arrestati c’era anche il marito di Lenka, Bogoljub Lunginović.
Lenka, sfrattata dalla sua casa, finì in strada con un bimbo di un anno e mezzo e, non sapendo dove andare, si rivolse alla sua amica Vera. Pur essendo consapevole del divieto di fornire un rifugio agli ebrei, Vera, insieme a sua sorella Natalija e sua madre Marija, accolse calorosamente Lenka e il suo bimbo, volendo così ricambiare l’aiuto ricevuto da Lenka in un momento di difficoltà. Nel dicembre del 1941 la nonna Demajo fu deportata a Sajmište. Poco tempo dopo il nascondiglio di Lenka fu scoperto e vennero a prendere lei e sua figlia. Lenka supplicò affinché risparmiassero la sua bambina. Un ufficiale tedesco gettò uno sguardo furtivo alla piccola Sonja che, affetta da rachitismo, giaceva rannicchiata nella culla, e – con un’espressione di disgusto sul volto – disse: “Tanto non sopravvivrà, che muoia pure qui!”.
Lenka sapeva quale sarebbe stata la sua sorte, quindi chiese a Vera di tenere Sonja con loro, di raccontarle di sua madre e, quando sarebbe diventata grande, di dirle che era ebrea e di provvedere affinché ricevesse un’educazione ebraica. A Lenka toccò la stessa sorte di sua madre: fu deportata a Sajmište e poi uccisa nella dušegupka [camion trasformato in una camera a gas in cui trovarono la morte molti ebrei belgradesi].
Vera, Natalija e la loro madre Marija si dedicarono interamente alla piccola Sonja, decidendo di farla guarire. Le facevano fare i suffumigi al sale marino, le preparavano dei bagni con le foglie di noce che loro stesse raccoglievano e facevano bollire in una grande pentola, poi quando le temperature si alzavano, la portavano al sole. Sonja si rinvigorì e iniziò a camminare. Gli anni passavano, Sonja cresceva bene accompagnata con grande cura e amore dalle tre donne, e col tempo iniziò a rivolgersi a Marija chiamandola mamma, come la chiamavano anche Vera e Natalija. Le donne però mantennero la promessa, raccontando a Sonja di sua madre Lenka, suo padre Bogoljub e sua nonna Bukica. A guerra finita, si misero in contatto con la comunità ebraica, così Sonja iniziò a frequentarla in occasione delle feste e iniziò ad incontrare i suoi coetanei.
Sonja Lunginović-Demajo ha fatto la maestra per molti anni. Qualche anno fa si è trasferita in Israele, mentre i suoi figli e nipoti vivono ancora a Belgrado. In un’occasione ha affermato: “Sono nata da un matrimonio misto, mia madre era ebrea e mio padre serbo. Sono orgogliosa di entrambe le nazionalità".
Nel 1993 Marija Andeselić e le sue figlie Vera e Natalija furono inserite tra i Giusti tra le nazioni.
Un bebè dentro ad un pacco
Era il 1942. Quasi tutti gli ebrei di Zagabria ormai erano stati deportati nei campi di concentramento. Nella Comunità ebraica era rimasto attivo solo il Comitato per l’assistenza nei campi. Un giorno, uno sconosciuto entrò nell’ufficio della Comunità, posò un pacco sul tavolo e se ne andò. Ad un certo punto il pacco iniziò a muoversi. Gli impiegati erano indecisi se aprirlo o allontanarsi. Alla fine si avvicinarono, lo aprirono e, con loro grande sorpresa, ne sbucò un bebè. Aveva un bigliettino appeso al collo su cui c’era scritto che doveva essere consegnato a Blanka Fuerst. Presero il bebè, lo fasciarono, gli diedero da mangiare e contattarono la signora Fuerst dicendole di recarsi alla Comunità.
Una volta arrivata, raccontò tra le lacrime: “Questa è la figlia di mia cugina, Blanka Buechler, che fu portata a Loborgrad con sua madre e la bimba”. La signora Fuerst portò la bimba a casa sua, si prese cura di lei, ma dopo qualche tempo dovette fuggire, essendo stata inseguita dagli ustascia. Decise quindi di cercare una sistemazione adatta alla piccola Dina. Provò a chiedere in un monastero, ma non vollero accogliere la bimba poiché era troppo piccola e malaticcia. Diedero però alla signora Fuerst l’indirizzo di una donna che accudiva bambini piccoli. La signora Fuerst lasciò la bimba a quella donna e si unì ai partigiani. Non era però tranquilla, si chiedeva in continuazione se avesse fatto bene a lasciare Dina a quella donna. Era una donna affidabile? Avrebbe accudito la bimba in modo adeguato?
