Un viaggio in Spagna, a Toledo per la precisione, sulle tracce degli ebrei sefarditi che furono cacciati nel XV secolo dalla penisola iberica e arrivarono in Bosnia Erzegovina. L'occasione per una profonda riflessione sulla memoria, sull'Olocausto, sulle tragedie della storia
Tutte le guide turistiche, sia digitali che cartacee, ripetono, tanto da sembrare un disco rotto, che vale la pena visitare Toledo, per le sue chiese, per la fortezza Alcázar, per il ponte di Alcántara, e soprattutto per El Greco. Non dimenticano di menzionare anche i souvenir – spade, coltelli, armature da cavaliere – , sottolineando inoltre che Toledo è il capoluogo della comunità autonoma di Castiglia-La Mancia e che il fiume Tago crea un anello, unico nel suo genere, intorno alla città situata in cima a una collina che sembra essere stata predestinata ad ospitare un insediamento umano. Le guide spiegano anche che Toledo è la sede dell’omonima arcidiocesi e spesso ricordano ai turisti che quella regione è la terra di Don Chisciotte. A Toledo i viaggiatori possono acquistare souvenir raffiguranti il cavaliere dal volto triste e il suo servitore Sancho, e quelli malaccorti potrebbero inciampare nella statua dell’immortale personaggio di Cervantes situata in una stretta viuzza di questa città che – come si afferma nelle guide – vanta una lunga e ricca storia.
Lunga e ricca… E dolorosa, dico tra me e me. Ma, a onor del vero, non dolorosa per tutti. Dico a me stesso anche che in quel tardo autunno del 2018 mi recai a Toledo non per i motivi di cui sopra, bensì per visitare il quartiere ebraico della città. Dopo aver letto molti libri sull’espulsione degli ebrei dalla penisola iberica, decisi di visitare quel quartiere che in tutte le altre città della Spagna un tempo abitate da ebrei chiamano “judería”.
In questo articolo vorrei innanzitutto provare a collegare, almeno implicitamente, tutte le persecuzioni e i pogrom subiti dagli ebrei – dalla penisola iberica alla Russia, dalle parole degli ottusi cristiani dell’epoca medievale all’isteria di Hitler e dei suoi seguaci contemporanei. Compresi, ovviamente, i revisionisti. Scrivo questo articolo, ma anche quest’anno, in occasione del Giorno della Memoria, non sono sicuro quante persone oggi, in questo mondo ipertecnologico, sentiranno almeno alcune delle domande sul senso della memoria.
Ad ogni modo, non aspettatevi che ora io cominci a tessere le lodi del marzapane, dello zafferano, del prosciutto e del vino della Mancia. Li ho assaggiati, complimenti a chi con le sue mani laboriose ci regala i frutti, i piatti e le bevande tipiche di questa regione. Non ho intenzione nemmeno di annoiarvi con cenni storici su Toledo dall’epoca romana ai giorni nostri. Potete leggere da soli come gli ebrei vivevano prima della conquista araba della Spagna e cosa invece accadde dopo la Reconquista e l’ascesa al potere di quella coppia reale che il 31 marzo 1492, dopo “un ragionamento maturo”, decise di “espellere dal nostro regno tutti gli ebrei affinché non tornino mai più”. Se doveste imbattervi nel diario di Cristoforo Colombo, vi troverete alcune righe in cui l’autore descrive come, mentre lui viaggiava verso ovest, migliaia di ebrei espulsi dalla Spagna si spostavano, su tutti i tipi di imbarcazioni, verso est. Gli unici porti aperti agli ebrei furono quelli dell’Impero ottomano. Successivamente, alcuni gruppi di ebrei da Salonicco e Costantinopoli si trasferirono in Bulgaria, Serbia e Bosnia.
Se si può stare in un luogo dove non si è mai stati, allora ero già stato a Toledo molto tempo fa, in quegli ormai lontani anni Novanta quando in Friuli scrivevo una mia non-poesia intitolata “Toledo, la chiave nella mano”. Questa non-poesia non ci sarebbe mai stata se nel periodo immediatamente precedente la nostra tragedia jugoslava e bosniaca in un meraviglioso libro di Miroslav Prstojević intitolato “Zaboravljeno Sarajevo” [Sarajevo dimenticata] non avessi letto la storia, raccontata da una guida turistica israeliana, di un turista ebreo che a Toledo si era fermato davanti a un cancello, aveva tolto una chiave dalla tasca e... il cancello si era aperto! Per più di quattro secoli quella chiave era passata di padre in figlio e, una quarantina di anni fa, finì tra le mani di quell’ebreo che, dietro a quel cancello, riconobbe la casa dei suoi avi espulsi dalla Spagna. “Los que sufren, angustia los guia” [Chi soffre è guidato dall’angoscia], recita così un verso di una romanza dei sefarditi sarajevesi. I sefarditi europei non hanno mai dimenticato, nemmeno nei momenti di sofferenza, Sefarad (terra d’Occidente, termine ebraico per indicare la penisola iberica).
