1968, alcuni giorni trascorsi nella valle del fiume Rama, poco prima che venga sommersa a causa della costruzione di una centrale idroelettrica. La prima di due puntate
“Tu cucini, io faccio il fuoco”, mi dice all’inizio del nostro viaggio di addio, per sempre, al fiume Rama.
Butto nella pentola, l’unica che avevamo portato, mezzo chilo di carne per noi due con un po’ di sale e olio, e la poggio sopra due pietre in mezzo al fuoco. Seduta per terra, accanto al fuoco, guardo il paesaggio.
Ci eravamo accampati sull’altura del monte Raduša, vicino al villaggio di Varvara. È un ottimo punto d’osservazione, da lì si vede tutta la valle e il fiume Rama che serpeggia nel mezzo. E’ un paesaggio tipico della Bosnia. La valle è situata a circa centro chilometri a sud-ovest di Sarajevo e ottanta chilometri a nord da Mostar. Il terreno è carsico, la stretta striscia di pianura con la terra fertile è circondata da una ghirlanda di montagne alte e boscose e ovunque ci sono torrenti, fiumiciattoli e sorgenti.
Guardando dall’alto la valle di Rama appare come un rifugio perfetto. E si capisce perché sia stata abitata fin dai tempi preistorici. I primi abitanti vi estraevano e lavoravano il bronzo. Gli artefatti trovati là si custodiscono nel Museo Nazionale di Sarajevo.
Poi fu abitata dagli Illiri. Nelle loro tombe sono stati trovati attrezzi per i tatuaggi (la chiesa cattolica proibiva di fare tatuaggi). All’inizio del VII secolo, dall’Europa settentrionale, erano arrivati gli Slavi, che erano poligami prima di diventare cattolici o ortodossi, poi i Bogomili e, dal Medioevo, con l'arrivo dei turchi, molti si sono convertiti all’islam.
Ognuna di queste culture e popoli vi ha lasciato qualcosa di proprio. Non si tratta di monumenti magnifici né di resti di antiche città, ma di segni e piccoli oggetti a confermare la loro esistenza.
Qui sono i resti della basilica romana dedicata a Santa Barbara che, nella tradizione cristiana, è venerata come protettrice dei minatori. I Bogomili, membri dell’autoctona chiesa medievale bosniaca, seppellivano i propri morti sotto gli stećci, grandi pietre tombali monolitiche. Erano perseguitati sia dagli ortodossi che dai cattolici e avevano trovato rifugio nella valle del fiume Rama.
Dai turchi sono pervenuti i resti di moschee e necropoli, come il cimitero della peste, dove sono finiti interi villaggi e famiglie.
So che giù, sotto i miei piedi, a centinaia di metri in profondità, si dipana il fiume Rama. Bolle, gorgheggia, strepita fragoroso per sprigionarsi dagli abissi profondi e stretti. Ma dove sto io non si sente nulla.
Dall’alto tutta la veduta sembra avvolta in una calma solida e duratura. Non si vede anima viva, non si sentono voci né rumori. Si ha l’impressione che sia sempre stata così da milioni di anni e che rimarrà così anche nei prossimi millenni.
Noi, però, sappiamo che sta per avvenire una trasformazione storica. Dopo quattro anni di lavori, a circa 30 chilometri da qui, è pronta una diga e presto il fiume e la valle della Rama saranno sommersi dall’acqua per sempre.
L’anno è il 1968. La Jugoslavia e la Bosnia Erzegovina, una delle sue sei repubbliche, sono nel pieno dell’industrializzazione. Senza industria non c’è una società sviluppata, moderna, benestante. E noi volevamo diventare tali, al più presto. La costruzione della seconda più grande centrale idroelettrica, Rama, è seguita in diretta dall'intera nazione. Ogni pezzo per la diga è prodotto nelle nostre fabbriche e officine, le apparecchiature progettate dai nostri costruttori e ingegneri, ogni passo di questa opera nominata “La vittoria dei lavoratori” viene documentata con filmati e in articoli quotidiani. In breve, ci dicono, una zona depressa (pasivni kraj) come lo è la valle della Rama, grazie alla centrale idroelettrica diventerà un miracolo economico.
