In viaggio nei Balcani - Emanuele Mei

In viaggio nei Balcani - Emanuele Mei

Dieci giorni d'estate, in viaggio, da Belgrado a Sarajevo. Dieci giorni di incontri. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

23/09/2015 -  Luca Cometti

Dunque si parte, dieci giorni tutti da scrivere. Per fortuna arriva sempre il momento di chiudere i libri e preparare lo zaino, la vita vera non può stare tutta dentro un manuale, e nemmeno la Storia, quella bisogna guardarla negli occhi.

Quello che trovate qui di seguito è una sorta di "Diario balcanico", scritto dall'8 al 17 giugno 2015, quando, con l'amico e documentarista Emanuele Mei, siamo volati in Serbia e da Belgrado in qualche maniera abbiamo raggiunto la Bosnia Erzegovina, passando dalla Croazia. Nulla di programmato né prenotato, solo una gran voglia di mettere il naso, gli occhi, e i sensi tutti, dentro questi famigerati Balcani a 20 anni dalla fine delle guerre bosniache. In fondo al viaggio una sola regina, Sarajevo.
Le mie impressioni non hanno pretesa di completezza, né di correttezza assoluta, non sarà una guida turistica, quella potrete sempre trovarla su Amazon per pochi soldi e sarà sicuramente fatta meglio, non saranno saggi esclusivamente storici anche se cercherò di verificare tutto quello che di storico vi inserirò.

Quello che cercherò di fare è semplicemente immergermi con tutti i miei sensi dentro le situazioni, le città e le vite delle persone che mi vorranno incontrare, prendendo mezzi pubblici a caso fino al capolinea o camminando per chilometri e chilometri fino alle periferie. 

Mi sforzerò di riconoscere i pregiudizi e di tenerli alla larga, sospenderò i facili giudizi per raccontare i particolari, perché credo che la realtà non sia un flusso unico di macro avvenimenti, ma un insieme di tanti particolari. Una cosa tipo gli atomi, ma non sono Zichichi io, non lo so spiegare.

Posso garantirvi soltanto sincerità ed onestà del mio sentire.

8 giugno - "Cosa andate a fare a Belgrado?"

Belgrado - foto di Emanuele Mei

MILANO - BELGRADO

Pretendere di capire una città in un giorno è follia, sospendere il giudizio sembra l’unica via. Non mi era mai capitato di vedere Milano in pigiama. Quando è successo, stavo rientrando assonnato da qualche serata e non ci ho mai prestato attenzione. Vederla che si sveglia è come scoprire un trucco, capire che c'è un doppio fondo nel cappello, infilarci la mano e farsi morsicare dal coniglio. Ciondoliamo con i pendolari fuori dai tornelli della metro in attesa del primo treno, sono le 5:30 e dobbiamo correre a Malpensa, il volo per Belgrado parte alle 9:40.

“Cosa andate a fare a Belgrado?”

Dopo una buona mezz’ora di lavoro al pc, la donna al mio fianco mi interroga. “Eh, non lo sappiamo nemmeno noi, andiamo per cercare qualcosa, è la prima tappa del nostro viaggio verso Sarajevo”.

La mia risposta deve esserle sembrata un fischio d'inizio, uno sparo, visto che come un centometrista ai blocchi di partenza Dragana esplode nel raccontarci la sua città mentre ormai dal finestrino si intravedevano già i Balcani e l’Adriatico sfumava nelle dimensioni del ricordo.

Sulla quarantina, capelli neri, lisci, occhi grandi, chiari, viso tondo e naso lungo come la versione venuta bene di Olivia di Braccio di Ferro. Torna a casa a trovare i suoi genitori, ormai lavora in Italia da più di quindici anni. Basta fare due più due per capire che è partita proprio nel momento della crisi kosovara, forse proprio quando la NATO bombardò Belgrado, ma per non diventare proprio io il Bruto della situazione non mi lancio nel chiedere.

Segue mezz’ora di informazioni sulla Serbia, dice che oltre Belgrado la Serbia è un paese povero, ma vivo, si lamenta delle guide turistiche che la ricordano solamente per la sua grande vita notturna, ma quando le chiedo di dirmi una, ed una sola cosa che assolutamente non possiamo perderci della capitale, lei mi risponde proprio i locali notturni oltre il fiume Sava.

Restiamo lì ad ascoltarla assonnatissimi, non per colpa sua, ma perché nella notte prima abbiamo dormito due ore o poco più, si è tirato mattina tra un concerto, una bevuta e discorsi che annoierebbero persino Augias.

Dragana ci conquista parlando dei mercati del centro, del formaggio e di come suo padre ancora faccia la spesa lì tutti i giorni pur vivendo in una grande città, veri prodotti a chilometro zero. Adesso qualche supermarket di alimentari c'è, ma quando lei era piccola non c’erano grandi negozi, il socialismo imponeva questi mercati di quartiere come luogo di vendita delle merci dei contadini che affluivano tutti i giorni con i loro prodotti sempre freschi.

Non avendo programmato nulla decidiamo di partire proprio da lì, dai mercati. 

Purtroppo arriviamo al mercato di Stari Grad (città vecchia) nel primo pomeriggio quando ormai stanno chiudendo e in tutto il dedalo di bancarelle ne resistono ben poche con la merce ancora esposta, per gli altri commercianti è ormai scattato il momento birretta e sono soltanto le tre del pomeriggio. In fondo, alcuni uomini giocano a scacchi in silenzio, ci fermiamo a vedere due partite e chiediamo di poterli fotografare. Un silenzio, incredibile, penso al chiasso dei nostri pensionati che giocano a scopa. A bilanciare quella quiete ci ferma un ragazzo, Ivan, si presenta, ci scambia per serbi e ci prega di fotografare il suo amico ubriaco che se la dorme beato con la testa sulla bancarella. Accettiamo, ma mentre manu lo mette a fuoco, quello riesce a sollevare la testa, si sveglia e ci caccia innervosito, leviamo le tende tra le risate dell'amico.

Ma torniamo sull’aereo.

Mentre iniziano le manovre d’atterraggio, per gentilezza chiedo a Dragana che lavoro faccia in Italia, vien fuori che col marito gestisce un’azienda di management dei grandi eventi sportivi, le olimpiadi tipo. Roba da niente. Ci tiene a precisare che però al momento hanno in mano solamente il management del padiglione Expo dell’Unione Europea. Cedo al sonno che mi impone di dribblare il discorso Expo e in men che non si dica siamo in Serbia.

Appena usciti dall’aeroporto Nicola Tesla, ci si avvicina un signore dall'aspetto un po’ losco complici le sopracciglia appuntite in mezzo che ricordano la cattiveria molesta del Grinch, lo sguardo furbo di un truffatore e, perché no, i tetti a spiovente del Sud Tirol. Chiede se abbiamo bisogno di un taxi. Stabiliamo che d’ora in poi le decisioni si prenderanno di pancia, seguendo le buone vibrazioni insomma. Ci fidiamo.

Lo seguiamo fino alla sua macchina poco fuori dall'aeroporto, è in tutto e per tutto una macchina privata, non sembra per niente un taxi. Si ferma a pagare il parcheggio e sfrecciamo verso Belgrado, con un perfetto sconosciuto al volante che nemmeno ha voluto sapere la via in cui portarci. Ma va bene così. Solo quando lo salutiamo, tira fuori dal baule un’insegna TAXI che sembra fatta in casa, di gomma, la attacca sul tetto e si rigetta nel traffico.

Entrando in città vediamo le grandi architetture sovieticheggianti, manciate di finestre regolari, austere, fino a culminare in quella che mi sembra essere come una gigantesca porta d'accesso alla città, una torre altissima con un disco volante in cima, che poi scopro essere un ristorante. E' la torre Genex.
Entriamo in camera dell’ostello e troviamo Jimi Hendrix, Micheal Jackson e Bob Marley dipinti sulle pareti, figo, ma poco socialisteggiante.

L’architettura del centro città invece sì che mi ricorda la Russia o almeno l'idea che ho di lei, la prima impressione è di assistere ad una fusione tra Budapest e un pochino di Vienna, con l'aggiunta dell’alfabeto cirillico che conferisce al tutto un’aspetto diverso, più trasognato.

Belgrado è la tappa iniziale del nostro viaggio e decidiamo di approcciarla in maniera libera, il risultato è un pomeriggio in cui la giriamo in lungo e in largo, dai mercati agli edifici presidenziali, dai quartieri periferici fino al centro della città vecchia, la cittadella fortificata. Ed è qui che mentre il sole pare lanciarsi dentro il Danubio butto giù queste righe, manu poco più in là scatta le foto per un time-lapse, ci vorrà almeno un quarto d’ora.

Il giudizio quindi non può che essere sospeso, perché il tempo è poco e vi riporto come promesso qualche impressione.

Vedere gli edifici bombardati dalla Nato è abbastanza scioccante e fa scattare al volo una sorta di empatia con la vittima, come sempre in tutte queste situazioni. Credo che sia la "Pietas" cristiana che in qualche maniera ho assimilato negli anni e ne sono contento.

Sembrerebbe che i palazzi come il Generalstab, ex sede del ministero della difesa e quartier generale dell'esercito prima jugoslavo e poi serbo, siano stati lasciati lì in quelle condizioni proprio come monito delle nefandezze altrui e in qualche modo per fare un po’ le vittime. Molti altri sono stati ricostruiti.
Certamente rimangono a ricordo delle vere vittime, come le 16 persone tra giornalisti ed addetti morti nel bombardamento della sede della televisione di stato.

L'insofferenza al turco che la contraddistingue da secoli, fa sì che non riesca a trovare nemmeno un kebabbaro in tutta Belgrado o quasi. Finiamo a mangiare hamburger fatti in casa in una via del centro solo perché la ragazza dietro al bancone è simpatica e ci sorride sempre.

Come città è molto pulita, forse fin troppo, in tutti i sensi, e non credo abbiano uno zerbino sotto cui nascondere lo sporco.

Li hanno visti tutti mentre svuotavano la paletta fuori dal terrazzo direttamente sul piano di sotto.
Ma non è certo il momento né il luogo per tirare le somme, anche perché la pesantezza della sua storia si scontra con la vitalità delle sue vie che anche di lunedì sera sono stracolme, con la cordialità delle persone incontrate, facce che sembrano dure e arcigne ma che ci mettono un secondo per trasfigurarsi in irresistibili sorrisi, sarà l'estate che incombe, sarà la voglia di viversela.

Domani dovremmo partire per una qualche metà, probabilmente verso il nord della Serbia per poi passare in Croazia, ma Belgrado sta abbattendo le nostre difese conquistandoci lenta, ma inesorabile, vedremo, innanzitutto abbiamo un carro di sonno da recuperare, partiremo da lì.

9 giugno - "Gli scarafaggi muoiono sulla schiena"

Belgrado - foto di Emanuele Mei

BELGRADO

Sveglia presto oggi, ore 8, ci siamo addormentati come sassi dopo due hamburger e due birre. Colazione in camera come i signori, kinder brioss e succo all’arancia, ci laviamo i denti prepariamo i bagagli e mentre usciamo dalla stanza lo vediamo. Aveva le zampe verso l’alto come un cane che vuole i grattini. Non si muove, non si muove perché è morto. In mezzo alla stanza abbiamo uno scarafaggio morto.

Decidiamo di lasciarlo lì, in pace, nel bel mezzo del parquet protetto dai nostri letti, la stanza come mausoleo. Usciamo, ma lasciamo gli zaini in ostello, torneremo a prenderli nel pomeriggio, quando sarà tempo di ripartire per il nord. Forse non vi ho detto che Manu è archeologo, ed io, anche se non si direbbe, ho appeso in camera un foglio che mi proclama dottore magistrale in storia contemporanea, ecco, anche solo per questo background, non possiamo esimerci dal fare un salto al museo di storia militare. Torniamo quindi verso la cittadella ed entriamo nel museo che non ho intenzione di descrivervi qui.

