La lotta potrebbe essere esclusa dal programma olimpico dei Giochi del 2020. L'intera famiglia degli stati balcanici, caucasici e centroasiatici, dove la lotta è parte integrante dell'identità storica e culturale, si è alleata nel chiedere al CIO di rivedere la decisione
Tradizioni popolari risalenti alla notte dei tempi messe improvvisamente in discussione. Nazioni fiere di vittorie recenti e passate colpite nel proprio orgoglio. Appassionati di uno sport duro e ancestrale in rivolta in molti paesi. Una selezione per la sopravvivenza dai criteri poco comprensibili e dalla quale sortirà un unico vincitore. Infine, il coinvolgimento interessato di una superpotenza come la Russia e una contromossa spiazzante proveniente dagli Stati Uniti. Aree geopolitiche coinvolte: Caucaso, repubbliche ex-sovietiche dell'Asia centrale e Balcani.
Parrebbero esserci tutti gli ingredienti per uno scoppio di furore nazionalistico di quelli accesi e convulsi, trascinati poi per anni ed anni. E invece si tratta di una semplice disputa olimpica, di una 'tempesta in un bicchier d'acqua'. Almeno in origine: perché via via che passa il tempo sta assumendo inattesi risvolti. A innescarla è stata la decisione del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) di ridurre il numero delle discipline sportive partecipanti ai Giochi del 2020, quelli successivi a Rio de Janeiro 2016 per intenderci. Le discipline definite 'di base' (core) dal Comitato, e cioè ineliminabili dalla competizione, a partire da allora saranno ridotte a 25. Anzi, a 25 più una. Quale? Non si sa. Per sceglierla si è infatti adottata una complessa e curiosa procedura di esclusione e di ripescaggio: una sorta di 'girone eliminatorio' a due turni (uno si è svolto a maggio, l'ultimo si effettuerà a settembre) che coinvolge sette discipline definite 'minori' e perciò candidate ad essere escluse; le quali debbono sottoporsi a due tornate di votazioni, dove arbitri saranno gli stessi membri del Comitato Esecutivo del CIO. Al termine, solo una tra tutte godrà ancora della luce dei riflettori e della gloria assicurata delle medaglie più prestigiose del globo.
Il primo girone si è tenuto a San Pietroburgo, e ha visto quattro discipline eliminate ormai definitivamente (arrampicata, squash, wakeboard - una combinazione tra sci nautico e snowboard - e wushu, arte marziale cinese). Le tre superstiti si affronteranno il prossimo settembre a Buenos Aires, quando la votazione finale porterà alla proclamazione dell'unica eletta.
Già di per sé la procedura, con le sue lungaggini e l'inevitabile dose di suspense, sembra fatta apposta per mettere in subbuglio atleti, allenatori e dirigenti societari, ma anche per esacerbare gli animi delle tifoserie di buona parte del pianeta: tutti spinti gli uni contro gli altri in una competizione extrasportiva di cui francamente non si avvertirebbe il bisogno. Ma a far debordare la questione dal campo più strettamente sportivo, rendendola ormai una disputa diplomatico-politico internazionale, è stato l'aver inserito nell'elenco delle discipline a rischio una tra le più antiche, spettacolari e blasonate specialità della storia olimpica: la lotta, nelle sue specialità di 'libera' e 'greco-romana'.
Giochi Olimpici o Business Game
Ma in base a quale meccanismo decisionale si è arrivati ad individuare le discipline non 'di base'? E perché tra di esse vi è proprio la lotta? Dietro le scelte dal Comitato Olimpico non agiscono solo motivazioni di carattere sportivo o atletico: tra i criteri preferenziali per l'esclusione si riportano un po' alla rinfusa la popolarità degli sport nei vari paesi, la politica antidoping delle rispettive federazioni, il numero dei biglietti venduti e gli indici di ascolto televisivi.
Sono probabilmente questi ultimi due fattori a spiegare come si sia arrivati vicini a spingere 'fuori dal tappeto' i lottatori. Sicuramente il loro non è uno sport alla moda, almeno in molti paesi occidentali, ed avere un minor numero di spettatori reali o virtuali significa anche trovare meno sponsor: quindi, per l'organizzazione olimpica e il grande giro di affari che le ruota intorno, introiti meno appetitosi di quelli assicurati da altri sport. Il classico dito nella piaga l'ha messo fin da subito subito, senza troppi giri di parole, il presidente della Federazione di lotta ellenica, Kostas Thanos:"...Se venisse abolita la lotta allora bisognerebbe eliminare anche il nome 'Giochi Olimpici' e ribattezzare l'evento: Business Game".