Nel video la Rama prima della sommersione
È la fine dell’estate. I boschi sono ancora di un verde scuro e compatto, ai margini gli arbusti stanno perdendo il colore, nella pianura prevale il tono giallastro dei campi mietuti; il grano, l’orzo e il mais sono già stati raccolti e qui, in questa terra nera e grassa, non cresceranno mai più. In compenso “la lampadina elettrica brillerà nei più remoti villaggi”, si annunciava nei telegiornali.
Dall’alto tra i campi si vedono dei puntini bianchi, talvolta raccolti, talvolta distanti tra di loro. Sembrano le pecore che pascolano.
Ogni tanto l’odore di bruciacchiato mi strappa ai pensieri, interrompe la mia contemplazione davanti a questa bellezza. In fretta e senza tanta cura aggiungo nella pentola un po’ d’olio e continuo a osservare il paesaggio.
Dopo un po’ sento un urlo: “Oddio, si è tutto bruciato!”.
Nella pentola la carne galleggia in circa mezzo litro d’olio. Sotto è bruciata e sopra non è abbastanza cotta. “Non sai cucinare! Perché non me l’hai detto?”. “No, non so cucinare. Non me l’hai chiesto”, rispondo.
La carne bruciacchiata la mangiamo lo stesso. Seduti per terra, accanto al fuoco che si sta spegnendo, osserviamo il paesaggio: è talmente bello che il cattivo umore non può durare. “Va bene, da adesso in poi cucino io, e tu lavi le pentole”, mi propone senza rabbia.
Scendiamo piano verso il fondo della valle. Conosco il posto. Da piccola ci venivo con i genitori, i parenti, i vicini e gli amici per festeggiare le ricorrenze importanti come il Primo maggio, oppure il 27 luglio, la giornata della rivolta del popolo contro l’occupazione tedesca della Bosnia Erzegovina (Dan ustanka naroda i narodnosti Bosne i Herzegovine). Capitava che la gente dai villaggi ci mandasse i cavalli. Era il massimo onore riservato a mio padre e alla sua famiglia e noi venivamo qui cavalcando.
A pochi chilometri dalla sorgente il fiume si accomoda nel letto allargato, la corrente rallenta e la Rama cessa di essere selvaggia e impetuosa. E’ tuttavia bella.
Lungo le due sponde del fiume si susseguono i villaggi. Hanno nomi arcaici, oggi non si capisce bene se significano qualcosa: Ometala, Ripci, Rumboci, Varvara, Proslap, Kopčići. Le frazioni sono già meglio definite, portano i nomi delle famiglie che prevalgono. Gli abitanti sono bosniaci musulmani o bosniaci cattolici.
Quello che dall’alto sembravano pecore, sono casupole tipiche dei villaggi bosniaci: piccole, basse, solo con il pianoterra, i muri bianchi, le finestre minuscole. I tetti, in legno, con il tempo diventano color fumo. Qui, però, tutte le case sono senza tetto.
Camminiamo nel mezzo del villaggio vuoto, gli abitanti sono già andati via, sistemati altrove con i soldi del risarcimento. Strana sensazione. Questo vuoto non causa paura. Non è il vuoto che resta dopo un disastro naturale, quando la gente scappa in fretta e lascia tutto così come stava in quell’esatto momento. Non è neanche il vuoto che si trova dopo un attacco nemico, quando regna il disordine e di solito c’è qualche animale, un gatto o un cane, che girovaga confuso cercando il cibo o il padrone.
Non assomiglia neanche al vuoto che rimane dopo la peste che stermina tutti lasciando però i segni della vita quotidiana: le pentole non lavate, la cenere nella stufa, i letti disfatti, la biancheria sporca…
Qui tutto è in ordine. I cortili puliti, le stalle pure. Guardando attraverso le finestre chiuse vedo che anche dentro è tutto ordinato. Le case sono vuote, non hanno il tetto, eppure sono chiuse a chiave.
