Enver Kazaz insegna presso la Facoltà di Filosofia di Sarajevo. In quest'intervista le reazioni dell’élite politica e accademica bosgnacca al recente tentativo di colpo di stato in Turchia
(Originariamente pubblicato dal portale Novosti il 31 luglio 2016, titolo originale Enver Kazaz: Turkofilija je premrežila bošnjački mentalni prosto )
Professor Kazaz, è rimasto sorpreso dall’appoggio quasi unanime che l’establishment politico bosgnacco ha espresso al presidente turco Recep Tayyp Erdoğan a seguito del tentato golpe che ha recentemente scosso la Turchia – e questo nonostante giungano notizie di una crudele rappresaglia intrapresa contro i presunti golpisti, durante la quale si è arrivati persino alla sospensione della Convenzione europea dei diritti umani?
Non mi ha sorpreso tanto l’appoggio in quanto tale, perché anche altre potenze mondiali, più o meno forti, hanno espresso il loro sostegno all’autocrate di Ankara, quanto i suoi contenuti e toni. Detto ironicamente, questi semi-istruiti esponenti politici bosgnacchi hanno gridato così forte il loro appoggio a Erdoğan che sembrava che il tentato golpe fosse avvenuto in casa loro, se non addirittura nella loro camera da letto.
Da dove vengono un tale appoggio e servilismo? Che derivino dal loro amore per la democrazia è da escludere del tutto. Non hanno mai pronunciato una parola contro un regime nefasto come quello dell’Arabia Saudita, dove i poeti vengono condannati alla pena di morte solo perché sospettati di non credere in Dio.
Il cosiddetto establishment bosgnacco, che in realtà non è altro che un demi-monde politico, chiama affettuosamente Saudia quel paese. Per loro la democrazia è solo un mezzo per gonfiare i propri conti correnti. Perché allora hanno gridato? Soltanto perché volevano, ancora una volta, compiacere servilmente Erdoğan, “leader di tutti i musulmani” (come lo definì tempo fa Bakir Izetbegović), colui al quale Alija Izetbegović sul letto di morte lasciò “la Bosnia in eredità”.
Reagendo ai fatti più recenti, il figlio di Alija ha dichiarato che Erdoğan è “suo fratello”, “il nostro leader” e che “il popolo turco difende la democrazia e ha fatto sapere chi vuole al potere”. Ma non sono stati solo i politici a gridare. Lo hanno fatto anche alcuni esponenti della comunità accademica, come ad esempio Esad Duraković, o una certa Amina Šiljak-Jasenković, che si presenta come turcologa, nonostante il suo curriculum scientifico difficilmente possa esserne prova. Duraković ha parlato come se fosse il portavoce di Erdoğan, sostenendo che dietro al tentato colpo di stato ci sono i sionisti, mentre la Šiljak-Jasenković ha accusato Gülen di essere ispiratore e mandante del fallito golpe, esattamente come ha fatto lo stesso Sultano del Bosforo, come i media liberali occidentali chiamano Erdoğan.
E nessuno ha offerto neanche un singolo argomento a sostegno delle proprie affermazioni. Si è trattato solo di propaganda. Nessuno ha pronunciato nemmeno una parola sul carattere autocratico del regime di Erdoğan, sul suo tentativo di modificare la costituzione per dare più potere al Presidente, sul totale abbandono della tradizione kemalista e secolarista su cui è stata fondata la Turchia moderna, sul palese tentativo di imporre alla società turca l’islamismo come ideologia normativa, sulla cancellazione delle narrazioni umanistiche e razionalistiche a cui attinse già il tardo Impero Ottomano, come scrive intelligentemente Orhan Pamuk nel suo romanzo “Istanbul”.