Dopo tutti i secoli descritti minuziosamente, che parlano della storia balcanica dalla notte dei tempi al Medioevo, si arriva gradualmente fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, le iscrizioni sono tutte soltanto in cirillico e non è che si possa capire un granché. A partire dal 1945, anno di fondazione dell’ONU, compaiono le scritte anche in inglese, ma da lì si prende la rincorsa per saltare direttamente alla fine degli anni ’90. Della guerra in Bosnia nessuna traccia, zero, completamente cancellata, in tutta fretta si arriva all’ultima sala in cui si fa bella mostra di tutti gli armamenti sequestrati dai serbi nel 1998/99 all’UCK, l’esercito popolare di liberazione albanese che combatteva contro di loro per l'indipendenza del Kosovo. So che c’è un museo di storia jugoslava appena fuori Belgrado dove riposa il maresciallo Tito, forse le nostre risposte le troveremo lì. L’ultima parete è occupata da una cartina che mostra da quali paesi partivano i caccia che bombardavano Belgrado, viene sottolineato che soltanto Austria e Svizzera, tra i paesi europei, negarono l’accesso al loro spazio aereo. In un’altra teca sono esposti i resti delle cluster bomb che la Nato ha lanciato sul villaggio di Nis, tra le foto dei morti e delle loro mogli che li piangono inginocchiate in mezzo al sangue fresco, un cartello ricorda che l’uso delle cluster bombs è vietato dalle convenzioni internazionali. Alla fine si danno i numeri, le quantità delle forze NATO, contro quelle dell’esercito serbo/jugoslavo.

Una sproporzione pazzesca, ovviamente a sfavore dei serbi. Mentre aspetto che Manu ricompaia dal budello di corridoi, mi siedo nella hall, al fresco, per scrivere queste righe. Prima di andare notiamo una turista americana che, arrivata all’ultima sala, scuote il capo e andandosene infastidita, credo, dal vittimismo serbo.

Se vi è mai capitato di perdervi in Belgrado, saprete che il Beogradanka sarà la vostra stella polare. Una torre di 101 metri nel centro della città, costruita tra il 1969 ed il 1974, che per i suoi aspetti di modernità e di slancio verso il cielo fu ribattezzata proprio  "Palazzo Belgrado". Dentro paiono esserci uffici, la sede legale dell’IKEA e molti piani occupati da Studio B la televisione cittadina. Un unico pensiero cresce dentro, non possiamo arrenderci alla solita prospettiva. Dobbiamo conquistare la cima del Beogradanka.

“Risk, very risk! You stay hidden here and when I call you you’ll come” “Come, come!”

Furtivi come ladri corriamo per i corridoi alzando bene le ginocchia ed appoggiando solo le punte dei piedi per non far rumore. Dopo due dozzine di piani in ascensore, tocca salire per le scale. E allora via in scia alla nostra guida improvvisata che si muove furtiva per quel labirinto di uffici e guardie di sicurezza.

Giunti all'ultimo piano, ci invita a stargli vicino e ci chiudiamo in uno stanzino di tre metri quadrati, in tre, uno appiccicato all’altro. Da quello che pare essere un bagno per gli addetti alla pulizia, Dusko (lo chiamerò così in onore di Dusan 'Dusko' Popov, celebre spia serba cui Fleming si ispirò per la creazione di James Bond) apre una porticina minuscola attraverso la quale scivoliamo nel locale macchine. In mezzo al frastuono di chissà quali macchinari, smette di sussurrare, si schiarisce la voce e ci dice che ci siamo quasi. Ci arrampichiamo per una minuscola scala a chiocciola tutta ricoperta di cavi schermati che corrono in tutte le direzioni come serpenti impazziti. Un odore di gomma che pareva di stare in visita alla Pirelli. Dopo cinque giri su noi stessi e tanta nausea, ma per fortuna che ultimamente ci si dimentica sempre di pranzare, si apre l’ultima porta, ci siamo. Siamo in cima al Beogradanka. Sotto di noi Belgrado tira avanti, come sempre.

Belgrado dall’alto sembra quasi piatta con poche lievissime colline all’orizzonte tutte coperte di antenne come spine sui cactus sdraiati. Dusko sorride sornione e si improvvisa guida turistica, ci mostra tutte le zone bombardate dalla NATO, le chiese, addirittura chiede se vogliamo che ci faccia una foto. Manu coglie l’occasione e chiede di potergli fare un ritratto, lui accetta, a quel punto sopra di noi non c’è più nulla, nessuna telecamera, soltanto un cielo azzurro velato di bianco che certo non avrebbe fatto la spia. Dusko è tranquillo ora, così tranquillo che riesco a riprenderlo con la mia videocamera. 

Ad un certo punto Manu inizia a fissarsi con la macchina fotografica su alcuni grovigli di cavi ai piedi della grande antenna che, dalla cima, sembra voler fare il solletico alla ionosfera. In quel momento il sorriso di Dusko scompare per un attimo, si gira verso di me e chiede cosa ci trovasse in quei cavi. Io, prima che ci prendesse davvero per delle spie, ruotando indice e medio uniti intorno alle mie tempie, gli dico che Manu è tutto matto e ha la fissa di fotografare il disordine. Dusko torna a ridere, per fortuna, e lascia cadere il discorso. Che poi non ho ancora capito cosa ci trovasse in quei grovigli di cavi, a volte è troppo concettuale e faccio fatica a seguirlo.

Scaduti i 10 minuti di tempo che ci aveva concesso lo paghiamo, ci prega di nascondere le fotocamere e ci ributtiamo giù in picchiata verso il piano terra, nascosti dietro ad ogni muro come soldati, in attesa del suo sussurro a segnalare via libera. Poi Dusko ci accompagna fin fuori, lì ci stringe la mano. Noi siamo al settimo cielo, convinti di aver respirato, da lassù, almeno il sesto se non proprio il settimo.

Questo però non era il nostro primo incontro con la tv serba, ho dimenticato di dirvi che all’aeroporto, ci siamo trovati la nazionale maschile di pallavolo che rientrava da una trasferta, dopo il ritiro bagagli, siamo usciti con loro in mezzo ad uno stuolo di giornalisti, ma, complici i 30 centimetri d’altezza che in media ci distanziavano dagli atleti, nessuno si è curato di noi. Magari tra quei giornalisti c’erano alcuni proprio di "Studio B" che avremmo potuto rincontrare oggi direttamente in redazione, bastava un solo passo falso.

Rientriamo in ostello giusto il tempo di avvisare i ragazzi che il nord avrebbe potuto aspettare ancora, Belgrado ci aveva conquistato. Manu si ributta subito nella città, io sfrutto il suo computer e butto giù il resoconto della nostra giornata da 007. Ci sentiamo per sms, dice di aver trovato un kebabbaro e quattro donne velate. Riesco a farmi due passi in solitudine anche io giusto per fare merenda, poi ci ritroviamo, gli leggo ciò che ho scritto e lui mi mostra le foto dei quartieri nuovi oltre il ponte sulla Sava. Usciamo a mangiare e dopo un paio d’ore a zonzo per la città ci rendiamo conto di non sapere dove siamo, abbiamo parlato troppo e ci siamo fatti lasciare prendere dai discorsi.Ancora una volta nel buio della sera, è la luce sulla cima del beogradanska ad indicarci la via. E’ la nostra stella cometa ed oggi, l’abbiamo conquistata. Per festeggiare, torniamo a mangiare hamburger dagli stessi ragazzi della sera prima.

Al nostro rientro in ostello, conosciamo Duvan, uno dei due proprietari. Ci consiglia di restare in Serbia, di non partire per la Croazia, di restare lì che a Vukovar non c’è nulla di interessante da vedere. Gli chiedo dove andrebbe se potesse partire lasciando tutto per trasferirsi, probabilmente andrebbe in Canada nei pressi di Toronto dove vive la sua famiglia. L’alternativa, secondo le principali vie dell’emigrazione serba sarebbe l’Australia, più adatta per lui che ama il caldo, ma diffida di ogni viaggio che abbia un oceano di mezzo.

E poi ora ha la morosa circa da sei mesi.

“Non potevi trovarti una ragazza serba normale come tutte le altre?!”. Sua madre non è contenta della sua morosa americana, è una cosa strana in Serbia, anche se negli ultimi periodi iniziano a trasferirsi a Belgrado ragazzi da tutto il mondo, principalmente quelli che lavorano on-line, ai quali basta un wi-fi.

Durante un tour dei Balcani ha deciso che Belgrado sarebbe stata il posto adatto per lei, vi si è trasferita ed è nato l’amore, o qualcosa del genere. Duvan tifa la Stella Rossa di Belgrado ormai da venticinque anni, cioè da quando il padre lo portava allo stadio. Il club è in crisi, l’unico incontro bello della stagione è il derby con il Partizan perché ci sono un sacco di scontri tra tifoserie avversarie, e con la polizia. Manu, che con questi discorsi ci va a nozze, attacca a parlare di Sampdoria, di derby della lanterna, della “gradinata” e rimedia pure un invito da parte di Duvan per il prossimo derby: “Vieni, torni qui a dormire ed andiamo assieme allo stadio in curva, ti proteggerò io”. Se la ride di gusto mentre ripensa al giorno in cui dei ragazzi tedeschi ospiti dell’ostello, gli hanno chiesto aiuto per la prenotazione dei biglietti per il derby, volevano andare nella curva della Stella Rossa. Lui dice di aver provato a dissuaderli, spiegando a cosa sarebbero andati incontro, ma non ne hanno voluto sapere. Sono rientrati in ostello quattro ore dopo la partita, tremanti, un po’ massacrati e spaventati. Come sempre la polizia era entrata in curva e si era scatenato un mezzo ’48 a causa di un agente che aveva perso la pistola proprio nel bel mezzo della folla. “Ecco, forse la stella rossa è davvero l’unico motivo per cui non potrò lasciare Belgrado, una volta mi sono fatto anche 20 giorni di carcere, per un derby”. Salutiamo Duvan e torniamo in camera bolliti.

La stanza era come l’avevamo lasciata, in perfetto disordine, nessuno dei ragazzi era entrato in camera, nessuno aveva fatto le pulizie, ma lo scarafaggio non c’era più. Ed è così che quella che in apertura era un’affermazione diventa una domanda: gli scarafaggi muoiono sulla schiena? Magari, come noi, vi dormono soltanto.

10 giugno - "Le anime di Vukovar"

Vukovar - Emanuele Mei

BELGRADO - VUKOVAR

"Qui le cose cambiano veramente in fretta, un giorno va tutto bene e il giorno dopo può scoppiare un'altra guerra. Spero che non succeda, ma non ho paura, in caso, partirò. Ora le cose vanno meglio, se potessimo avere anche solo cinquant'anni di pace sarebbe magnifico". Ripenso alle parole di Duvan, il ragazzo dell'ostello di cui vi parlavo ieri. Vi scrivo dalla stazione di Belgrado, 10 del mattino, giornata calda, il sole gioca a nascondino con le nuvole, ma perde sempre, lo sanno tutti dove si nasconde. Il treno per Zagabria partirà alle 11 ho un'ora libera e decido di perdermi tra la gente lasciando fluire i pensieri come se non fossi io a governare la penna. Ci fermeremo a Vinkovci in terra croata, da lì cercheremo di puntare su Vukovar. 

Quella di Belgrado è una stazione molto piccola, se dovessi paragonarla ad una delle nostre direi Pavia, non certo quella di una capitale. Nei Balcani il treno non è un mezzo di trasporto molto gettonato, preferiscono il bus che è molto più gestibile e versatile.

Stamattina prima di uscire Duvan mi raccontava di quando durante i bombardamenti NATO, ha visto i missili girare per la città. Aveva 22 anni.

"Volavano molto bassi, facevano le curve tra i palazzi, erano i missili intelligenti"

Così intelligenti da riuscire a colpire ospedali e ambasciate come quella cinese ad esempio. Se avete visto la facciata del Generalstab, quel palazzone ocra semidistrutto al centro di Belgrado avrete notato che nella parte destra c'è un cratere nel centro, proprio a circa 3/4 metri d'altezza, ecco, quelli sono i missili di cui parla Duvan. Quello fatale è stato il secondo, il palazzo era stato evacuato, ma ha fatto una strage tra la folla di curiosi e tra i soccorritori che nel frattempo si erano radunati lì attorno dopo la prima esplosione. Centinaia di morti dice, guarda per terra.

La motrice rossa guida due sole carrozze cavalcando in una distesa giallo/verde. Il nostro treno è lanciato a ben 10km orari verso la periferia. I sedili sono tutti nella stessa direzione così da non essere obbligato a guardare in faccia nessuno, posso dormire, scrivere, ciondolare o perdere le bave come un vecchio.