I padroni sapevano che non ci sarebbero tornati mai più, malgrado ciò avevano messo tutto in ordine e chiuso la porta a chiave. Un gesto istintivo? L’inconscio tentativo di conservare e proteggere non la casa, ma la storia famigliare assorbita e impregnata nei muri? I primi vagiti della nascita, i sussurri d’amore, le grida di gioia, le parole dei figli che se ne andavano, le promesse, i calcoli dopo il raccolto, i sogni… Il silenzio di quelli che tornavano a casa al tramonto stanchi morti (qui si lavorava tanto per avere poco) e non avevano neanche la forza di parlare… anche della loro stanchezza, del sudore, dei pensieri appesantiti sono pregni i muri delle loro case.
Siamo convinti, o vogliamo credere, che tutto sarà racchiuso nella CHIAVE, quella che i capifamiglia portano con sé dopo aver chiuso per l’ultima volta il portone. Sarà appesa a un chiodo, dietro la porta della nuova casa. In meno di un anno comincerà ad arrugginire. Rimarrà dimenticata per una-due, generazioni, finché un giorno non ci si ricorderà più che cosa apra quella chiave e sarà buttata via con altre cose inutili.
Sui ruscelletti, prossimi al fiume, rumoreggiano i mulini, piccole costruzioni di legno con le pareti imbiancate dalla farina depositata nelle crepe. Anch’essi sono chiusi a chiave. Dentro - si sente- la macina gira a vuoto. Fa un rumore ritmico, a modo suo scandisce il tempo: traca-trac, traca–trac, traca-trac... Ancora per poco… L’acqua che dava loro la vita li fermerà.
Da queste parti i mulini rappresentano la ricchezza delle famiglie. Si contava: tale e tanta terra, tali e tante bestie, e poi tali e tanti mulini. Chi aveva un mulino sapeva di essere protetto dalla fame anche quando il raccolto era distrutto, le tasse alte, o quando gli uomini andavano in guerra.
Volendo, si potrebbe fare in un giorno il percorso a piedi lungo il fiume. La Rama è corta, dopo trentaquattro chilometri si unisce alla Neretva. Noi abbiamo deciso di non correre, di salutarla con calma e rispetto.
Ci fermiamo a dormire vicino al punto dove uno degli affluenti della Rama, il Buk, sorge e sparisce nella Rama, in meno di 2-3 chilometri. Accanto al fuoco mangiamo delle patate bollite e un po’ di formaggio bianco, semplice. Una volta finito, prendo la pentola e vado a lavarla nel fiume. L’acqua è giovane e pulita, si può bere tranquillamente senza correre rischi. Con una mano mi reggo al ramo di un salice, con l’altra tengo la pentola. A un certo punto mi sembra di sentire un rumore. Spaventata, mollo la pentola e corro indietro dal mio compagno di viaggio.
“Cosa c’è?”, mi chiede.
“No lo so, forse una vipera”, rispondo.
“Ma che vipera! E la pentola?”, chiede. “È là”, e indico un punto con un cenno della testa.
Si avvicina al fiume, controlla, torna e dice che la pentola non c’è più. Se l’è portata via la Rama. “Sei una buona a nulla!”, mi dice arrabbiato.
In altre occasioni gli avrei risposto furiosa. Qui, invece, sono tranquilla “come uno spritz”, le sue parole non mi provocano, è come se avessi raggiunto il Nirvana. Forse, penso, perché siamo in un posto particolare. Ho letto, da qualche parte, che i Bogomili sceglievano di stare nei posti dove la convergenza di energia terrestre e raggi solari o cosmici creavano un’atmosfera positiva. Comunque sia, con me funziona. Non mi arrabbio.
Finché c’è ancora la luce del giorno, voglio andare a vedere la sorgente dell’affluente Buk. Sorge tra due rocce, e l’acqua crea un laghetto. La superficie è calma, color fumo tanto è profondo, ma sotto bolle. Il Buk è una meraviglia selvaggia, attraente e minaccioso nello stesso tempo.