Nella discussione bosgnacca si tace del tutto sul fallito colpo di stato, sugli arresti e purghe di massa che il regime di Erdoğan sta attuando in questi giorni contro coloro che vengono bollati come “gulenisti”, scagliandosi contro professori, giudici, rettori, giornalisti e sottoponendo decine di migliaia di persone al terrore di stato, esattamente come avveniva nei regimi totalitari più tetri. La rappresaglia mediatica, poliziesca e religiosa è di tali dimensioni che si può parlare di Erdoğan come di uno stalinista di orientamento islamico. Questo lato oscuro dell’erdoganismo resta completamente invisibile nello spazio pubblico bosgnacco, in cui a discapito di un’analisi argomentata prevalgono l’emozionalismo politico e una turcofilia immedesimatrice che vuole trasformare i bosgnacchi odierni in turchi pro-Erdoğan.
Direi che l’erdoganismo e una turcofilia/islamofilia superficiale, basata sull’emozionalismo, il tutto accompagnato dal fantasma neo-ottomano, sono elementi salienti dell’attuale discussione in seno alle élite politiche, accademiche, religiose e mediatiche bosgnacche.
Ovviamente, ogni forma di violenza, e soprattutto un colpo di stato, deve essere condannata pubblicamente se si pretende di difendere i valori democratici. Ma allo stesso modo deve essere condannata anche la violenza di un apparato statale repressivo nei confronti delle persone la cui colpa non è stata provata. Le presunte élite bosgnacche, col loro tifare all’unisono per Erdoğan, tengono il proprio popolo in una specie di schiavitù mentale, impedendogli ogni emancipazione dalle loro narrazioni militariste.
Durante la guerra in Bosnia, gli sciovinisti serbi e croati bollavano i bosgnacchi con l’epiteto ingiurioso di “turchi”, mentre l’establishment musulmano di allora, compreso lo stesso Alija Izetbegović, insisteva sull’esistenza di una specifica identità bosgnacca, rigettando con disgusto il paragone con i turchi. Con la fine della guerra questo atteggiamento è cambiato, sicché siamo stati testimoni di varie manifestazioni della “turchizzazione dei bosgnacchi”. Da dove viene questa turcofilia così marcata dei bosgnacchi?
Non sono sicuro che il signor Izetbegović abbia mai perseguito una politica sistematica, tantomeno tesa a delineare una forma moderna dell’identità nazionale bosgnacca. Prima di morire lasciò la Bosnia in eredità a Erdoğan, come ho già menzionato. Le uniche caratteristiche persistenti della sua concezione politica dell’identità nazionale bosgnacca sono antimodernismo e anticomunismo, oltre alla nozione di Islam come fondamento dell’identità nazionale.
Parliamo di un personaggio che nel 1994, proprio in Arabia Saudita, fu insignito del premio “Pensatore islamico dell’anno”, e che con l’avanzare della guerra scelse di abbandonare i principi contenuti nella cosiddetta Piattaforma della Presidenza della Repubblica di Bosnia Erzegovina, un documento adottato nel 1992 con il quale ci si proponeva di definire gli obiettivi della difesa del paese dall’aggressione, pensando la Bosnia, in termini ideologici, come un paese civile, laico e multietnico.
È vero che a quel tempo Izetbegović padre spese qualche stentata parola sul fatto che i bosgnacchi non erano turchi, come se la questione fosse in discussione, ma al contempo si apprestava, ben volentieri, a formare le brigate musulmane. Disse quella cosa solo per contrastare quell’ideologia aggressiva e sciovinista propagata dalle autorità serbe e croate che, alimentandosi dall’islamofobia e turcofobia, costituiva una sorta di preparazione propagandistica dei crimini di guerra contro la popolazione bosgnacca.