Ma non vi ho ancora raccontato della resurrezione! Stamattina, mentre lasciavamo una volta per tutte l'ostello, abbiamo ritrovato vivo il nostro scarafaggetto! Si aggirava per la stanza tutto solo, in verità, non siamo certi che sia lui, è ingrassato un sacco, ma è una questione di fede ormai e lo veneriamo a prescindere. Per l'ultima volta ripenso a Belgrado, ai suoi giovani, le sue vie del centro, i suoi palazzi grigi e quelli neoclassici, gli sparuti gruppi di turisti, il Danubio, la Sava ed i tramonti sopra di loro.

L'unica cosa che non riesco a descriverne è l'odore. È da quando Chiara mi ha iscritto un sms ieri sera che ci penso, vuole sapere cosa entra nelle narici camminando per quelle strade, vuole potersela immaginare ancora meglio, mi chiede se ricorda Istanbul, direi di no, nessun profumo di carne d'agnello qui. Se fosse Varanasi sarebbe fumo, stagno e curcuma, ma la verità è che Belgrado non ha un odore particolare, è simile a quello che si può respirare a Milano, al limite senza le caldarroste. Non riesco a dire di più.

Scrivere dal treno mi è sempre piaciuto un sacco perché gli occhi portano alla testa infiniti stimoli e mentre ti sposti puoi perderti dentro te stesso senza paura di buttare via il tempo, perché comunque qualcosa di buono lo stai facendo, ti stai spostando. O forse è solo che mi piace lavorare in modalità multitasking, come quando scrivo i testi delle canzoni camminando avanti e indietro per la stessa stanza quasi a consumare il pavimento. Una volta ho centrato lo stipite di una porta, non è che non l'avessi visto è che ero proprio da un'altra parte. Ma non parliamo di me, continuiamo con il viaggio.

Nella periferia di Belgrado, oltre il ponte sulla Sava, solo casermoni grigi ancora una volta tutti scrostati, migliaia di finestre, terrazze e migliaia di vite dietro ognuna di quelle. Oltre i sobborghi, il mare infinito, un mare di campi coltivati, sento il mais che ti solletica le ginocchia ed il grano paglierino poco più in basso, leggermente oltre, piante di patate ed altre che sinceramente ignoro. Ad intermittenza spuntano isolotti di casupole dai tetti rossi e i muri bianchi, così immerse nella pianura da pensare di poterci vivere una vita felice con una donna, un cavallo e poco più.Lungo i binari incontriamo minuscole stazioni: Nova Pazova, Golubivci, Ruma. Dopo ogni fermata i controllori ripassano avanti e indietro per controllare i biglietti dei nuovi arrivati. Tra una stazione e l'altra la pianura continua a stendersi come un mare che ti ruba gli occhi e li porta via con sé sotterrandoli all'orizzonte.

Alle 15:30 ci fermiamo nella stazione di Sid, nella Slavonia meridionale, ultima città serba sul confine, oltre, ci attende la Croazia. È il momento del controllo documenti. Salgono alcuni agenti della polizia serba in rigorosa divisa nera, spalancano le porte dei bagni e, appurato che nessuno vi si nasconda, iniziano a controllare i passaporti. Sono molto puntigliosi e segnalano via radio i nomi di alcuni passeggeri per ulteriori controlli, "Slobodan, Mirko..." e così via. Giunti davanti a noi chiedono da dove arriviamo, dove siamo diretti, e passano oltre. L'operazione di controllo si conclude in un'ora, ripartiamo per dieci minuti e la scena si ripete con le forze dell'ordine Croate, dopo un breve controllo la poliziotta mi sorride e sentenzia: "ok Liuca, welcome in croazia"!

Le case qui cambiano, tutte basse due piani al massimo, regolari, una a fianco all'altra nella stessa direzione. Fuori le automobili, qualche trattore, una catasta di legna malfatta, gli spioventi Asburgici. Giunti alla stazione di Vinkovci saliamo sul bus per Vukovar, siamo in tre più l'autista, non è un posto molto turistico ed è molto meglio così. Passiamo a fianco ad una gigantesca discarica. Mi ricordo della discarica, avevo letto che dopo la caduta di Vukovar, 261 persone tra feriti e medici dell'ospedale furono trucidati con un colpo alla testa e gettati proprio lì, era il 1991. 

La storia inizia a manifestarsi in tutto il suo peso.

Vukovar prima della guerra era un porto fluviale molto importante che dalla riva destra del Danubio, fronteggia la Serbia. La città contava 84000 abitanti: 44% croati, 37% serbi, per il resto ungheresi, cechi ed altre etnie. Quando iniziarono le ostilità, per la paura dei serbi di Croazia di perdere i benifici di cui godevano con Tito e la Jugoslavia, la città venne chiusa in un assedio di 86 giorni che costò la vita a 4000 civili, dei 2000 difensori della città rimasti in vita, molti furono fatti prigionieri ed inviati niei campi i militari in Serbia, alcune centinaia scomparvero nel nulla, e poi ci sono quei 261 di cui vi ho già parlato.

Il pullman ci scarica in centro, dobbiamo trovarci da dormire, mettiamo a punto il nostro piano d'attacco. La tattica è quella di fermarci a bere birrette nei bar con gestori simpatici ed attaccare discorso, ma tutto naufraga quasi subito perché il loro inglese è più limitato del nostro. Ci ritroviamo sotto un sole da Arizona a sudare tutte quante le birrette. Per cercare un po' d'aria facciamo due passi sul Danubio in solitudine, quasi nessuno per le strade. Mentre pensiamo che così conciati non ci accetterà nessuno, conosciamo Boris.

Boris lavora poco fuori Vukovar, non ho ben capito di che cosa si occupi, ma so per certo che da poco con i suoi famigliari ha aperto un piccolo bed and breakfast, proprio al centro della città ed è proprio a quel citofono che si sono appese le nostre ultime speranze. Ci offre asilo, le camere sono tutte a disposizione, profumano di nuovo perché il posto aprirà soltanto tra alcuni giorni, che pacchia! Ci spiega che è tutto nuovo perché Vukovar durante la guerra del 1991 è stata completamente rasa al suolo, compresa casa sua, che poi è quella in cui dormiremo perché lui vive in un appartamento lì a fianco.

L'esercito serbo/jugoslavo ha conquistato questo lembo di Croazia e per un po' di anni ci abitava altra gente in casa sua, o almeno in quello che ne rimaneva. Lui, che all'epoca aveva 16 anni è scappato a Zara, tornò a Vukovar soltanto 7 anni dopo. Lì, con la sua famiglia, si è fatto forza ed ha provato a ricominciare, forse con i fondi che la Comunità Europea ha stanziato per la ricostruzione, ma non ne siamo certi e non osiamo chiedere.

Ci incontriamo in cortile sul dondolo poco dopo, io con il mio telefono a cercare un wifi, lui con il padre e la madre a pulire ciliegie, la signora mi sorride e mi invita a prenderne una, ad assaggiarle, nel frattempo continua a parlarmi in croato, le racconto che abbiamo appena messo le reti sulle nostre, in Italia, per proteggerle dai merli, lei continua a rispondermi in croato, ma se la ride e me ne offre ancora. Restiamo lì per un po' a parlarci senza capirci con un sole basso che bussa nelle retine, finisco al tavolo con loro a pulire ciliegie, forse per la marmellata o un succo, non ho capito bene, Boris se n'è andato e non abbiamo una lingua comune se non il lavoro delle mani.

Tornando alle parole di Boris, quella è la prima volta in cui davvero avverto la pesantezza del vissuto dietro i racconti, tutti i suoi discorsi sono caratterizzati da una divisione netta, cesura indelebile: "Before the war" e "after the war". Non è più mio nonno che parla della Seconda Guerra Mondiale, non è più quel mondo in bianco e nero, lontano, sono vicende di vent'anni fa con tutta la potenza dei loro colori, che molto spesso qui hanno avuto tutte le sfumature del rosso. Questa cesura ritorna nei discorsi di ogni persona che incontriamo come a segnare due epoche diverse, due stili di vita diversi, due coscienze di diverso peso. La sera, ad esempio, ceniamo in una delle 3 tavole calde che ci sono nel centro e, mentre la cameriera ci sorride a intervalli regolari, uno dei cuochi vuole parlarci. Ci chiede come vanno le cose in Italia e decanta le infinite bellezze di Brescia, unica città che ha visitato, dice che lì la vita è bella, rispondiamo che anche Vukovar è bellissima con un grandissimo potenziale turistico, se non altro, perché è tutto nuovo.Non è d'accordo, dice che è una città morta ci invita a sederci con lui lì fuori e scommettere che non passerà nemmeno una persona in un'ora. Ci racconta che come la maggior parte dei giovani di quella città, se potesse, lascerebbe tutto e se ne andrebbe anche lui. Before the war aveva una fattoria ma poi i serbi gliel'hanno distrutta ed ha dovuto inventarsi qualcos'altro, si è sposato da poco, ha una bambina piccola e deve cucinare hamburger per vivere. Finiamo il vino, le Karlovachko e salutiamo.

Ci fermiamo un po' a parlare tra di noi di questa città, del suo potenziale, restiamo per un'ora seduti su un'aiuola nella via del centro, davanti al garage di Boris, ma in tutto quel tempo, nemmeno un'anima.
D'altra parte, come dicono qui, le anime hanno già lasciato Vukovar da un bel po'.

11 giugno - "La resa di Doboj"

Doboj - Emanuele Mei

VUKOVAR - SLAVONSKI BROD - DOBOJ - ZENICA - SARAJEVO

Se foste venuti a bussare alla porta della nostra camera in Vukovar, stamattina all'alba, non ci avreste trovato.

Usciamo che i negozi sono ancora tutti chiusi, un ultimo giro per la città. Camminiamo fino alla cisterna bombardata simbolo di un passato che questa città non sembra ancora aver deciso se eleggere a fondamento turistico o cercare di dimenticare completamente e superarlo. Come la cisterna, molti palazzi bucherellati non sono ancora stati sistemati, molte case crollate restano in attesa di una ricostruzione che in vent'anni non le ha ancora toccate, al centro di Vukovar, un hotel completamente in rovina, ancora arredato.

Con questi interrogativi nel cuore, partiamo per la Bosnia.

Riprendiamo il bus per Vinkovci, ma una volta arrivati ci dicono che non esistono treni che da quella stazione vanno in Bosnia. Forse, è la mentalità che deriva ancora dal sistema socialista in cui, comunque vada, avrai il tuo stipendio a fine mese e non è quindi necessario adoperarsi troppo. Un modo dev'esserci per forza, rompiamo nuovamente le scatole alla bellissima ragazza della biglietteria. Si ricorda di noi che le abbiamo interrotto il pranzo di ieri, sposa la nostra causa e fa alcune telefonate per cercare di capire come convenga muoverci, dice di avvicinarci al confine e da lì cercare un modo per entrare in Bosnia.

Finiamo su un treno che da Vinkovci ci porterà a Slavonski Brod ultimo baluardo croato. Arriviamo a destinazione nel primo pomeriggio, ma per Sarajevo c'è soltanto un bus che partirà alle 19 e raggiungerà la capitale bosniaca soltanto alle 23:55. Troppo tardi.

Considerando il costo dell'attrezzatura di Emanuele, non possiamo permetterci di rischiare anche perché, come sempre in questo viaggio, non abbiamo nulla di prenotato e rischieremmo troppo.

Per caso, mi ricordo della città di Doboj, una delle tappe del treno che collegava Belgrado a Sarajevo, decidiamo di puntarla, rotta verso sud. In origine il nostro viaggio avrebbe dovuto essere proprio a bordo di quel treno che ormai non esiste più.

Aperto nel 1983 in vista delle olimpiadi invernali che si sarebbero tenute a Sarajevo l'anno successivo, era il fiore all'occhiello delle ferrovie jugoslave.

Con lo scoppiare della guerra la tratta fu interrotta, riaprì soltanto nel 2009 per essere definitivamente soppresso nel 2012 a causa della scarsa affluenza.

Di fatto, a parte la deviazione per Vukovar, stiamo facendo proprio quella tratta rattoppando qua e là con un bus un treno, un bus. Siamo gli arlecchini dei trasporti balcanici.