Quella fredda e nebbiosa mattina di novembre entrai nella chiesa di San Juan che era semivuota. La costruzione della chiesa fu finanziata da quella coppia reale che, dopo “un ragionamento maturo”, decise di espellere gli ebrei. Nel corso dei secoli i viaggiatori non risparmiavano parole di ammirazione per questo miracolo architettonico e per i suoi tesori artistici. Nemmeno a Toledo non ero riuscito ad astenermi dal pormi la domanda sul rapporto tra il male, il bene e la bellezza. Lascio a voi lettori valutare le persone che fanno male agli altri e, al contempo, amano l’architettura, la musica, la letteratura... Non è forse vero che nel corso della storia ci sono stati dei razzisti colti e religiosi, ma anche nazisti che si commuovevano al suono del violino rimanendo, al contempo, sordi alla sofferenza delle persone umiliate e condannate all’esilio?
Una volta uscito dal monastero di San Juan mi diressi verso la piccola chiesa di San Tomè per vedere il dipinto di El Greco “Sepoltura del conte di Orgaz”. Nelle monografie dedicate a El Greco si legge che il conte di Orgaz morì nel 1312 e il grande pittore di Creta rievocò i suoi funerali nel celebre dipinto completato nel 1586. Il conte – come si afferma – era un uomo influente, molto religioso e grande benefattore della Chiesa cattolica. La chiesa di San Tomè fu costruita grazie alle risorse messe a disposizione dal conte che si premurò affinché dopo la sua morte ogni anno la città di Orgaz donasse alla chiesa e al monastero della città due montoni, sedici polli, due otri di vino, due carichi di legna e 800 maravedi.
La leggenda narra che dopo la morte del conte di Orgaz, avvenuta a Toledo, il cielo si fosse aperto prima che la salma del nobile cavaliere venisse deposta nella tomba sopra la quale apparve una luce proveniente dall’aldilà. In quel momento ai cittadini di Toledo apparvero Gesù, la Madonna, un coro di angeli e Sant’Ivano, mentre Sant’Agostino e Santo Stefano deposero la salma del conte nella sepoltura. Per tre secoli il nobile cavaliere fu relegato nell’oblio, fino a quando un sacerdote non decise di denunciare le autorità di Orgaz per non aver adempiuto agli impegni assunti nei confronti del conte, ottenendo un risarcimento che decise di investire nella decorazione della chiesa di San Tomè a Toledo.
Osservando il dipinto di El Greco, non avevo prestato alcuna particolare attenzione alla scena celeste, rappresentata nella parte superiore della tela, né all’autoritratto di El Greco, né tanto meno al ritratto di suo figlio, focalizzandomi invece sui volti dei concittadini del pittore, volti devoti, tutti illuminati dal miracolo del mistero. Per intenderci, quelle persone erano nipoti e pronipoti di quei cittadini di Toledo che un secolo prima guardavano il quartiere ebraico svuotarsi. Molti degli avi delle persone rappresentate nel dipinto di El Greco andarono devotamente – e come altrimenti? – ad abitare nelle case dei loro concittadini costretti all’esilio. Il museo di El Greco a Toledo si trova in una casa il cui ultimo proprietario fu un banchiere di nome Ha-Levi. Questa casa, così come molte altre case del quartiere ebraico di Toledo, mi fece ricordare che i sefarditi portarono con sé le loro tradizioni architettoniche anche in Bosnia, e soprattutto a Sarajevo.
I sefarditi arrivarono a Sarajevo, come anche in altre parti dell’Impero ottomano, portandosi dietro la conoscenza dei vari mestieri molto utili, e tra di loro c’erano anche farmacisti e medici. Portarono a Sarajevo anche la lingua della loro matrigna malvagia, cioè la Spagna, le sue romanze e la sua musica, e le custodirono per secoli. Nel corso del tempo la musica sefardita ha influenzato anche le sevdalinke bosniache [antiche canzoni d’amore, intrise di malinconia], compresa quella intitolata “Kad ja pođoh na Bembašu” [Quando andai a Bembaša], che parla di un ragazzo che, in compagnia di un “agnello bianco”, andò a trovare “la sua amata che stava affacciata a una finestra in ferro”. Tra le famiglie sefardite che giunsero a Sarajevo sicuramente ve n’erano alcune provenienti da Toledo. Con l’occupatore austriaco arrivarono anche molte famiglie ashkenazite che portarono con sé usi e costumi caratterizzanti lo stile di vita europeo.