Corsa, lotta e lancio
Eredi del popolo che ha inventato sia gli agoni olimpici che quelli di retorica, i greci ben comprendono l'importanza delle questioni apparentemente lessicali (basti pensare alla disputa con i loro vicini settentrionali sul nome della Macedonia); e in effetti non si vede quale legame con quelle dell'antichità potrebbero continuare a vantare le Olimpiadi moderne - con il loro rituale di fiaccole e di tedofori, di sbandieramenti collettivi e di continui richiami alla fratellanza tra popoli e alla pace universale - se poi si va a cancellare dagli stessi giochi la presenza di discipline fondamentali e tradizionali. La lotta fu infatti il secondo sport, subito dopo la corsa, ad entrare a far parte degli antichi agoni sacri a Zeus Olimpio, e questo addirittura fin dal 708 a.C. Rimase poi sempre nel novero delle discipline più prestigiose e perciò degne di essere inserite tra le cinque specialità previste dal pentathlon classico (il quale, oltre alla lotta, comprendeva la corsa, il salto in lungo, il lancio del disco e quello del giavellotto).
Non è tutto: in uno sdegnato comunicato ufficiale la stessa federazione ellenica ricorda che la parola 'palestra' deriva dal nome della dea Pale, che in greco significa appunto 'Lotta'; e che, colmo dei colmi, l'inno ufficiale dei Giochi (scritto sempre da un greco, il poeta Kostis Palamas) menziona espressamente in una sua strofa fra tutti gli sport possibili ed immaginabili solo 'la corsa, la lotta e il lancio'.
Uno sport senza sponsor
E' vero: le masse, almeno qui in Europa occidentale, non affollano le gradinate per assistere agli incontri tra lottatori; come se non bastasse, il loro abbigliamento non contempla accessori facilmente sponsorizzabili, né capi costosi o di marca, poiché usano la mani nude e hanno il resto del corpo quasi totalmente svestito; e neppure necessitano di attrezzi e di impianti costosi, tanto per le gare quanto per gli allenamenti. Ma è proprio questa modestia dei mezzi, unita ad una sua intima essenzialità e naturalezza, che ne fa una disciplina praticabile da tutti, anche dai ragazzi economicamente svantaggiati dei paesi meno ricchi. Inoltre, con le sue rigide regole comportamentali la lotta impone agli atleti una ferrea disciplina, portandoli ad acquisire capacità di autocontrollo su quelle doti che, in genere, più la connotano negativamente presso quanti non la amano: l'uso della forza muscolare, della potenza e della destrezza fisica per atterrare e piegare l'avversario. Gli incontri risultano così alquanto ritualizzati, le prese illecite sono ben più numerose di quelle ammesse, mentre assolutamente proibiti sono i colpi di qualunque tipo ed i comportamenti atti a danneggiare l'avversario. Insomma, si tratta di una disciplina dalle notevoli potenzialità educative e formative, e perciò stesso capace di allontanare da canali di sfogo della violenza impropri e pericolosi molti giovani che per il resto sono privi di grandi prospettive per il futuro. E' per questo che il vice Presidente della Federazione di Lotta georgiana, Temo Kazarashvili, ha espresso la preoccupazione che, ad abbandonare una lotta declassata a disciplina minore e amputata delle capacità attrattive derivanti dal podio olimpico, siano i tanti giovani praticanti di umile origine sociale di paesi come il suo.