Ci decidiamo per Doboj nella Bosnia centrale, senza sapere nulla di quella città. Tutta la stazione di Slavonski Brod si attiva per noi, chi ci fa i biglietti telefonando a destra e a manca per assicurarsi che il bus compia una fermata extra a Doboj, chi ci cambia i soldi, addirittura troviamo un autista che viene ad avvisarci di persona in sala d'attesa quando arriva il pullman. Si ringrazia, si stringono mani e, soprattutto, si sorride. Se c'è una cosa che ho imparato da mostri sacri del viaggio quali Terzani o Antoine de Maximy è che il sorriso è la prima fondamentale forma di comunicazione, ancora prima del linguaggio, in alcuni casi estremi come per Terzani può addirittura salvarti la vita, ma questa è un'altra storia, ciò che interessa qui è che abbiamo ottenuto ciò che cercavamo, un pullman per la Bosnia.
Passiamo il confine intorno alle due di pomeriggio dopo un rapido controllo delle due polizie di frontiera, anche se in verità quello bosniaco non è molto approfondito, vengono controllati soltanto due passaporti su tutto il pullman.

In genere i tetti sono la prima cosa a bruciare, poi i serramenti, le porte, le finestre, i giardini, e gli alberi. Quando il fumo svanisce resta sui muri anneriti uno strato di caliggine che pare un vestito dietro al quale gli stessi muri nascondono la propria vergogna. La vergogna di essere sopravvissuti.
Sono ancora tutte lì queste case, mai più toccate, mai più ricostruite, intorno pochissimi i campi coltivati, boschi, cespugli, pianure incolte, ogni tanto qualche casa nuova con l'intonaco fresco.
Eccola, la Bosnia.

La prima volta che ho sentito questo nome "Bosnia", dev'essere stato alla televisione o forse al supermercato. Già, perché quando nel nostro paesino ha aperto il primo LIDL, le merci venivano lasciate sui bancali ancora impacchettate, ci si serviva un po' da soli, alla buona, tutto pareva un po' trascurato, le marche sconosciute, per lo più d'importazione tedesca, ed in paese, quel supermercato aveva preso il nome di Bosnia. Andiamo al Bosnia a fare la spesa!

Subito oltre confine le case distrutte ci accompagnano da entrambi i lati, ad interromperle, i cimiteri, le chiese ortodosse e tante bandiere con i colori della Jugoslavia o della Serbia forse, bianco rosso e blu.
Perchè non hanno appeso le bandiere della Bosnia?

Per intenderci, quella con le stelle bianche che separano la metà gialla da quella blu?

Perché siamo nella Republika Sprska, quella dei serbi di Bosnia, una delle due entità federate che danno vita alla Bosnia Erzegovina. Questi serbi hanno combattuto per staccare dalla Bosnia tutte quelle porzioni di territorio che da secoli erano abitate dalla loro etnia ed annetterle alla stessa Serbia che stava uscendo dalla dissoluzione della Jugoslavia come nuovo stato egemone. Per riuscire in questo intento, avrebbero dovuto prima rendere omogenee etnicamente quelle regioni che vedevano presenti in larga parte i cosiddetti Bosgnacchi (cioè i bosniaci mussulmani), i croati di Bosnia ed altre etnie minori.

Per queste strade, tra queste case, in questi campi è passata la guerra peggiore, quella che in spregio delle convenzioni internazionale, fu "spesso condotta da truppe drogate o ubriache, che usavano il terrore come strumento per costringere la gente dell'etnia nemica ad abbandonare le proprie case. Massacri, stupri sistematici, saccheggi, incendi dolosi, rapine, blocchi stradali, estorsioni, rapimenti, ricatti, pose di mine, interruzioni ferroviarie erano all'ordine del giorno". (Il virgolettato è di Joze Pirjevec, dal libro "Le guerre Jugoslave" l'unica vera Bibbia di questo viaggio).

La strada corre in questo paesaggio macabro, la pianura inizia a rompersi con qualche collinetta che si affaccia timida. Passiamo la città di Brod con la sua imponente raffineria, ma solo quando arriviamo a Rudanka vediamo la prima moschea, segno che gradualmente ci stiamo spostando a sud dove la presenza mussulmana, dovuta al dominio turco, è rimasta ancora viva.

Infine, giungiamo a Doboj.

Scendiamo nel nulla sotto un sole che spacca le pietre, dalla periferia ci spostiamo in centro e cominciamo la ricerca di un posto per la notte. Scopriamo che ci sono soltanto tre hotel a Doboj. Scartato a priori il quattro stelle, perché troppo lontano dallo spirito di questo viaggio. decidiamo di provare nel primo, una sorta di motel sopra una stazione di servizio. 

"FULL! FULL! We are full, sorry!", ma un poliziotto con l'uniforme nera della Republika Sprska ci si avvicina gentile consigliandoci di provare in un posto lì vicino, ma è 'full' anche quello. La ragazza alla reception cerca di aiutarci ma, ancora una volta lei non sa l'inglese e facciamo fatica a capirci. E' visibilmente preoccupata per noi anche perché sono già le sei di sera e all'orizzonte si palesano due temporali che paiono aver deciso di scontrarsi proprio sopra le nostre teste. Alla fine, sconsolata, ci chiede perché abbiamo deciso di andare proprio in Bosnia, dice che lei non vede l'ora di andarsene, noi siamo dei pazzi. Addirittura telefona alla stazione dei bus per sapere a che ora passa quello per la città vicina, consigliandoci di provare là. Alla fine, sempre col sorriso, le diciamo di non preoccuparsi che in qualche maniera faremo, al limite dormiremo in stazione.

Ci saluta, sempre più preoccupata: "Just don't die outside!"

Incoraggiati dalle sue parole ci rimettiamo alla ricerca, ma proprio in quel momento ci coglie il diluvio. Ripariamo nell'ingresso di una casa e rimaniamo nell'androne delle scale per quasi un'ora, con noi due donne, sembrano madre e figlia, la più giovane parla inglese, dice di aver studiato lingue tra cui anche l'italiano, ma specifica che non capisce nulla né lo sa parlare perché la sua professoressa era bad. Restiamo lì a sorriderci e farci gesti o semplicemente a guardarci fino a quando spiove. Chiediamo se sanno dirci dove dormire e la ragazza riesce comunque a tirare fuori un nome, hotel Zungla.

L'hotel Zungla di Doboj è in realtà un motel per camionisti piuttosto degradato, sul limitar d'un piazzale d'asfalto, con i cani randagi che si aggirano nella sporcizia diffusa ed alcuni rom, i primi che incontriamo, con i loro borsoni. Ci avviciniamo e subito dopo aver tentato di parlarci nella loro lingua ci parlano in italiano, i rom qui parlano e capiscono l'italiano benissimo, questa sarà una costante.

Non capiamo dove sia l'ingresso del motel e a furia di girare finiamo nella camera di due camionisti in canottiera che stanno guardando la televisione buttata per terra in un angolo della stanza. Uno resta sdraiato sulla branda, l'altro ci viene incontro in ciabatte, ma ancora una volta, non ci si riesce a capire un granché, giriamo ancora mezz'oretta e decidiamo di fare un tentativo alla stazione dei treni, dall'altra parte della città, oltre il fiume Bosna. Lì sembra di stare sulla Transiberiana, in una di quelle stazioni di mezzo dimenticate da dio. Negozi distrutti un po' ovunque, ruggine, cani randagi magrissimi in mezzo alla spazzatura e bigliettai introvabili. Non so come, capiamo che il primo treno per lasciare Doboj arriverà soltanto alle 3 del mattino, si materializza un impiegato delle ferrovie che senza scomporsi, ci consiglia di dormire in stazione, fa parte del gioco, ok, ma la teniamo come ultima spiaggia. Tentiamo il tutto per tutto alla stazione dei bus, troviamo un pullman alle 19:30 che ci porterà direttamente a Sarajevo.

Purtroppo, sconfitti, dobbiamo sautare Doboj, è un gran peccato, ci è parsa una città molto interessante dai tratti complessi, con i soliti palazzoni grigi che ci guardano strano, ma piena di giovani, in lontananza, a colorar le colline, castelli diroccati, chiese bianchissime e, poco più in là, persino una moschea.

Si riparte dunque, prossima fermata Sarajevo, lasciamo Doboj in perfetto orario, la strada corre dritta per tutto il primo pezzo, c'è talmente poco traffico che l'autista del nostro bus si lancia in sorpassi alla cieca prima di curve più buie della notte in Antartide. Sfibrati dalla giornata, ci abbandoniamo alle calde e comode braccia di Morfeo.

La Valtellina per me è un bellissimo posto, sicuramente per quanto riguarda l'ambiente. Montagne, boschi, sentieri, strade, tornanti a picco sul fondovalle, fiumi e paesini a metà montagna, aria pulita e spazi per fuggire a pensare.

E' un po' come quando riavvii un computer.

Anche il cervello ha bisogno del suo tempo per riaccendersi, come un hard disk, ma c'è un momento in cui mentre il sistema nervoso riparte, gli occhi lo inondano di mille stimoli che per qualche secondo non riesce ad elaborare. E' proprio quello il frangente in cui, riaprendo gli occhi al mondo, ho la netta sensazione di essere a casa, anzi, per un momento, ne sono proprio convinto.

Più precisamente (per chi la conosce) in quel tratto di strada che dal Valchiosa porta verso Tovo, una sorta di gola con il fiume molto più in basso, una piccola diga e due guardrail.

E invece no, quelli che mi circondano oggi, sono loro, i Balcani.

Balkan in turco significa appunto "montagna", certo non sono imponenti come le Alpi, ma nulla a che vedere con le colline di prima. Il sole è appena tramontato e la gente è tutta ancora nei piccoli campi tra le sparute case, chi gira il fieno, chi lo rastrella, chi ne fa dei particolari mucchi, molto alti, con un palo ben piantato in centro. A parte questo, monti, case, chiese, moschee, nessuna bandiera con i colori Jugoslavi, solo quelli bosniaci, siamo in quella che, secondo gli accordi di pace firmati a Dayton nel 1995, è la seconda delle due entità federate, la federazione di Bosnia Erzegovina.

Le case qui sono molto curate, intonaci nuovi, i muri non hanno i segni della guerra, probabilmente non si è combattuto molto da queste parti, siamo in una zona centrale, etnicamente omogenea.

Mentre ormai l'unica luce che filtra dai finestrini è quella dei lampioni al fianco dell'autostrada, entriamo a Zenica. E' molto più grande di Doboj, ci accoglie con l'imponenza delle sue fabbriche, probabilmente tutto è un gigantesco centro siderurgico perché fin dove gli occhi possono spingersi è tutto un unico susseguirsi di tubi, cavi, cisterne, e ciminiere che, come se nulla fosse, continuano a sbuffare senza curarsi di noi. Lì nel mezzo fiamme gigantesche rischiarano porzioni casuali di cielo.

Mi perdo nella suggestione delle ciminiere che erano per me come sirene, finché non ho scoperto i minareti, ma anche questa è un'altra storia.

Pensiamo che questa sia la cosa più sovietica vista fin qui, una gigantesca acciaieria dispersa tra i monti, divisione del lavoro in aree produttive cui è attribuito uno ed un solo scopo. Socialismo reale che resiste imponente.

Tutt'intorno i soliti palazzoni dormitorio, che ora, con le luci accese, fanno ancora più paura, ma in questa notte particolarmente buia, là in fondo, ad una manciata di chilometri, l'abbraccio caldo che cerchiamo, la nostra salvatrice.

Sappiamo che ci attende e non vediamo l'ora di abbracciarla.

Welcome to Sarajevo?

12 giugno - "Leila Thirtyfour"

Sarajevo - Emanuele Mei

SARAJEVO

Leila Thirtyfour ha gli occhi color primavera. 

Mentre le parlo, seduti in un bar del quartiere turco di Sarajevo, scopro tutte le sue qualità. Per esempio, riesce a girarsi le sigarette con una mano sola. Leila è laureata in filosofia e sociologia, ma oggi sta semplicemente sostituendo un collega ammalato. La incontriamo in un piccolo ufficio, piuttosto spoglio, che pubblicizza le piramidi bosniache. Già, a quanto pare intorno alla capitale ci sarebbero delle gigantesche costruzioni interrate, ne avevo già sentito parlare, ma dai suoi racconti non capisco se sia una cosa da scoppiatoni freak, o una cosa scientificamente e storicamente giustificata. Finisco il mio caffè e, mentre lei parla di energia, natura, antiche civiltà, io osservo "Emanuele l'archeologo" che mi pare dubbioso, me lo immagino che scuote la testa sussurrando tagliente: "Tutte cazzate".