Nell’aprile del 1941, quando la Bosnia Erzegovina venne inclusa nello Stato indipendente di Croazia (NDH), la comunità ebraica della Bosnia Erzegovina contava 14mila membri, la maggior parte, circa 10mila, viveva a Sarajevo ed erano perlopiù sefarditi. Dei 9000 ebrei sarajevesi che furono deportati nei campi di concentramento ne sopravvissero solo 1237. In altre parti della Bosnia Erzegovina vivevano circa 4000 ebrei sefarditi, di cui 546 sopravvissero alla guerra. In quel fatidico 1941, a Sarajevo un cittadino su quattro era ebreo. Durante la guerra le proprietà degli ebrei furono meticolosamente ed “eroicamente” saccheggiate. Oggi, dopo la nostra guerra fratricida, a Sarajevo vivono appena alcune centinaia di ebrei.
C’è qualcosa di casuale nella Storia per quanto riguarda la tendenza a etichettare gli altri e i diversi come indesiderati? C’è qualcosa di casuale nel tentare di annientare o, in uno scenario “migliore”, perseguitare ed emarginare l’altro e il diverso? Sono questioni molto più vecchie di qualsiasi abitante del mondo contemporaneo. Sentivo il loro peso insistente durante le mie ricerche sulla storia degli ebrei d’Europa, in particolare sulla storia dei sefarditi nei Balcani. Quelle domande mi tornarono in mente, concretizzandosi visivamente, quando nel vecchio cimitero ebraico di Praga avvertii quanto lontano potessero spingersi la diffidenza e la malvagità verso l’altro: gli ebrei di Praga non erano mai riusciti ad ottenere l’autorizzazione per ampliare il cimitero, per cui furono costretti a sovrapporre le tombe (Jaroslav Seifert ne scrisse una poesia commovente e meravigliosa).
Ho visto la cava di pietra del campo di concentramento di Mauthausen e quella scala che portava alla morte; ho visto anche i forni crematori di quel lager e quelli di Auschwitz; montagne di vestiti, stoviglie, occhiali. So cosa sono e dove si trovano Jasenovac e Gradiška (quest’ultimo fu un campo di concentramento per donne e bambini), Topovske šupe e quel punto del Danubio dove il padre di Danilo Kiš, Eduard Kiš, sopravvisse per miracolo alla strage degli ebrei della Vojvodina; poi i lager in Ungheria, la Risiera di San Saba a Trieste... Ho visto anche i vecchi cimiteri ebraici in Bosnia dove il tempo si è fermato al 1941. Come accaduto anche in Italia. È impressionante anche il cimitero ebraico di San Daniele del Friuli, così come quello di Rožna Dolina (Valdirose) a pochi passi dal confine italo-sloveno. Se le lapidi potessero parlare sentiremmo centinaia di storie.
Pensando ai primi viaggi, ovviamente turistici, che avevo compiuto dopo la guerra degli anni Novanta dall’Italia verso i neonati paesi sorti sul territorio dell’ex Jugoslavia, ricordo anche che a cavallo tra il XX e il XXI secolo in Croazia e in Serbia si potevano facilmente acquistare “Protocolli dei Savi di Sion” e tanti altri “utili” libri antisemiti. Quindi, ho visto anche quello, e ho sentito affermazioni secondo cui la pessima situazione nel mondo sarebbe colpa degli ebrei. Le menti ottuse tendono sempre a incolpare gli altri. Anche oggi nella mia ex patria si può sentire la parola čifut, čifutin, termine spregiativo per indicare gli ebrei. Un ebreo sefardita, amico di mio padre, una volta disse che avrebbe preferito essere chiamato cane piuttosto che čifut. Fu uno dei pochi ebrei sefarditi di Visoko sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale. Non si fidò delle presunte buone intenzioni del governo ustascia.
Qui, in Friuli, il termine ebreo viene usato per indicare quel rivolo di vernice che rimane sul muro appena dipinto. Chissà se qualcuno a breve comincerà ad usare il termine migrante per indicare un’altra cosa, ovviamente imperfetta.