Alija Izetbegović non perseguiva una politica sistematica, bensì cercava di togliere autorità agli organi dello stato, creando un intero sistema di istituzioni parastatali che avevano il compito di fornire appoggio logistico all’esercito della BiH. Detto in parole povere, la sua politica identitaria era caotica e inconsistente, quindi un calembour narrativo e simbolico che suo figlio ridurrà ad un erdoganismo volgare e un fantasma ideologico neo-ottomano. Per essere del tutto precisi: Bakir Izetbegović non offre nessuna ideologia, solo un fantasma erdoganista. Egli è uno schietto e autoritario pragmatico. La turchizzazione aggressiva dei bosgnacchi, come la chiama lei, a me sembra piuttosto un’erdoganizzazione volgare delle élite bosgnacche, smarrite nella propria semi-ignoranza. In più, questo amore tra Erdoğan e Izetbegović non è accompagnato da una cooperazione economica. Oggi la Turchia investe capitali irrisori in Bosnia, mentre aiuta in maniera notevole l’economia di alcuni altri paesi della regione, come la Serbia o la Romania.
Quanta ironia vi è nel fatto che sia proprio il figlio di Alija Izetbegović ad essere paladino della diffusione della turcofilia tra i bosgnacchi, che poi assomiglia irresistibilmente alla russofilia dei nazionalisti serbi?
Sì, le odierne élite bosgnacche, seppur inclini all’(auto)vittimizzazione, nel costruire la propria identità nazionale si ispirano al modello narrativo delle élite scioviniste serbe. Ed è un vero paradosso: l’allora vittima sta copiando il modello narrativo della costruzione identitaria dal proprio carnefice. La turcofilia ha avviluppato come una rete lo spazio mentale bosgnacco, esattamente come la russofilia avviluppa quello serbo, e la germanofilia quello croato. La guerra mentale tra queste “filie” dimostra che tutte e tre le etnie costituenti la Bosnia in realtà si stanno autocolonizzando. Semplicemente non riescono ad andare oltre, perché il loro potenziale intellettuale equivale al nulla.
Cosa ci dice tutto ciò sull’identità nazionale bosgnacca?
Dal calembour narrativo a cui assistiamo è possibile estrapolare processi di arcaizzazione, ghettizzazione, vittimizzazione, reislamizzazione, clericalizzazione, arabofilizzazione, turchizzazione, militarizzazione, mascolinizzazione, debosnizzazione dell’odierna identità nazionale bosgnacca. Ma per descrivere questi processi servirebbe molto più spazio di quanto ne abbiamo a disposizione. Ciò che è comunque importante sottolineare è che l’identità nazionale bosgnacca cominciò a formarsi nel XIX secolo parallelamente al processo di deottomanizzazione e accettazione dei valori del razionalismo e dell’umanesimo europeo. Il paradosso sta nel fatto che le odierne élite bosgnacche sono più arcaiche e conservatrici di quelle del XIX secolo che cercarono di europeizzare la comunità musulmana bosniaca di allora, ponendo le fondamenta del suo evolversi in una nazione.
È d’accordo sul fatto che, parallelamente ai processi da lei elencati, il nazionalismo bosgnacco sia diventato più aggressivo, e manifestamente più simile all’isteria nazional-sciovinista che nei primi anni Novanta pervase Belgrado e Zagabria, oppure pensa che questa spinta nazionalista sia da sempre esistita nella comunità bosgnacca?
Nei Balcani ogni nazionalismo è aggressivo, e basta poco perché si trasformi in sciovinismo. Nel momento in cui un’ideologia nazionalista conquista un considerevole potere, e quella bosgnacca lo ha di fatto conquistato nei territori su cui esercita la propria influenza, diventa aggressiva nei confronti di ogni forma di alterità.
Il carattere militante del nazionalismo bosgnacco si rispecchia maggiormente nel modo in cui i media controllati prima da Alija e successivamente da Bakir Izetbegović prendevano, e continuano a prendere di mira gli intellettuali non-bosgnacchi distintisi per il loro enorme capitale simbolico – intellettuale, letterario e filobosniaco: Marko Vešović, Ivan Lovrenović, Miljenko Jergović, e più di recente anche Nenad Veličković.
La Facoltà presso la quale lei insegna, così come l’intera Università di Sarajevo, ha un ruolo fondamentale nei processi di cui abbiamo parlato. Può indicarci quali sono i principali attori di questi processi e quali i loro ruoli?