Non so dove stia la verità, ma non è quella che cerco adesso. Restiamo lì al sole a raccontarci le cose più strane per una mezz'oretta, poi Leila dice che possiamo andare. Ha deciso di darci una mano a cercare l'ostello del quale sappiamo soltanto il nome, cerca il posto sul computer del suo ufficio e telefona per noi. Il ragazzo all'altro capo del telefono però taglia corto, "Scusa scusa, sono proprio di fronte alla moschea sto entrando, tornerò tra circa veniti minuti, potete aspettare?", ormai è mezzogiorno di venerdì, eccovi spiegato come siamo a bere caffè al sole per le strade di Sarajevo.

Mentre camminiamo verso l'ostello, Leila mi si avvicina ed inizia a raccontarmi di essere una madre single, ha una bambina di 4 anni che è meravigliosa, adesso è "al mare, al fiume" con i nonni, ed anche suo fratello, che vive con lei, è via per tutto questo weekend. Dice che ha una macchina, possiamo rivederci nel pomeriggio quando avrà finito di lavorare ed andare a farci un giro fuori Sarajevo, per noi sarebbe perfetto, sono le situazioni che ci piacciono. Prima di lasciarci ci scrive il numero di telefono e mi dice: "Remember, I'm Leila Thirtyfour!".

Poco prima le avevamo spiegato del nostro viaggio, della ricerca, degli scritti e di quanto ci piace parlare con la gente. Le avevo spiegato che sarebbe diventata un soggetto, credo che sia quello il motivo per cui mi ha raccontato della sua famiglia.

Non la rivedremo più, come a volte capita, le nostre strade si sono incontrate per caso e con la stessa semplicità si perderanno, basterà un numero di telefono che non funziona per un prefisso sbagliato o qualcosa del genere.

Andiamo avanti o meglio, indietro.

La sera prima di incontrare Leila, finalmente arriviamo a Sarajevo.

Il bus di cui vi parlavo nel post precedente ci scarica in una stazione da qualche parte in città, è mezzanotte, è buio e solo due lampioni rischiarano la piazza. Non abbiamo la cartina e nemmeno un posto per dormire, vaghiamo verso la stazione dei taxi.

Avete presente quelle cover rock di canzoni storiche riarrangiate? Che ne so, tipo la versione metal di bella ciao? Ecco, mi han sempre fatto abbastanza vomitare. Un taxista apre la portiera per parlarci e ci regala il primo suono di Sarajevo che le nostre orecchie possano sentire: una cover punk di "bandiera rossa".

Partiamo verso il centro, ci si para davanti l'Holiday Inn tristemente famoso per via del suo bombardamento, ma non è questo il post in cui vi voglio parlare della storia della città, lasciamola da parte per un attimo e concentriamoci sulle impressioni.

La radio dell'autobus continua a parlare di Srebrenica e va avanti per circa un paio di minuti, impossibile sperare di capire, sarà stata una qualche commemorazione a vent'anni esatti dal massacro. Il taxista ci scarica nel centro dove questa volta le nostre orecchie vengono violentate dai bassi di una qualche canzone tecno, musica elettronica insomma, la via è un carnaio, ragazzi in ogni dove riempiono le vie, ai lati Irish pub, disco pub e addirittura un vero double Decker londinese davanti al quale si ergono le statue di Stanlio e Olio.

Storditi da questa inaspettata botta di vita ci facciamo largo tra la folla, nel mezzo una bionda mi prende per un braccio, mi tira verso di lei e mi accarezza proferendo parole che è divertente immaginarsi. Per evitare le sirene della movida, troviamo un piccolo ostello oltre il fiume Miljacka, passando dal ponte latino, quello tanto caro a Gavrilo Princip e Francesco Ferdinando per intenderci.

La mattina seguente ci spostiamo nel nuovo ostello che un'amica ha prenotato per noi (siamo pieni di amiche!) e dopo aver incontrato Leila Thirtyfour restiamo tutto il pomeriggio in stanza, vogliamo finire il lavoro sui primi giorni per poi buttarci alla scoperta di Sarajevo. Oltre la nostra finestra canti, danze e musica anatolica, c'è l'esercito turco in piazza, alcuni politici e tutti i turchi di Sarajevo in festa, non appena il muezzin attacca con l'invito alla preghiera interrompo la scrittura e me lo godo sembra davvero di tornare ad Istanbul.

Siamo alloggiati nella Bascarsija, il quartiere ottomano e la cosa, come immaginerete, mi garba assai.

Miralem Pjanic, centrocampista della Roma, è nato a Tuzla il 2 aprile 1990, non esattamente un ottimo periodo per scegliere di nascere nei Balcani. Fino al 2008 giocò con la nazionale di Lussemburgo, paese che gli diede la cittadinanza quando, poco dopo la sua nascita, la famiglia dovette fuggire dalla Bosnia.
Stasera Pjanic è titolare, non potrebbe essere altrimenti, sarà a Zenica per giocare con la Bosnia contro Israele. In città, centinaia di schermi, letteralmente. Mentre prendiamo posto intuiamo che non sarà una partita normale. Le squadre giocano per la qualificazione ai mondiali o agli europei, non lo so di preciso, ma l'incontro con Israele, a Sarajevo pare prendere i tratti di un derby.

Abbiamo cercato di comprare i biglietti, ma la partita sarà a Zenica e non avremmo idea di come tornare nella capitale dopo il match, ci accontentiamo di un bar del centro, all'ombra della cattedrale cattolica. Pensiamo che sarebbe bello vederne un tempo lì ed uno nel quartiere ebraico dove vivono i discendenti degli ebrei Sefarditi, ma nessuno di noi ha ancora idea di dove sia. La gente è tutta in strada, nei bar, avvolta in bandiere, sciarpe o magliette, tutte con i colori della Bosnia, le ragazze sono le più agguerrite, si accalorano, si disperano e per ognuno dei tre gol della Bosnia saltano in piedi, si abbracciano e per cinque minuti ballano sulla musica disco/tecno che parte dagli altoparlanti dei bar, coprendo il commento ed inondando le vie di Sarajevo con un terremoto di onde basse.

A fine partita decidiamo di passeggiare da un estremo all'altro della città sul viale dei cecchini, attorno a noi caroselli, bandiere al vento, fuochi d'artificio per la strada e burnout.

Per un attimo ci è sembrato di vedere questa società profondamente spaccata al suo interno, proprio nel momento in cui dalla felicità, chiudeva gli occhi stringendosi tutta intorno alla sua bandiera, e per qualche momento riusciva persino a dimenticarsi di tutto il resto.

13 giugno - "Darko"

Sarajevo - Emanuele Mei

SARAJEVO

"Amo gli animali, fanno molto meno male delle persone".

Prima della guerra Sarajevo era la capitale dei matrimoni misti: ebrei, cattolici, ortodossi e mussulmani riuscivano senza tanti problemi a prendere in mano la loro vita e far vincere l'amore su tutto il resto, senza curarsi poi troppo del parere di dio.

Incontriamo Darko per caso in un ufficio informazioni la mattina, lo sentiamo discutere nella lingua locale, poi si rivolge a noi in un inglese davvero perfetto finchè non si accorge che siamo italiani.
"Ah, ma siete italiani porca troia!"

Da quel momento la situazione cambia ed anche il nostro viaggio, la nostra conoscenza di Sarajevo ne guadagnerà incredibilmente, già, perchè la lingura madre di Darko è proprio l'italiano.

Nato a Zenica nel 1990, cresce in italia, dalle parti di Torino. Con lui il fratello e la madre che devono scappare in italia proprio quando nel 1991 inizia la guerra serbo-croata. Il padre rimane in Bosnia, ed essendo cattolico, viene mandato a combattere con i croati, ma si rifiuta di sparare sui mussulmani perché la metà della sua famiglia è di etnia bosgnacca. Infatti il padre di Darko, figlio a sua volta di un matrimonio misto tra cattolico ed un'ortodossa, ha una moglie mussulmana, ad unirli ancor di più, la fede nel comunismo. Tito è visto molto bene, principalmente in virtù della sua capacità di far collaborare le varie etnie per lo sviluppo del grande stato degli slavi del sud, ad esempio attraverso la costruzione di una linea ferroviaria che attraversava completamente la Bosnia da nord a sud, 330 km di via ferrata costruiti in sole due settimane, migliaia di famiglie che poterono campare attraverso lavori come quello, inclusa quella di Darko, visto che la madre, ha lavorato proprio lì.

Oggi invece le cose paiono essere molto diverse con un tasso di disoccupazione che arriva al 50/60%, Darko dice che è anche colpa della mentalità, spiega che i bosniaci godono a lamentarsi, ma che quando gli dai un lavoro si tirano indietro e smettono dopo poco perchè sono pigri, lui non ama per niente questo modo di approcciarsi alla vita, ama il suo paese e ogni sua parola trasuda amore ed attaccamento a Sarajevo, ma non ha intenzione di morire per colpa dei giochi politici di qualcun altro, se dovesse scoppiare una nuova guerra se ne andrebbe per non tornare mai più. A parte i ragazzi della sua band, non ha molti rapporti con i coetanei bosniaci, preferisce incontrare gente proveniente da diverse parti del mondo, per fortuna il suo lavoro, o per meglio dire, uno dei suoi lavori, glielo permette, Darko è una guida turistica, ma anche una sorta di insegnante di fitness che, se ho capito bene, lavora coi bambini, ed è anche un batterista, certo non è uno che sta con le mani in mano ad attendere che il futuro gli piova dal cielo, non se lo può permettere.

"Il 98% delle persone in Bosnia fuma, il 2% ha smesso l'anno scorso", così si spiega l'importanza che durante l'assedio della città, il più lungo della storia moderna con i suoi quasi quattro anni, avevano le sigarette. "Con una Marlboro ad esempio potevi farti tagliare i capelli" Darko inizia la parte della visita al Tunnel, la vera salvezza di Sarajevo, che passava sotto l'aeroporto attraverso il quale riuscirono ad aggirare l'embargo internazionale rifornendosi di munizioni e cibo. È primo pomeriggio, abbiamo deciso di fare questo tour per poter parlare un po' con Darko, con noi Robert, un ragazzo americano di St. Louis,' Missouri. Robert lavora a Zagabria ed è venuto a Sarajevo da solo, vuole conoscere la città, è piuttosto tondo e non molto perparato storicamente, ignora gran parte dei fatti e delle cause, mi sembra un classico americano, si lamenta del fumo di sigaretta, ma quando ci fermiamo in una bar alla fortezza gialla, da cui si domina Sarajevo, si beve 4 bottigliette di bibita dolce. E chissà quanti hamburger per cena. L'apice delle sue domande a cazzo di cane lo raggiungiamo quando, guardando un telone con la faccia del Papa dentro lo stadio olimpico, Robert chiede come mai il Papa sia venuto a Sarajevo a parlare di calcio. Darko se la ride di gusto e ci racconta di quando un americano durante una visita gli si avvicina per dirgli, "Sì, ok l'assedio eccetera, ma mi sto annoiando, portami in spiaggia". "Ma hai idea di dove cazzo sei nel mondo?".

Ce la ridiamo un po' alla faccia di quei caproni a stelle e strisce che credono di avere in tasca il mondo e si spaventano quando canta un muezzin. Già, Robert ne ignorava completamente l'esistenza. Comunque era tenero, con le guanciotte da Winnie the pooh, ma tutto lì.

Le rose di Sarajevo non profumano e non appassiscono mai. Le rose di Sarajevo, non le conservi in un bicchier d'acqua, non le doni alla tua ragazza. Ma come quelle di qualsiasi altra città del mondo le trovi per la strada. Le rose di Sarajevo le trovi per terra, un po' ovunque, mentre cammini. Le rose di Sarajevo sono i buchi lasciati dalle bombe, sono stati riempiti di vernice rossa cosicchè sia impossibile non vederle. Cosicchè sia impossibile dimenticare.