Mentre percorrevo le viuzze del quartiere ebraico di Toledo pensavo anche a tutti quegli insegnanti italiani che non risparmiano né sforzi né tempo per spiegare ai loro studenti l’Olocausto nei campi di concentramento, davanti ai forni crematori e le camere a gas. I testimoni diretti dell’Olocausto sono sempre meno, mentre quelli che sminuiscono o negano l’Olocausto sono sempre di più. Sarà una lunga e difficile battaglia per preservare la memoria, contro la negazione dei fatti.
Proprio mentre riflettevo su questa questione mi chiamò un mio amico d’infanzia che, come me, ormai da molto tempo vive fuori dalla Bosnia. Quando gli dissi che ero a Toledo affermò di invidiarmi, ammettendo di non aver mai visto di persona il dipinto di El Greco “Veduta su Toledo”. Poi mi venne in mente il miglior amico di mio padre, Ramiz, ormai scomparso. Durante la Seconda guerra mondiale, gli ustascia gli offrirono l’incarico di comandante di un campo di concentramento, dicendogli: se non accetti non potrai più contare sulla nostra pietà. Ramiz rifiutò l’offerta, senza sapere cosa aspettarsi il giorno successivo. Non venne punito, per miracolo. Molto tempo dopo disse a mio padre che non c’è punizione peggiore di quella a cui ci sottopone la nostra coscienza.
Oggi, in occasione del Giorno della Memoria, chiedo a tutti i turisti di questo mondo di perdonarmi: non ho nulla contro Toledo. Ci sono stato, ho passeggiato, ho guardato a destra e a sinistra, avanti e indietro. Riflettendo, anche se riflettere oggi sembra essere diventato un lusso. Riflettevo anche sul fatto che Hitler non arrivò al potere per puro caso, sbucando fuori da un bar di Monaco di Baviera, bensì era frutto di una lunga, troppo lunga tradizione europea che scarica tutte le colpe sugli ebrei. Ma non vorrei finire questo articolo parlando di un pittore fallito. Pertanto aggiungo che ho osservato Toledo anche dall’ultimo piano di una grande biblioteca.
Ed è vero, vale la pena visitare questa città. Gli autori di quelle guide turistiche non sono bugiardi, e vale la pena anche vedere il dipinto “Tempesta su Toledo” che porta la firma di El Greco in caratteri greci. Δομήνικος Θεοτοκόπουλος non aveva mai dimenticato chi era né da dove proveniva.
Concludo questo articolo proponendo ai lettori pazienti un frammento di un racconto di viaggio di Zuko Džumhur intitolato “U odajama velikog Grka” [Nelle stanze del grande greco]
Cercando rifugio nelle nostre terre, fuggendo da pogrom, roghi e ingiustizie, gli ebrei della Spagna portarono con sé una grande cultura dell’abitare, del vivere e del mangiare, e lì, nel nostro paese, ritrovarono le tradizioni dell’Oriente, solo che gli ebrei, partendo dall’Oriente, dovettero attraverasre mezzo mondo per giungere in Bosnia dall’Oriente.
Da bambino udii mia madre pronunciare la parola: Toledo.
Durante l’infanzia quella parola aveva per me un suono magico, c’era qualcosa di lontano e, al contempo, misterioso, nella sua melodiosità, e di certo non aveva nulla in comune con le parole e i nomi ordinari che pronunciavo.
Così si chiamava, e si chiama tuttora, un ricamo molto bello e difficile eseguito da mia madre. Come tante altre giovani donne, anche lei aveva imparato a fare quel ricamo dalle sue vicine di casa ebree di Sarajevo, o da qualcuno a cui le ebree sefardite insegnarono quel mestiere in precedenza.
In questa casa sulla collina mi sono tornati in mente gli ebrei sarajevesi e quei tempi lontani della loro vita felice in Bosnia Erzegovina. Mi sono ricordato anche dei miei miglior amici d’infanzia trascorsa nei quartieri di Dorcol e Zerek a Belgrado.
Quando ho scritto “tempi felici” non mi riferivo tanto al benessere e all’abbondanza quanto piuttosto alla pace e alla serenità.
(...)
Loro amavano la Bosnia come se fosse la loro terra natia. La Bosnia li ha accolti calorosamente dopo tanti vagabondaggi tra mari, deserti, monti e luoghi sperduti.
Gli ebrei amavano le kasabe silenziose come anche Sarajevo e Travnik, residenze del visir, ma Toledo, Saragozza, la Galizia e l’Andalusia per loro sono state, e sono tuttora, un enorme tormento che a volte nemmeno interi popoli come loro, e non solo singoli individui, non riescono mai a superare né dimenticare completamente.
*Ringrazio i miei compagni di viaggio, Jasna e Brano, e mia moglie Slavica che ormai da 40 anni sopporta egregiamente le mie "scelte" turistiche
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