Il fenomeno geo-sportivo
Ma quel che più sorprende se si dà un'occhiata alla graduatoria olimpica di tutti i tempi nelle varie discipline è la presenza massiccia nella lotta, quasi da grandi e medie potenze sportive, di paesi dell'Est che raramente primeggiano in altre specialità: ad esempio, Bulgaria, Ungheria, Turchia, Romania sono tutte entro i primi dieci posti mondiali. Ma è l'intera e numerosa famiglia degli stati balcanici, caucasici e centroasiatici a riconoscere nella lotta uno sport nazionale, parte integrante della propria identità storica e culturale, nonché appunto una delle rare occasioni di prestigio sul piano internazionale. Tanto per capire, l'Armenia, l'Azerbaijan, la Georgia, il Kirgizistan, l'Ucraina, l'Uzbekistan, il Kazakistan, la Turchia, la Bulgaria, l'Iran e la Mongolia hanno conquistato in questa disciplina la massima parte delle loro medaglie olimpiche. Anche un piccolo paese come la Macedonia-FYROM vi ha conseguito la sua unica medaglia come stato indipendente, mentre a Londra 2012 l'Azerbaijan si è tolto la soddisfazione di precedere gli Stati Uniti nella classifica disciplinare.
In effetti, se si colloca l'area di l'eccellenza e di rilevanza di questa disciplina su un mappamondo, si nota che essa corre lungo una fascia di paralleli geografici corrispondenti non solo a popoli di antichissima civiltà, ma anche alle principali direttrici di passaggio e di contatto tra le etnie euroasiatiche nel corso dei millenni. Una spiegazione del curioso fenomeno geo-sportivo potrebbe essere che la lotta, come altri sport marziali, non è in fondo che una sapiente e provvidenziale forma di ritualizzazione, quindi di sublimazione, delle pratiche e virtù guerresche; delle quali in passato questi popoli non furono privi, se si pensa agli imperatori ed eserciti di origine illirica che tennero in vita per secoli il tardo impero romano respingendo le invasioni alle sue frontiere, o all'irruzione degli Slavi che quasi travolsero la potente Bisanzio nei Balcani, ma anche alle ondate di conquista dei popoli nomadi che, dalle steppe e gli altipiani dell'Asia, si avventavano sugli imperi limitrofi. Insomma, se esagerano alcuni olimpionici della Georgia nel rilasciare dichiarazioni sul presunto 'talento genetico' dei giovani lottatori del proprio paese, hanno colto senz'altro nel segno sia Rasoul Khadem - olimpionico iraniano e oggi manager tecnico - nel ricordare come in quella che fu l'antica Persia ancor oggi “... la lotta non è solo uno sport, ma è parte della cultura e della storia”; sia Mikhail Mamiashvili, Presidente della federazione russa disciplinare, nel dichiarare che nel Caucaso la lotta è una sorta di cult, e soprattutto un'occasione di autorealizzazione per la gioventù.
La questione è così giunta ai piani alti della diplomazia e della politica con l'intervento nientemeno che del Presidente russo Putin - praticante judoka - il quale ha definito '...ingiustificata la rimozione di discipline tradizionali e fondamentali fin dalle origini dei Giochi Olimpici' e, nei giorni immediatamente successivi alla notizia dell'esclusione, anche l'olimpionico russo Sagid Murtazaliev ha restituito per protesta al CIO la medaglia d'oro vinta a Sidney nel 2000, seguito da altri atleti di fama internazionale. E' significativo come Murtzaliev in realtà provenga dal Daghestan, la più grande repubblica caucasica della Russia; è proprio dal Caucaso, infatti, così come dalle nazioni ex sovietiche dell'Asia centrale, che proviene la maggior parte di quei lottatori che hanno portato la Russia, se considerata assieme alla ex URSS, alla testa del medagliere mondiale olimpico di tutti i tempi, più o meno allo stesso livello degli Stati Uniti, altra superpotenza nel settore.
La Sicilia e la Magna Grecia
E l'Italia? A parte una discreta dote di medaglie conquistate anche dal nostro paese, una lettera inviata al Presidente del Comitato Esecutivo del CIO dal Panathlon International Club di Catania ci ricorda che nel caso di un'esclusione avremmo molto da perdere, addirittura una parte della nostra storia:"...questo documento Le giunge da una regione d'Italia che ha forti legami storici ed affettivi con gli sport da combattimento. La Sicilia, così come la limitrofa area denominata Magna Grecia, si distinse con le sue vittorie in quelle competizioni. Prima ancora del mitico Milone da Crotone (7 vittorie ai Giochi Olimpici e Pitici; 9 ai Nemei; 10 agli Istmici) il siracusano Lygdamis si affermò nel pancrazio. L'elenco degli atleti, provenienti dalla Sicilia e dalla Magna Grecia e vincitori delle gare di Olimpia nella varie discipline, è veramente cospicuo e supera il centinaio...".