Mentre camminiamo per il cimitero ebraico più grande d'Europa, Darko ci racconta che durante l'assedio piovevano in media circa 320 bombe al giorno, con un picco, il 22 luglio 1993, di 3777. Tutto in un solo fottutissimo giorno, bella la vita a Sarajevo città.

Guardiamo la città dal punto in cui i serbi sparavano con l'artiglieria pesante, siamo davvero vicinissimi al centro città possiamo tranquillamente distinguere il sesso delle persone che camminano per il vialone centrale, quello che non a caso è stato soprannominato il viale dei cecchini. Piuttosto sconvolto da questi racconti, Robert resta due passi dietro di noi, resta sull'asfalto, ha paura delle mine e non vuole venire avanti, Darko lo rassicura, ma ci sconsiglia vivamente di andare in montagna da soli attorno alla città e anche un po' per tutta la Bosnia, "Pazi mine!".

Quando si annoiavano, i soldati serbi sparavano ai cani randagi, ma solo quando non c'erano persone per la strada. Un ottimo bersaglio erano i bambini, ne hanno uccisi 1600 solo in questa città, perchè colpito un bambino sarebbe di certo arrivato un adulto in suo soccorso e allora sì che il tiro al bersaglio sarebbe stato fruttuoso. Darko ci racconta che durante l'assedio si poteva pagare per ricevere un fucile ed unirsi ai serbi: "Ci sparavano addosso prorio come in un cazzo di safari". Ci racconta la vicenda di una ragazza ucraina che giunse a Sarajevo appositamente per poter sparare sulla gente. Questa volta non ho le parole adatte per descrivervi i nostri pensieri, gli stati d'animo, preferisco riportarvi i racconti di questi giorni così come sono arrivati alle nostre orecchie, devastanti.

Il nostro giro in macchina per la città si conclude verso sera, ma non prima di incontrare un posto di blocco della polizia serba, già, perchè Sarajevo è divisa, oltre l'aeroporto, siamo in Republika Sprska, la stessa di cui vi ho già parlato nel post su Doboj, altra entità statuale. Ci fanno accostare, ma mentre Darko al volante si dispera, quelli ci fanno segno di passare e ci lasciano proseguire. Che gran botta di culo. Probabilmente ci avrebbero trovato qualcosa, qualcosa alla macchina magari e avrebbero chiesto di pagare, a quel punto, dopo che hai pagato loro, a costo di accompagnarti al bancomat, ti lasciano andare. Robert impietrito continua a chiedermi:"What's going on?" "What's going on?" "What's going on?"
"Shut up man!".

Poi mi son pentito, povero il mio Winnie the pooh.

La sera usciamo con Darko, a fare un po' di festa, come dice lui da vero piemontese, ah, non vi ho detto che era sabato ed era anche il suo giorno libero, ma Darko è così, intraprendenza allo stato puro ed un sacco di voglia di sbattersi.

Anche mentre la sera camminiamo attraverso la città con lui e la sua amica tedesca Megan, Darko non smette di parlarci di Sarajevo, e mentre arriviamo verso il locale, dove si terrà una festa anni '90, ci mostra palazzi, strade, ponti e chi più ne ha più ne metta.

Quando entriamo scopriamo di essere proprio in mezzo a centinaia di ragazzi bosniaci di tutte le etnie, solo un 5% di turisti come noi, Darko mi mostra il ragazzo che spilla le birre, super tatuato, è serbo. Si balla all'aperto tra due case, i segni dei proiettili sui muri, cicatrici indelebili di un passato troppo ingombrante per lasciare spazio al futuro, non possono far altro che arrendersi, per stasera sotto il cielo di Sarajevo sarà soltanto festa.

Tanta è la passione che lega Darko alla sua città e di conseguenza al suo lavoro, per noi incontrarlo è stato come vincere alla lotteria. Persone così rendono il mondo un posto migliore, ovunque si trovino, ma qui in Bosnia ancor di più, paiono essere l'unica via di salvezza per un intero paese.

Grazie.

14 giugno - "Aisha, where logic stops Bosnia begins"

Sarajevo - Emanuele Mei

SARAJEVO

Si chiamava Snello ed era un prosciutto. Un unico pezzo di prosciutto spesso, ancora da tagliare, venduto in buste opache che cercavano di sottrarlo alla caducità del tempo. Io ero piccolo, inesperto al mondo, non so dire come avessi fatto a tagliarne una fetta così spessa, era così gommoso che sembrava un chewingum. Il grasso bianco mi invadeva la bocca e non riuscivo a riconoscerne il gusto, forse perché era andato a male, ho potuto seguirne tutto il percorso giù per l'esofago fino alle porte dello stomaco che non lo ha rifiutato subito, ci è voluto un po'. Quella sensazione mi si è stampata così vivida nella testa, che benché io non riesca a ricordarne il contesto, non ho più mangiato il prosciutto cotto, quando ci provo, mi torna la sensazione di vomito. Al supermercato, lo chiedo sempre tagliato fine al costo di passare per schizzinoso, ma d'altra parte non è che si ha sempre l'occasione di potersi spiegare nella vita, spesso l'irrazionalità ha il sopravvento.

Aisha ha gli occhi belli da ventiseienne, un filo di matita a sottolinearlo e degli occhiali ancor più grandi, che se non fosse per la moda, penserei che le servano per ingrandire il mondo e comprenderne meglio ogni aspetto. Non ha problemi con il prosciutto, ma non può sentire i rumori forti. Quando alle feste vengono sparati i fuochi d'artificio o si avvicina il temporale le prende il panico. E non c'è nulla da fare se non cercare di ripararsi, magari nascondersi sotto le coperte come faceva da piccola quando i serbi sparavano sul suo palazzo.

Aisha è nata a Sarajevo e non si è mai mossa da lì.

I suoi genitori, all'epoca poco più che ventenni, hanno dovuto rimanere in città durante tutto l'assedio. Lei aveva solo 3 anni quando tutto è iniziato e da quel momento non è mai più riuscita a godersi un temporale, o quanto meno non riesce più a ricordare a sé stessa che dopo la luce viene il tuono.

E' da circa tre settimane che ci sentiamo via internet e ci ha dato un grandissimo aiuto, ci aveva trovato un appartamento, i mezzi giusti per giungere in città, l'ostello migliore ecc... Solo sembrava un po' perplessa quando declinavamo le proposte spiegandole che il viaggio non avrebbe dovuto avere nulla di programmato. Già che ci sono vorrei cogliere l'occasione per ingraziare Luca Pingitore, presidente di OTRA, associazione di viaggiatori indipendenti, per averci sostenuto ed aiutato in questo viaggio, ma soprattutto per averci passato il contatto di questa forza della natura che è Aisha.

La incontriamo di domenica pomeriggio, giusto il tempo di ricostruirci la faccia dopo un sabato sera a dir poco underground. Prima ancora delle presentazioni ci abbraccia fortissimo, così forte che sembra voglia far toccare i nostri cuori e trasmettere tutto così, senza usare le parole. Iniziamo subito a camminare in giro per la città, ci parla, col suo inglese perfetto, delle moschee, delle chiese, dei monumenti e dei quartieri più importanti della città, ma è solo quando ci fermiamo in un bar per mangiarci dei cevapcici che riusciamo a conoscerla veramente.

Ormai ha capito che non ci interessa sapere di quanti mattoni è fatta una chiesa o che sultano abbia mai pensato di venire a costruire una moschea a Sarajevo, quello che ci interessa è lei, la sua storia. Aisha studia legge all'università, ma non sa che lavoro finirà a fare nella vita perché in Bosnia se non hai agganci politici è difficile che tu possa sperare di diventare un giudice ad esempio.

Tempo fa lavorava gratuitamente per un'associazione per i diritti umani, ma poi non aveva tempo per i suoi studi ed ha dovuto mollare anche se le avevano approvato grandi progetti, peccato. Si lamenta dei suoi coetanei che si lamentano per poco o niente, lei preferisce una vita piena di cose da fare, è ultradinamica questa ragazza. Quando passiamo davanti alla sua facoltà ci mostra le statue che svettano sul frontone della struttura, quella al centro, che rappresenta la giustizia, è stata decapitata da un terremoto qualche anno addietro. "A Sarajevo anche la giustizia ha perso la testa", ride. Ride di gusto, forse con un filo di tristezza, non riesco a capire bene, ma se anche tristezza vi fosse, è tenuta a freno dalla fiducia di poter migliorare le cose, un giorno.

Vi ho già detto che conosce l'inglese benissimo ma non vi ho ancora menzionato la sua passione per lo svedese. "Non so perché ho scelto quella lingua, semplicemente è come quando senti di appartenere ad un certo posto nel mondo, è come una vocazione, ogni secondo speso a discuterla è un secondo buttato, molto meglio abbracciarla senza tante domande". Giusto il giorno prima ha accompagnato per la città come guida un gruppo di suoi amici svedesi, erano molto contenti, uno di loro ha detto che le spedirà un libro quando rientrerà al nord e lei non sta più nella pelle. Gioisce per le piccole cose Aisha e se le gode fino in fondo, finché si può. Ama stare con le persone, conoscere gente da ogni parte del mondo, a volte le ospita pure a casa sua, come quella volta che ha ospitato un ragazzo macedone che sarebbe arrivato in città per un master universitario. Non c'è stato nessun problema per ospitarlo, anche se lei era timorosa di cosa avrebbero pensato i suoi genitori, questi hanno accettato di buon grado, anche se lei è una ragazza e lui un ragazzo, anche se sono mussulmani. 

Già, Aisha è mussulmana come tutta la sua famiglia. "Non l'avresti mai detto eh?" Proprio no, i jeans, le All stars, il rossetto e i capelli scuri liberi di muoversi al vento senza alcun velo che pretenda di imbrigliarli, mi avevano portato fuori strada. E' credente, ma ritiene che il rapporto con dio debba essere personale e diretto, la forma serve solo a quelli che non hanno nervo. Tipo al formaggio molle. E' questo il bello di questa città, l'insegnarti a non credere alle apparenze, ma cercare sempre di andare più a fondo. Premo sull'acceleratore e chiedo se non nutra una sorta di sentimento di "vendetta" nei confronti di chi ha fatto del male anche alla sua gente e mi risponde di no, la vendetta non è una di quelle cose che le interessa non è utile, non permette di andare avanti. Per Aisha il mondo non è bianco o nero, è grigio, dice che l'unica distinzione che concepisce è quella tra persone buone e persone cattive, nessun'altra. E non è retorica, credo che sia il vero portato della storia recente alle nuove generazioni. Il criterio di divisione etnica, semplifica.

La discussione prosegue per ore, dal bar ci spostiamo in un altro posto che è come una pasticceria bosniaca con i tavolini interni, un posto che da soli non avremmo saputo scovare nel dedalo di viuzze della Bascarsija, lei continua a raccontare e noi ci perdiamo dentro quelle storie. Mille storie così intense e personali che non è il caso di riportarle qui. Ci fa assaggiare tre dolci tipici uno più buono dell'altro, segniamo le ricette e mi insegna a preparare il caffè alla bosniaca, un vero rito. Visto che le vietiamo di pagare per noi, ci porta in un negozietto minuscolo e ci dice di scegliere un souvenir a testa, ce lo avrebbe regalato lei. E' una sua tradizione e assolutamente non possiamo romperla, non ne vuole sapere.

