E' il luogo dei ritrovi, il luogo delle amicizie, il luogo degli amori. E' il viale Vilsonovo, a Sarajevo, ombreggiato da quattro file di tigli secolari sopravvissuti anche alla guerra degli anni Novanta. Quando i tigli fioriscono, è ora di tornarci
Fioriscono i tigli, è ora di tornare a Sarajevo. In giugno il loro profumo si espande e, in due-tre giorni, avvolge tutta la città. I tigli in fiore provocano su di noi l’effetto di una droga leggera. Ci addolciscono, ci scuotono l’anima; diventiamo sentimentali, sul viso ci appare quel mezzo sorriso, un’espressione di chi contempla, di chi si ricorda un segreto, qualcosa di bello, di intimo. Ci ridà la voglia di goderci la vita, di darci da fare, di star bene, di trovare gli amici.
I tigli, naturalmente, fioriscono ogni anno, eppure quel particolare stato d’animo che ci provocano, ci sorprende ogni volta. Per un paio di giorni ci sentiamo strani, ci esaminiamo. E poi, una mattina apri la finestra e nella stanza irrompe quel profumo che ti fa capire all’istante che cosa sta succedendo.
Tutto parte dal Vilsonovo šetalište, è là il focolaio. È un viale nel centro della città lungo circa due chilometri sulla sponda destra del fiume Miljacka. Sono stati gli austroungarici a piantare i tigli, in quattro file, cento anni fa. Sempre loro hanno alberato diversi parchi e altri viali, come ad esempio quello splendido che per cinque chilometri fiancheggia la strada che porta alle sorgenti del fiume Bosna. Ma nessuno di questi posti suscita lo stesso effetto del viale Vilsonovo.
Gli austroungarici che cento anni fa governavano la Bosnia avevano dato a questo viale il nome di “viale Kalejeva”, in onore dell’allora governatore della BiH. La denominazione Vilsonovo viene dal nome del ventottesimo Presidente degli Stati Uniti - Thomas Woodrow Wilson. Nel 1917 aveva dichiarato la guerra che segnò la fine dell’Impero Austro-Ungarico e la fine dell’occupazione austriaca della Bosnia.
Dal 1941 fino alla fine della Seconda guerra mondiale, gli ustascia, i nazionalisti croati, quelli che avevano annesso la BiH allo stato-fantoccio NDH (Stato Croato Indipendente), avevano cambiato il nome del viale Vilsonovo in “viale Mussolini” in onore del loro alleato. Finita la guerra fu subito recuperato il nome di Vilsonovo šetalište.
Strano, le presenti autorità di Sarajevo, che hanno cambiato i nomi di quasi tutte le vie, strade, viali e piazze della città (perché come tanti prima, credono che la storia cominci con la loro salita al potere) non hanno toccato Vilsonovo. C’è solo una spiegazione: anche quelli che ci governano adesso sono affezionati a questo luogo. Cambiargli il nome sarebbe come amputare una parte del proprio passato.
Da adolescenti il viale Vilsonovo ci serviva come nascondiglio, lo consideravamo il complice delle nostre avventure. Sotto quegli alberi secolari, con i rami che in alcuni punti toccano terra, eravamo riparati dagli sguardi apprensivi dei genitori, da quelli deplorevoli dei maestri, e da quelli curiosi dei vicini.
Nel viale si entrava per dare il primo bacio, per assaporare per la prima volta le labbra di chi ti aveva incantato, per toccare per la prima volte i candidi seni di una bionda o di una mora. Ci si entrava con passi incerti, con il cuore in gola, e da là si usciva trasformati, più sicuri, mano nella mano, convinti di essere già grandi.
C’erano anche quelli che consideravano di “mala fama” una ragazza “che si era lasciata portare in viale”. Il mio vicino Ljubo, un illustre professore dell’Accademia di musica, controllava la figlia e la seguiva tentando di ostacolare un amore. Non gli piaceva il fidanzato. Insospettito, una sera, entrò nel viale a cercare la figlia e il suo ragazzo. Ma nel buio non si vedeva niente. Il professore, con un vecchio ombrello di legno in mano, passava da un’ombra all’altra, a qualcuno, per sbaglio, aveva dato pure un’ombrellata sulla schiena. Presi dal panico alcuni scapparono, altri invece, infastiditi da quell’intruso, cominciarono a inseguirlo. Finì che il professore uscì dal viale veloce come un treno, e a malapena si salvò dagli innamorati che aveva disturbato.
Una volta, mi ricordo, i due fidanzatini erano scesi sull’argine del fiume. Sdraiati sull’erba si abbracciavo e baciavano, convinti di essere ben nascosti. Dal lato del viale sì, ma dall’altra sponda del fiume erano esposti come su un palcoscenico. In poco tempo, dalle finestre del palazzo di fronte, si sporsero le teste dei curiosi che ridevano e tifavano. Degli spettatori i fidanzatini si accorsero tardi. Per niente turbati, avevano salutato il pubblico e avevano continuato da dove erano rimasti. A quel punto “il pubblico” imbarazzato aveva lasciato la scena.
I tigli di Vilsonovo sono sopravvissuti anche alla guerra degli anni Novanta. Quando la gente di Sarajevo, disperata, abbatteva gli alberi per riscaldarsi, i tigli del Vilsnovo šetalište non li toccava nessuno. Anzi sono stati risparmiati da tutte e due le parti belligeranti, nonostante il viale fosse proprio la prima linea del fronte. Nel viale ci sono 480 tigli e su nessuno dei loro tronchi c’è un’incisione, tipo i nomi in un cuoricino, che gli innamorati scrivono per assicurarsi l’amore eterno.