Alla fine decise di mettersi in contatto con la sua amica Gina Beritić per chiederle di visitare la piccola Dina. Gina ci andò subito e quando vide che la bimba era trascurata, sporca, affamata, la prese e, dicendo di voler fare una breve passeggiata, la portò a casa sua. Gina viveva nella periferia di Zagabria con suo figlio Tihomir, all’epoca studente di medicina. Gina e Tihomir accolsero la piccola Dina come se fosse membro della loro famiglia, prendendosi cura di lei e proteggendola. Quando però iniziarono a circolare voci che la famiglia Beritić nascondesse una piccola ebrea, decisero di battezzarla. Così Dina divenne Marija, imparò a fare il segno della croce e a recitare il Padre nostro. Stava bene, si sentiva a casa e Tihomir si rivolgeva a lei chiamandola “la mia sorellina”.
Conclusa la guerra, Gina e Tihomir cercarono informazioni sui genitori di Dina, scoprendo che il padre di Dina, Dragutin, noto avvocato zagabrese, perse la vita a Jasenovac, dove morirono anche il padre e due fratelli di Dragutin. Sua madre, Blanka (il cui nome da nubile era Brodarić) e sua nonna furono invece deportate ad Auschwitz.
Un giorno sulla soglia di casa della famiglia Beritić comparve una donna in uniforme partigiana. Era Blanka Fuerst, cercava sua figlia. Per Gina e Tihomir non fu facile accomiatarsi da Dina, soprattutto qualche anno più tardi, quando la signora Fuerst decise di trasferirsi con Dina in Israele.
In Israele Dina si laureò in microbiologia, lavorando poi nella Banca del sangue dell’ospedale Hadassah a Gerusalemme, ebbe un figlio, una figlia e dei nipoti. È sempre rimasta in contatto con i suoi salvatori, soprattutto con Tihomir, ormai diventato medico, che Dina chiama “fratello”. Pensa spesso a quei giorni difficili e a sua madre. Ha scoperto che sua madre, imprigionata nel lager, era riuscita a corrompere una guardia, dandole una somma tutt’altro che irrilevante per portare Dina, chiusa dentro ad un pacco, alla Comunità ebraica. “Continuo a pensare a quel momento in cui la mamma aveva deciso di mettermi dentro ad un pacco e lasciarmi in balia ad uno sconosciuto. Deve essere stato molto difficile per lei perché pensava che non mi avrebbe mai più vista”.
Nel 1994 Gina e Tihomir Beritić furono dichiarati Giusti tra le nazioni.
Come Beti Bahar sopravvisse all’Olocausto
Beti-Benvenida Bahar, figlia di Rivka e Aron, nacque a Skopje nel 1939. Suo padre aveva un negozio di elettrodomestici che gestiva insieme ad un suo amico di lunga data, Aleksandar Todorov. La piccola Beti trascorreva molto tempo nella casa della famiglia Todorov.
L’annessione della Macedonia da parte della Bulgaria, nel 1941, segnò l’inizio di un periodo difficile per gli ebrei. A differenza del resto della popolazione macedone, agli ebrei fu negata la cittadinanza bulgara, e con essa tutti i diritti civili. Le case degli ebrei vennero contrassegnate con la scritta “Evrejsko žilište”, furono costretti a portare il cosiddetto “bottone giallo” e gli uomini furono mandati ai lavori forzati nelle “brigate di lavoro”.
L’11 marzo del 1943 i bulgari arrestarono tutti gli ebrei macedoni, li portarono nei magazzini di tabacco “Monopol” a Skopje, poi nell’arco di un mese, dividendoli in tre gruppi, li consegnarono ai tedeschi, che li portarono al campo di sterminio di Treblinka, da dove nessuno fece ritorno.
Quel fatidico giorno Beti era nella casa della famiglia Todorov. Aron chiese ai suoi amici Aleksandar e Blaga di tenere Beti con loro per un po’, convinto che si trattasse di formalità e che tutto si sarebbe risolto in breve tempo. Tuttavia, a Rivka e Aron toccò la stessa sorte di tutti gli ebrei della Macedonia, della Tracia e della città di Pirot. Così Beti rimase con i coniugi Todorov, i quali la accettarono come se fosse loro figlia. Per evitare di essere denunciata, Blaga rispondeva a tutte le domande sospette sulla bambina dicendo che era sua figlia nata fuori dal matrimonio. A quel tempo avere figli illegittimi era considerato un atto vergognoso e spregevole. Nel 1947 i coniugi Todorov ebbero un figlio. Beti, che allora si chiamava Kristina Todorov, lo considerava suo fratello. Fu solo all’età di dodici anni che Beti scoprì la sua vera identità e il fatto di avere dei parenti in Israele. Così nel 1951 anche lei si trasferì in Israele.
Per Beti fu difficile separarsi dalla famiglia Todorov. Rimasero però sempre in contatto. Durante il suo viaggio di nozze Beti andò a Skopje, e quando partorì Blaga venne a trovarla in Israele.
Oggi Beti Bahar-Azuri vive nei pressi di Tel Aviv. Ha un figlio, una figlia e dei nipoti. Nel 1980 Blaga e Aleksandar Todorov furono insigniti dell’onorificenza di Giusti tra le nazioni.
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