I discorsi proseguono fittissimi anche quando la sera ci fermiamo a bere una birra, anzi a dire il vero, visti i postumi del sabato, noi beviamo una Redbull, l'unico alcolico è il suo, sidro di mela. Parliamo della guerra le chiedo se le piace Alija Izetbegovic, presidente della Bosnia Erzegovina dal 1990 al 1996. Qui in Italia mi era arrivato come il leader difensore dei mussulmani di Bosnia, ma già Darko sottovoce, perchè eravamo in mezzo a mussulmani, mi aveva detto che secondo lui era uno stronzo, uno che mentre Sarajevo veniva assediata si sedeva attorno ad un tavolo con i serbi. Anche Aisha non lo ama, mi racconta che ora il figlio è in politica e si presenta come il difensore della città quando invece tutti sapevano che se ne stava al sicuro ad Istanbul mentre a Sarajevo si moriva per le strade. Del padre Izetbegovic, mi dice che secondo lei era un falso che si mostrava sofferente in pubblico per la situazione ma poi aveva poco polso per prendere le decisioni urgenti e necessarie, in mezzo alla piazza mi dice "fuck off, we don't need a pussy, we need a president!". Rido ancora adesso ripensando alla scena. Ci troviamo d'accordo sulla figura di Iovan Divijac, brigadiere generale dell'esercito, nasce nel 1937 da genitori serbi. Nonostante la propria origine etnica si schierò durante l'assedio a favore dei bosniaci, partecipando attivamente alla difesa della città assediata. Oggi Divijac, che non ha mai lasciato Sarajevo, città in cui vive tutt'ora, è a capo dell'organizzazione "Obrazovanje Gradi BiH", (L'istruzione conosce la Bosnia) che si occupa degli orfani di guerra e degli aiuti alle zone rurali del paese per promuovere l'istruzione delle classi più disagiate. Una vera icona positiva in quel mare di merda. Ha ragione lei, bisogna distinguere tra persone brave e persone cattive. Pensare di tornare a casa e trovarmi tutto il teatrino politico italiano, Salvini in testa, mi abbatte un po', ma dall'altra parte dell'Adriatico riesco a disintossicarmi dalla politica nostrana, complice un wi-fi salterino.

Emanuele chiede: "Ne hai foto di te durante la guerra?" risposta: "Eravamo senza cibo acqua ed elettricità, secondo te avevamo tempo e modo di farci le foto?" resta seria per qualche secondo, poi scoppia a ridere, "Dai, ho capito cosa volevi dire...no, non ne ho". E' così Aisha, sferzante e decisa da non farsi certo mettere i piedi in testa, ma anche con un fine senso dell'autoironia, come quando le chiediamo quale futuro vede per il suo paese "Io la ricetta per salvare la Bosnia ce l'ho, dichiariamo guerra alla Germania, quando arrivano con l'esercito ci arrendiamo e lasciamo che ci annettano, così diventiamo Germania! Siamo proprio un paese Fucked Up". Mentre siamo al tavolo passa una ragazza rom che gira tra i tavoli vendendo delle biro, la allontaniamo, ma poi ci ripenso e dico ad Aisha che mi sarebbe piaciuto avere una biro di Sarajevo per scrivere di questo viaggio. Mi prende in giro perché dice che tanto sono costruite in Cina, ma poi fruga nella borsa e alla fine me ne regala una delle sue "Now you've got your pen!".

Le dico che deve essere lei la prima ad usarla, le porgo la mia agenda gialla e in men che non si dica riempie una pagina:

"To my great italian friends with love from Sarajevo!
Wish you all the best and a lot of success!
The world is fucked up place, but we make it a better place with our stories!
You are the special one!

Per sdebitarci di tutto il tempo dedicatoci le regaliamo una rosa, probabilmente presa dalla stessa ragazza delle biro, è felice, molto felice, "i miti si confermano, italiani passionali!" dice.

E' tardi, dobbiamo ancora finire il lavoro di oggi, mentre attendiamo che arrivi il suo taxi ripenso alle mille cose che ancora avrei voluto chiederle, cosciente che queste parole, che pure vogliono essere un ringraziamento, non riusciranno davvero ad esprimere la nostra gratitudine.

Il taxi arriva, lei ci abbraccia ancora più forte di prima e scompare nella notte di Sarajevo.

15 giugno - "Le bandiere"

Sarajevo - Emanuele Mei

SARAJEVO

Non ho un buon rapporto con le bandiere, credo sia a causa del loro potere di sintesi. Interi mondi, stili di vita, secoli di storia dentro dei semplici pezzi di stoffa, mi è sempre sembrato troppo poco, voglio dire, non dobbiamo aver per forza bisogno della semplificazione, di un simbolo. Le bandiere possono compattare le genti racchiudendo le speranze di un intero popolo, possono marcare una proprietà o segnalare un pericolo, farci riconoscere un nemico, possono farci credere di lavarci la coscienza mentre la scritta pace sventola coi colori dell'arcobaleno dai nostri balconi tra le polveri sottili, ma non possono esistere senza un'altra bandiera che le fronteggi.

Esistono proprio in virtù dell'opposizione a qualcosa d'altro che, di solito, finisce per avere un'altra bandiera. Le bandiere fingono di unire, ma in realtà dividono, sono un'occasione persa.

La Bosnia è piena di bandiere, ma quella che ci ha dato più problemi ha 50 stelle e 13 strisce. E' proprio mentre cerchiamo di fotografarla che da lontano qualcuno mi chiama. E' un militare bosniaco che con la mano mi fa cenno di andare verso di lui, intanto mi viene incontro lento, divisa scura, stemma della Bih sulla spalla, giubbotto anti proiettili, anfibi e un fucile da caccia all'alce. Siamo davanti all'ambasciata statunitense di Sarajevo, un monolite grigio lungo il viale dei cecchini. Chiamo Emanuele e ci avviamo verso quell'uomo come dovessimo andare al patibolo, ci dice qualcosa di incomprensibile e ci porta da un collega davanti all'ingresso, ma nemmeno lui conosce mezza parola di inglese, ci tengono lì qualche secondo ed esce un funzionario dell'ambasciata pieno di stemmini made in USA. Non potevamo fotografare l'ambasciata ovviamente, ma a noi interessava la bandiera soltanto. "No photo, please delete!". Io mollo subito il colpo, prima che mi sequestrino il telefono, Emanuele è più combattivo, gli spiega che vuole fotografare soltanto la bandiera con il cielo sullo sfondo, nessuna foto dell'ambasciata, gliele mostra una per una. "Please delete!". Manu continua a chiedere "why? why?" e poi "Checcazzo ma devo tornare in Italia per fare una foto alla bandiera statunitense?" Loro insistono e non ci lasciano andare finché non eliminiamo tutte le foto dai telefoni. "Look, elimina, it means delete, it's ok now?".

Credo che oltre a sapere di avere un po' il culo sporco, siano diventati paranoici da quando nell'ottobre del 2011 un ventitreenne originario di Novi Pazar in Serbia, si è presentato davanti a quell'ambasciata con un Kalashnikov aprendo il fuoco sull'edificio e ferendo alcune guardie di sicurezza come quelle che avevamo appena incontrato. Un pessimo dejavù per i sarajevesi, proprio sul viale dei cecchini. Il ragazzo è poi risultato essere appartenente ad una comunità wahabita, che segue una corrente "ultraconservatrice" dell'Islam che si è sviluppata storicamente nella penisola arabica. Per intenderci, è la linea di pensiero dalla quale sono usciti Osama Bin Laden e i Taleban afghani, studiosi del Talib. I wahabiti in Bosnia sono i discendenti dei soldati islamici (Mujaheddin) che negli anni novanta sono giunti da paesi come Arabia saudita, Afghanistan, Pakistan e Cecenia in sostegno dei bosniaci mussulmani impreparati alla guerra.

Ricordo che Darko, di cui vi ho già parlato, mi ha spiegava che i mussulmani di Bosnia si sono talmente spaventati durante le ultime guerre che anche a Sarajevo quasi tutti quelli che hanno la casa con il giardino, fanno costruire delle stanze segrete in cui conservano le armi. E pensare che le Nazioni unite portano avanti da tempo campagne per la riconsegna delle armi in questa regione.

I wahabiti rimasti, che seguono questa corrente diversa dalla tradizione islamica bosniaca, sono oggi stanziati in vere e proprie enclavi sparse per tutta la Bosnia, paesini in cui vivono seguendo la Sharia, ci sarebbe piaciuto visitarne qualcuno, ma ci hanno detto che ci sono controlli all'ingresso dei paesi e non ci avrebbero lasciato entrare quasi certamente.

Ma torniamo a noi con i cellulari in mano fuori dall'ambasciata, cancelliamo, salutiamo i padroni del mondo e proseguiamo la nostra camminata. E' l'ultimo giorno intero a Sarajevo, mi sono svegliato alle 7 per scrivervi l'ultimo report e quando erano quasi le 11 abbiamo deciso di andare a piedi da un capo all'altro della città, dalla Barscarsija fino a Dobrinja, appena prima dell'aeroporto, dovremmo metterci una, forse due ore.

In periferia, tornano a farci compagnia i palazzoni sovieticheggianti, austeri, alti e grossi, finestre in fila e pochi fiori sui balconi, anzi, proprio pochi balconi. Da un certo punto di vista fanno ridere perché mentre cercano di incuterci timore guardandoci dall'altro, ai nostri occhi appaiono come degli arlecchini colorati, visto che ogni buco o crollo parziale è stato rattoppato con mattoni, ora grigi, ora ocra.

Ci fermiamo al museo di storia, come Aisha ci aveva consigliato, la rivedremo stasera e non possiamo dirle che non ci siamo stati. Goran, ci si avvicina furtivo nei corridoi del museo e quando capisce che siamo italiani, dopo averci fatto vedere le foto di Genova e di Milano, ci propone un affare. Goran non è una guida, diciamo così, ufficiale, è una guida fai da te, che cerca di arruolare turisti proprio sulle scale del museo, per 25 euro ti fa fare un tour della città e racconta tutta la sua esperienza durante la guerra, dice che gode di molta fiducia parte degli italiani, di cercare su internet, dice che è il migliore: "Quando vedo ragazzo parlare di guerra, io dico fanculo vai a casa che tu non c'eri, io posso raccontare quello che ho visto, perché ho combattuto".

Che tipo.

A parte qualche p che diventa b, come per i nord africani, parla un ottimo italiano ed è contento perché cinque giorni prima del nostro arrivo è riuscito a fotografare il Papa proprio mentre passava lì, davanti al museo. Gli chiedo se è cattolico e si indurisce un attimo: "Questa domanda non serve, non ci serve di divisione, sola divisione è persone brave persone cattive". Ancora una volta quella divisione del grigio che ci spinge ad andare nel particolare rifiutando le semplificazioni. "Comunque sono mussulmano".

Il discorso prosegue, ci parla del figlio che vive in Italia e di quanto anche lui ami il nostro paese tanto da tenere i suoi documenti scaduti da bolzanino in macchina per ricordo. Ci lascia il numero e diciamo che lo chiameremo domani, ma non chiameremo, già lo sappiamo, in lui c'è qualcosa che non ci convince fino in fondo, pare che si venda troppo e noi non abbiamo mai pagato nessuno dei nostri incontri, Goran sembrava più, in un certo senso, un uomo d'affari, il rischio era quello che ci avrebbe raccontato un po' quello che i turisti vogliono sentirsi dire, magari calcando la mano su alcune vicende o avvenimenti. Quindi, come da dichiarazione iniziale, prendiamo le decisioni di pancia. Lo salutiamo e lo lasciamo dentro al museo a lavorare per l'ultimo anno, poi basta, dice che se ne andrà in Australia.

Quando la sera rientriamo verso casa, troviamo sul web numerose recensioni entusiaste riguardo Goran e il suo tour, ma la pancia è pancia, anche nella cattiva sorte.

Rivediamo Aisha e si parla sciolti fin da subito questa volta, il ghiaccio rotto ieri, ormai si è sciolto del tutto, formando un torrente di parole che non vede l'ora d'arrivare al mare. Ci porta in un pub, davanti ad una birra per parlare meglio. Mentre camminavamo nel pomeriggio ho visto il Mc Donalds del centro che mi ha turbato un po'. Subito mi sono rattristato per una colonizzazione capitalista che stava completamente abbattendo la possibilità di un'alternativa, poi però mi sono arreso, un Mc Donalds nel centro è un simbolo riconosciuto, tranquillità, riconduce al noto ed annulla la distanza tra Milano Sarajevo e Sant Louis, penso che forse qualche risvolto positivo, per la Bosnia può anche esserci. Il Mc Donalds è una bandiera. Una bandiera di globalizzazione piuttosto becera e selvaggia, ma mi chiedo se qui non sia forse un bene, o quanto meno "qualcosa più di niente", ne parlo con lei ma non giungiamo ad una conclusione. Per loro mangiare al Mc Donalds è come mangiare in un ristorante di medio/alto livello e non si riferisce alla qualità del cibo ovviamente, ma al costo. Lo stipendio medio a Sarajevo può oscillare tra i 150 e i 300 euro al mese, i menù della catena hanno i prezzi praticamente uguali a quelli italiani. Gettiamo le basi per i lavori futuri e decidiamo che dovremo scrivere qualcosa assieme un giorno, magari uno di quei romanzi rosa che tengono le signore di mezz'età al cesso quando la stitichezza le colpisce, cioè sempre. Vedremo.