Non ha tanta strada prima di unirsi alla Rama, perciò tutto quello che fa, lo fa in fretta. Si allarga, per un tratto breve scorre attraverso le pietre diventando tutta schiuma bianca e, alla foce, per mano umana, si divide nelle scanalature che fanno girare una serie di ruote di mulini. Mi avvicino alla riva con cautela, m’inginocchio e tocco l’acqua con la mano. È freddissima. Non resisto, mi lavo la faccia, e decido che siamo diventati amici.
Dormiamo all’aperto. Avvolti nelle coperte, guardiamo la vallata, quello che è ancora visibile nel crepuscolo: il fiume si fa intuire, qua e là la sua superficie scintilla, le colline verdi sono diventate sagome scure, e sopra di noi il cielo alto è strapieno di stelle.
In questo posto sperduto mi sento come mai prima di far parte dell’universo o della natura. Il momento è talmente bello che mi commuovo, sono felice, penso, poi l’emozione si trasforma in debolezza fisica. Le lacrime prorompono contro la mia volontà. Giro la testa dall’altra parte, mi vergogno di essere così patetica.
Il momento magico passa, e ad alta voce dico: “Voglio essere il fiume”. “Ma io non voglio che tu sparisca”, ribatte, convinto che io mi senta colpevole per la pentola persa e che abbia voglia di fuggire. “Ma no, intendevo bella come il fiume”, dico. A quel punto entrambi ridiamo sonoramente, contenti, felici e liberi.
Il giorno dopo, continuiamo il cammino lungo la sponda sinistra della Rama. Sorpresa: nella frazione del villaggio di Proslap, incontriamo gente. È la famiglia Faletar, gli ultimi rimasti, anzi sono in ritardo. Con calma raccolgono e caricano sui carretti trainati dai cavalli la roba di casa: bauli, sedie, sgabelli, mensole, un po’ di legna, biancheria, “prima che il fiume venga a monte”, così descrivono quello che sta per accadere: la nascita del lago artificiale.
Sono contenti di vederci, cordiali, ci offrono la grappa fatta in casa e, nel mezzo del trasloco, si fermano a parlare un po’ con noi. Sì, sperano di stare meglio su (uno indica con il dito la collina), dove stanno costruendo la nuova casa, il terreno è già stato comprato e le fondamenta fatte.
Ci salutiamo, ci auguriamo a vicenda buona fortuna. Noi andiamo verso il villaggio di Kopčići. Per secoli era stato la roccaforte dei nobili bosniaci, proprietari di vaste terre. Ancora oggi si racconta la leggenda di come il capostipite, Alaj bey Kopčić, si fosse guadagnato il titolo nobiliare e la ricchezza.
Egli era giunto in Bosnia Erzegovina ai tempi dell’occupazione turca ed essendosi distinto in battaglia, il sultano gli disse che gli avrebbe donato tutta la terra che fosse riuscito a delimitare cavalcando in un giorno. Lui spronò il suo cavallo per accaparrarsi più terra possibile arrivando fino a città Duvno (da cui il detto popolare “Girare come Kopčić intorno a Duvno”). Verso la fine del giorno, stanco e sudato, incontra una vecchia e le chiede consiglio su cosa mangiare per riprendersi. Questa gli dice di prendere per sé del latticello freddo e per il cavallo dell’avena. Il rimedio risultò fatale perché sia lui che il cavallo morirono. La terra delimitata rimase e fu tramandata in famiglia per cinque secoli. Adesso il villaggio è raso al suolo, le case, la scuola, la moschea, tutto è distrutto dalle ruspe, non si vede anima viva.
Un po’ fuori dal villaggio c’è un posto che la gente chiama “kamenbaba” (La nonna di pietra). Sono i resti della necropoli con gli stećci, le pietre tombali dei bogomili. Sono grossi monoliti, alcuni a forma di steli, altri a forma di sarcofago, alcuni hanno incisioni, scritte o disegni, altri sono lisci, inermi testimoni dei tempi passati.
Proseguiamo verso la stazione ferroviaria di Rama. Per la gente di tutta la valle era il punto di collegamento con il resto del mondo. Per noi, invece, è la fine del nostro cammino, e là ci salutiamo con il fiume Rama, per sempre.
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