Non per nulla fortemente critiche nei confronti del CIO sono state le affermazioni del Presidente della Federazione Italiana di Lotta, Matteo Pellicone, che si dice "...sbalordito e indignato. Sopprimere la Lotta significa svilire la valenza della stessa Olimpiade, cancellare la Storia, mortificare lo Sport".
Ma talvolta è la Storia stessa, quando la si nega, a vendicarsi trasformandosi in attualità: succede infatti che proprio due dei tre Paesi candidati ad ospitare i Giochi del 2020 (quelli in cui la disciplina dovrebbe sparire) siano il Giappone - con la sua antichissima tradizione di arti marziali - e la Turchia, dove lo yağlı güreş, la plurisecolare lotta che si pratica unti con l'olio, raccoglie tuttora ingenti masse di spettatori. E così, ecco che il responsabile del comitato turco per le Olimpiadi di İstanbul 2020, Hasan Arat, dopo aver sottolineato che la lotta è uno sport nazionale nel proprio paese, ha fatto intendere che sarebbe il colmo se la Turchia ospitasse dei Giochi che per la prima volta si svolgerebbero senza di essa; mentre per Hamza Yerlikaya, ex campione olimpico e mondiale oggi presidente della Federazione turca di lotta, eliminare questo sport significherebbe “spezzare la spina dorsale alle Olimpiadi”.
L'alleanza inedita
Ma la manifestazione più emblematica e sorprendente del quasi generale dissenso è stata organizzata a New York lo scorso maggio, in una sala prestigiosa del Grand Central Terminal di Manhattan: celebri campioni di tre superpotenze della lotta - tra le quali politicamente parlando non corre affatto buon sangue - Stati Uniti, Russia e Iran, si sono affrontati davanti ad un folto pubblico di spettatori e a decine di telecamere, in un clima di grande cordialità e amicizia, proprio per protestare contro il rischio comune e ormai prossimo di una esclusione. Un nutrito contingente di supporter iraniani era lì alla Central Station ad applaudire non solo le mosse più riuscite, ma anche gli abbracci a sorpresa che gli atleti si scambiavano uscendo dal tappeto. E' da notare che quegli stessi campioni americani erano atterrati pochi mesi prima a Teheran per una simile iniziativa simbolica: trovandosi accolti e osannati, incredibile a dirsi, da una immensa folla (iraniana). Tanto che l'olimpionico Jordan Burroughs ha ironicamente ricordato di essersi sentito, nell'occasione, 'come Justin Bieber'. Insomma, volontariamente o meno, da questo improvvisato 'meeting delle tre nazioni' è venuto un messaggio inatteso, di tenore diverso dalle reazioni tradizionalistiche altrove prevalenti: che anche gli uomini più forti e virili votati alla lotta possono insegnare al mondo come scavalcare i pregiudizi e andare d'accordo.
E così, per una curiosa serie di circostanze il tanto decantato 'spirito olimpico' di pace e fratellanza tra i popoli pare rinascere di vita propria risorgendo tra le vampate del nazionalismo, e creando un'alleanza e un'unità d'intenti inedite tra paesi che spesso si guardano come cane e gatto: la Turchia e la Grecia, la Grecia e la Macedonia di Skoplje, la Turchia e l'Armenia, la Russia e la Georgia, l'Iran e gli Stati Uniti, l'Armenia e l'Azerbaijan.
A fine estate, dunque, avverrà la scelta definitiva da parte dei membri del CIO fra le tre discipline rimaste ancora in lizza: oltre alla lotta, lo squash e il baseball/softball. Chissà se i giudici sapranno cogliere l'opportunità di rendere onore ad uno sport nobilissimo, evitando al contempo di umiliare una variegata compagine di piccole nazioni con poche occasioni di emergere a livello planetario; e soprattutto l'occasione, in qualche modo storica, di dare un contributo all'affermarsi non solo a parole degli ideali olimpici di pace e di amicizia tra i popoli. Magari a qualcuno potrebbe venire in mente che lo storico disgelo dei rapporti politico-diplomatici tra la Cina maoista e gli Stati Uniti avvenne, negli anni Settanta, proprio grazie ad un incontro agonistico sportivo. E quello era solo ping-pong.
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa.
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