La Facoltà di Filosofia di Sarajevo condivide il destino dell’intera società bosniaca, afflitta da una grave decadenza dei valori. Senza nulla togliere alle lodevoli eccezioni, vi è da sottolineare che molti professori della suddetta facoltà contribuiscono con la propria produzione scientifica a plasmare l’immaginario simbolico dell’identità collettiva dei bosgnacchi radicali.
In questo senso, l’Università di Sarajevo e altre università chiamiamole “bosgnacche” non si distinguono affatto da quelle “serbe” e “croate” nella Bosnia Erzegovina. Le università bosniache, esattamente come l’intero sistema educativo, sono fucina di narrazioni nazionaliste, ma anche luogo dove nascono le loro critiche scientificamente responsabili, seppur poche. Ed è per questo che, giocando con la lingua, io chiamo le università bosniache uniZVERiteti invece che univerziteti [zver in bosniaco significa bestia, ndt.], o nella variante croata sveMUČILIŠTA invece che sveučilišta [dal termine mučilište che significa luogo di tortura, ndt.].
Qual è, in questo contesto, il ruolo della Comunità islamica della Bosnia Erzegovina?
Dopo essere stata dispoticamente guidata da Mustafa Cerić, la più grande peste sociale bosgnacca a cavallo dei due millenni, il nuovo reis Kavazović è in gran parte riuscito a depoliticizzare questa comunità. Tuttavia, nemmeno lui è immune dal fare escursioni in campo politico. Le istituzioni religiose degli slavi meridionali sono inclini a impossessarsi del potere politico. Il reis Kavazović si distingue per aver assunto un atteggiamento diverso nei confronti di questo fascino della religione politica, che tende a trasformare il Dio metafisico in una bandiera politica. La religionizzazione dell’ideologia e l’ideologizzazione della religione hanno cancellato il Dio metafisico dall’ortodossia, dal cattolicesimo e dall’islam. Perché una comunità religiosa dovrebbe rinunciare al potere seducente di un Dio politico e ideologico per ritornare a quello metafisico?
I dati dell’ultimo censimento della popolazione della Bosnia Erzegovina sono stati pubblicati quasi tre anni dopo il suo svolgimento, indicando ciò di cui siamo tutti ormai da tempo consapevoli: la Bosnia Erzegovina non è più una società multietnica, bensì un semplice insieme di tre territori monoetnici. Come commenta il fatto che le élite bosgnacche preferiscono compiacersi della “vittoria dei bosgnacchi nel censimento”, piuttosto che preoccuparsi per la “purezza etnica” di Sarajevo?
Sulla morte di una Bosnia multietnica, confermata dai dati del censimento, ho scritto recentemente. Il censimento ha mostrato come la Bosnia Erzegovina di oggi sia una federazione trietnica composta dai territori etnicamente più omogenei al mondo. Le élite bosgnacche, così come quelle serbe e croate, di questo non parlano affatto, bensì cercano di usare i risultati del censimento per dimostrare la sussistenza del proprio diritto ad abitare un territorio etnicamente omogeneo.
Dietro ai discorsi delle élite bosgnacche sulla “vittoria dei bosgnacchi” nel censimento si cela un retroscena ideologico che affonda le sue radici nel fantasma di un grande stato. E la Bosnia trietnica si presenta come compimento delle aspirazioni belliche. Per quanto possa suonare amaramente ironico, se nel censimento c’è un vincitore, questo è il criminale di guerra Radovan Karadžić. La Bosnia Erzegovina di oggi vive in bilico tra il desiderio delle élite politiche di modificare la costituzione in modo da poter raggiungere, in tempo di pace, gli obiettivi rimasti irrealizzati durante la guerra e un percorso verso l'Unione europea che sembra irrealizzabile. Questa incertezza sta facendo scomparire gli ultimi rimasugli di quello che una volta era un paese multietnico.
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