Dopo le avventure dell’adolescenza il viale Vilsonovo continuava a far parte della nostra vita. Là continuavamo a darci appuntamento, andavamo per riposare, per leggere seduti su una panchina, ci portavamo prima i figli, e poi i nipoti. È tradizione trovarsi là con i vecchi compagni di classe e festeggiare gli anniversari della maturità. Per tutto il mese di maggio e giugno, ogni anno, una sfilza di ex maturandi si incontra a Vilsonovo.
Per decenni, puntualmente, ogni giugno mi trovavo con i miei compagni. Nel 1991, un anno prima della guerra, ero arrivata da Belgrado. Durante la guerra quelli che erano rimasti a Sarajevo avevano continuato a incontrarsi. Era, si capisce, uno sforzo e, più che un festeggiamento, era una “finta”, un modo per illudersi che la vita continuasse normalmente, ma non hanno rinunciato a trovarsi.
Fioriscono i tigli di nuovo e mi sto preparando a tornare a Sarajevo. Vado a trovare “gli archetipi dei nemici”, “i membri della tribù che si odia da sempre”, “i popoli che non possono stare insieme”. Ironizzo sulle tipiche affermazioni che durante la guerra rilasciavano i politici e ripetevano i giornalisti. I diplomatici perché non si interessavano a risolvere la guerra in BiH, ma solo a contenere il fuoco, i giornalisti per l’ignoranza. Se fossimo davvero gente piena d’odio “che porta nei propri geni l’astio” non avremmo continuato a mantenere e a nutrire i legami, l’amicizia, a cercarci e a incontrarci. La guerra ci è stata imposta dall’alto, dai vertici, l’odio è stato incoraggiato e provocato, non era - come non è mai- un sentimento naturale.
Vado a trovare Mediha, grande e alta, sempre a dieta e sempre con qualche chilo di troppo. Ci sarà Mladen, era il secchione della classe, un ingegnere, emigrato in Canada, là ha brevettato alcune invenzioni, è tornato a Sarajevo perché “quel mondo non fa per lui”. Vinka, durante la guerra profuga in Serbia con il figlio piccolo, dai parenti stava così male che le pareva più sopportabile tornare nella città assediata. Dagli Stati Uniti arriva Mirsada, non ci vediamo da quasi vent’anni. Dall’Australia arriva Nada, anche lei ingegnere, ha fatto carriera nel nuovo continente. Ho fatto da madrina al suo primogenito, che dal papà Besim ha ereditato un occhio verde e dalla mamma un occhio azzurro. Viene anche Ahmed, era uno dei più intelligenti, adesso fa il primo ministro ed è un uomo ricco. È riuscito a realizzare quello che sognavamo tutti, di poter offrire agli amici una cena di gala. Ci sarà anche Jova, ero pazzamente innamorata di lui, adesso non ricordo neanche il suo cognome. Magdalena ha organizzato l’evento di quest’anno. Durante tutta la guerra è rimasta a Sarajevo. Prima fu picchiata nel suo appartamento nel quartiere di Grbavica, occupato dai nazionalisti serbi, poi quando si è trasferita in centro fu colpita da un cecchino. La pallottola l’ha centrata a un centimetro dal cuore. Ci sarà Vesna, dal Canada arrivano Branka e Gordana, Savo e Zvjezdana da Praga, Dario da Israele, Ranka e Dragan da Bileća, città nel cuore della Republika Srpska.
Il rituale è sempre lo stesso, ci troviamo nel viale Vilsonovo tutti belli ed eleganti, ci teniamo a fare una buona impressione, poi si va al ristorante, all’inizio un po’ tesi e tirati, si comincia con la grappa “per stimolare l’appetito”, poi si passa al vino e alla birra, si parla a voce sempre più alta, ci interrompiamo a vicenda, ridiamo, brindiamo in continuazione, parliamo tutti contemporaneamente. Ad un certo punto i maschi allentano il nodo delle cravatte, poi si tolgono le giacche, le donne si slacciano le cinture troppo strette, alcune si tolgono le scarpe nuove che fanno male, intanto “siamo tra di noi”, sempre di più si ripete “ti ricordi”, si raccontano vecchie barzellette, si evocano le avventure fatte insieme.
Poi si comincia con la musica, prima composti, si ascolta l’orchestra, dopo cantiamo insieme, le canzone “od Varada pa do Triglava”, cioè di tutti i popoli che una volta vivevano in Jugoslavia. E quando si arriva all’immancabile “Lipe cvatu” (I tigli fioriscono, del gruppo “Bijelo Dugme”), urliamo, ci si ingrossano le vene, i visi diventano pericolosamente rossi, gli occhi pare che ci debbano scoppiare da un momento all’altro.
Fioriscono i tigli,
Tutto è come prima,
Solo il mio, e il tuo cuore,
Non stanno più insieme.
Dopo l’ultima guerra continuano a radunarsi gli ex liceali per festeggiare i venti, trenta, quaranta, cinquanta, addirittura sessant’anni della maturità. Non ci sono però quelli che hanno finito le scuole dopo l’ultima guerra. Penso a loro e mi prende la tristezza. Perché, anche quando festeggiano, loro non cantano “od Vardara pa do Triglava”. Crescono, non insieme, ma gli uni a fianco degli altri, dentro i confini mentali che stanno creando i mondi paralleli, ostili gli uni verso gli altri. Essi non cantano “od Vardara pa do Triglava”, ma “Nož, žica, Srebrenica” (Coltello, filo spinato, Srebrenica) oppure “ubij, zakolji, da Srbin ne postoji”(ammazza, sgozza, che il serbo sparisca).
Crescono nuove generazioni, quelle pure, ma di quella purezza che provoca la nausea perché pretendono l’esclusività nazionale, religiosa ed etnica.
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