Un paio d'ore di parole dopo la dobbiamo salutare, sono le 21 ormai, Darko ci aspetta poco più in giù, al ponte latino.

Ci mangiamo un kebab in tutta fretta e lo digeriamo saltando su e giù da un paio di autobus senza biglietto per arrivare al caffè Tito, un locale divertente con cimeli bellici della seconda guerra mondiale disseminati un po' ovunque. Siamo nel covo del Maresciallo, come dice lui. Giusto il tempo di berci una birretta veloce salutando un paio di amici conosciuti sabato sera e ci spostiamo dall'altra parte del fiume altro locale, altra gente, stessa città.

Il Kino Bosna, era un teatro ai tempi di Tito più in là negli anni diventò anche un cinema. Oggi è un gigantesco salone pieno di gente che beve, balla e canta. I musicisti che si aggirano tra la gente con gli strumenti in mano, ma mi sono già dimenticato il nome della musica tipica, avrei dovuto portarmi l'agenda. Incontriamo il nostro amico giapponese, un quarant'enne che dormiva accanto a noi nel primo ostello, è piuttosto alticcio, ci abbraccia, mi fa rovesciare la mia rakia per terra e tenta di offrirci da bere, ma siamo a posto, grazie mister kim.

E' pieno di giovani il Kino Bosna, ma non solo, ci sono individui di tutti i tipi, incontriamo Antonella, un'italiana che lavora a Sarajevo per un'ong a tutela della minoranza rom, provo a parlarci un po', ma non attacca, non ha voglia di parlare, ho la sensazione di averle rovinato l'isola felice che si era creata al di là dell'Adriatico senza italiani fra le palle, desisto e se ne va. Subito dopo incontriamo Claudio un bolognese che dopo l'erasmus ha deciso di trasferirsi. Nel frattempo Darko saluta alcune amiche che non vedeva da un bel po' di tempo, ma non stanno tanto bene, scavate e magre, dice che probabilmente hanno deciso di drogarsi a tempo pieno e la droga in Bosnia di certo non manca.

Sul più bello arriva la polizia, tre armadi in giubbotto anti proiettili che entrano facendo abbassare il tono di voce a tutto il locale, molti, vedendoli arrivare se ne vanno. Noi ci spostiamo all'esterno del locale e continuiamo a parlare un po'. Darko ci rincuora: "Vedete, in tutto il locale ci saranno una trentina di pistole e uno su due ha in tasca un coltello, comunque bisogna stare attenti". Poi ci mostra un individuo in camicia hawajana, tatuaggi fai da te, occhiali da sole e grosse cicatrici in testa, da tipi come quello è meglio stare alla larga, sono quelli che hanno fatto la guerra e adesso sono schizzati, tempo addietro ce n'era in giro uno che aveva la pistola facile e se non stavi attento rischiavi di prenderti una pallottola per la minima cazzata, perché il problema qui non è il fatto che abbiano le pistole, è che non abbiano paura ad usarle.

Nonostante tutto, la serata al Kino Bosna prosegue tranquilla e felice, anche se purtroppo siamo noi che verso l'una la dobbiamo abbandonare, l'indomani abbiamo un pullman che partirà per un viaggio della speranza verso la Serbia attraverso la Bosnia interna, ci attendono altri paesi, altre frontiere, e, of course, tante, tante bandiere.

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(Vi lascio con un piccolo componimento, che chiamar poesia è roba da matti, che avevo scritto qualche tempo fa ma calza davvero a fagiolo per questo report e questo viaggio in generale. Un tempo è anche stata una canzone, se ora non la facciamo più, ci sarà un perché. Ciao amici, come sempre "si naviga a vista").

BANDIERE

Ho ritirato le bandiere
dai balconi anneriti,
ho abbattuto le ringhiere
che ci separavano dalla strada,
Ma intanto tu aspetti me.

Vivo in una torre
con le mie cravatte sporche
che prima o poi mi impiccheranno,
le nostre battaglie sono
soltanto dei semi che

E intanto tu aspetti me.

16 giugno - "Viaggio in Republika Srpska"

Sarajevo - Emanuele Mei

SARAJEVO EST - BELGRADO

Il sole è già alto su Sarajevo mentre la vediamo passare per l'ultima volta da dietro i finestrini del taxi rosso che sfreccia per via Tito. E' quasi mezzogiorno e il taxista ha poca voglia di parlare, avrà fatto il turno di notte, si stropiccia gli occhi, qualche sbadiglio, due domande in croce e poi silenzio. Meglio così, nemmeno noi abbiamo voglia di far andare la lingua oggi, stiamo lasciando la Bosnia e il distacco inizia già a pesare dentro. 

Ci siamo svegliati presto per fare un giro a piedi nel centro, bere un caffè dai turchi e fingere che sia solo un altro giorno normale finché non abbiamo dovuto rientrare a fare i bagagli in tutta fretta. E' l'ultima occasione per imprimersi la città nella testa, per impressionare la pellicola del cervello con la luce del mattino. Credo che l'anima di una città stia anche nella sua stessa aria, profumi e odori certo, ma soprattutto l'aria che è l'insieme di tutto questo. Respiro fino a sentir male alla gabbia toracica, ma la gonfio il più possibile fino a sentire i bronchi bruciare. Chissà se riusciremo a portarcene via un pochino, qualcosa rimarrà attaccato spero, o dobbiamo fumarci un pacchetto di sigarette intero per farci lasciare qualcosa nei polmoni?

"Sorry sorry, one moment!". Dalle parti dell'aeroporto il taxista accosta veloce su un marciapiede apre la sua portiera e scende dalla macchina. Per un attimo penso che se andrà, ci lascerà lì al nostro destino ad aspettare i lupi. E invece no, corre dall'altro lato della macchina, si sporge verso il tetto, stacca l'insegna TAXI, apre la portiera di Manu e gliela butta addosso farfugliando qualcosa, risale e si riparte.

Secondo Wikipedia un confine è una curva immateriale, una frontiera della superficie, una sorta di stop, un solco che divide i mondi e separa le diversità. Va da sè che spesso si costruiscano dei muri lungo questo confine, come nei West Bank in Palestina, sull'Evros o nelle enclavi spagnole in Marocco, a volte i confini vengono abbattuti in maniera violenta, altre volte resistono ai secoli, molto spesso sono naturali, lungo i fiumi, i mari, sulle grandi catene montuose, o nei deserti.

Quello che tanto preoccupa il nostro taxista però, è un confine invisibile, nessun segno nel terreno, nessun fiume, nessun muro, né torrette d'avvistamento, semplicemente oltre l'aeroporto stiamo entrando a Istocno Sarajevo.

Sarajevo est è una vera e propria città situata nella parte orientale della capitale in cui vivono praticamente soltanto serbi di Bosnia. Nel 1995, gli accordi di Dayton sancirono il dominio della Republika Sprska su questa parte di Sarajevo, infatti i confini della nuova entità entrano a prendersi una parte della capitale che per il resto è ovviamente appartenente alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina. Sembra complesso da capire, ma è molto semplice in verità, basta aprire google maps e tutto vi sarà tutto chiaro in un batter d'occhio.

E' proprio da lì, dalla stazione dei bus nel quartiere di Lukavica, che prenderemo il nostro pullman per Belgrado. La situazione è piuttosto surreale, abbiamo gli occhi di tutti addosso, credo a causa dei tatuaggi di Manu o degli zaini o dei vestiti, non so bene. La prima impressioni non è un granchè, facce scure, pochi sorrisi, aria di diffidenza e poca propensione ad aiutarci o a cercare di parlare inglese ad esempio. Il quartiere è tutto nuovo sia le chiese che le abitazioni hanno l'intonaco fresco, pochissimi gli edifici così vecchi da conservare i segni della guerra. Lucavica, altrimenti detta anche "Novo Sarajevo" sembra un quartiere di un'altra città, sospeso, in attesa. I suoi abitanti sembrano attendere l'indipendenza della loro Republika o l'annessione alla Serbia o peggio ancora magari attendono di riprendersi l'intera città.

Abbiamo un'ora da impegnare in qualche modo prima che parta il bus e dopo aver fatto due passi in giro ci sediamo fuori da un bar della stazione.

Tappezzeria marciotta, lisa, tavolini, sedie e ombrelloni rigorosamente Coca Cola, la canale scarica direttamente sulla moquette tra i tavolini, ma non piove per fortuna. Dentro, un gruppo di anziani che gioca a carte in un salone spoglio senza quadri alle pareti né televisione, solo un lampadario con un cimitero di moschini nella plafoniera. Quando entriamo si bloccano come antilopi che fiutano odor di leone a pochi passi.

Abbiamo sempre cercato di fare del nostro meglio per mantenere separate le monete dei tre stati, ma siamo al decimo giorno di viaggio e nelle tasche degli zaini abbiamo ormai un album da collezione. Così Emanuele va al bancone e si sbaglia, estrae dei dinari serbi.

Ora, probabilmente anche se fossimo stati al centro della Sarajevo "bosniaca" non ci sarebbero stati problemi, avrebbero capito che siamo turisti e sarebbe finita lì, ma siamo nella parte serba della città. Appena vede i dinari il barista s'illumina e ci fa un sorriso con tutti i denti che gli sono rimasti, per la prima volta riusciamo a pagare qualcosa in dinari anche dentro la Bosnia. Tra l'altro mi preme segnalare che quello resterà l'ultimo sorriso bosniaco che avremo l'onore di raccogliere. Da lì in poi solo facce serie.

Il nostro viaggio coprirà una distanza di circa 280 km interamente attraverso la Republika Sprska e poi ancora, oltre il confine, nella vera Serbia. Si parte, salutiamo Sarajevo dall'alto dondolandoci tra l'abbandono al phatos di un addio e la timida consolazione di un arrivederci.

Lei ci guarda, forse, ma non fa nulla per trattenerci.

Dopo quaranta minuti giungiamo in un altopiano a 800 m sul livello del mare, nel centro c'è Pale, un'importante stazione sciistica che in passato era stata anche la capitale della Republika Sprska prima di essere sostituita da Banja Luka. Il viaggio prosegue salendo tra le montagne. La strada è stretta ad una corsi per senso di marcia, certo non la strada che t'immagini di fare in un viaggio tra due capitali così importanti. Attraversiamo larghe vallate che per me hanno il sapore di casa, rilassanti agli occhi, ben coltivate, ordinate, verdissimi pascoli e bianche mucche come tosaerba. Il nostro primo autista non ha paura di nulla, viene insultato da quasi tutto il pullman quando cerca di superare un camion con rimorchio per trasporto legname appena prima di una curva a strapiombo su una gola talmente stretta che se anche avessi avuto il coraggio di guardare in basso, quasi non sarei riuscito a vederne la fine. Scampata anche questa.

Saliamo fino ai 1080 metri d'altitudine per raggiungere il paesino di Han Pijesac, quasi 4000 anime dedite principalmente all'agricoltura ed al piccolo commercio, per poi riscendere nela regione di Vlasenica. Pochi chilometri più a est di noi, vediamo segnalata nei cartelli stradali, la città di Srebrenica che suo malgrado è diventata il simbolo delle guerre Yugoslave poiché proprio qui nel luglio del 1995 si è compiuto il più grande genocidio dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Erano le fasi finali della guerra, Milosevic voleva ripulire etnicamente quei territori proprio in vista della pace e della creazione della Repubblica Sprska nella quale riunire tutti i territori di Bosnia abitati dai serbi. Ma ancora una volta la situazione non era bianca o nera, ma di quel grigio che porta tempesta. Srebrenica, con la sua quasi totale presenza mussulmana (75%) era un problema proprio per la sua posizione così vicina alla Serbia.

L'11 luglio 1995 le truppe serbo-bosniache del generale Mladic riuscirono a conquistare il paese, giustiziando quasi 10000 civili in pochi giorni, tutti uomini che venivano separati dalle donne ed i bambini con la scusa di procedere all'evacuazione, una volta giustiziati vennero sepolti in enormi fosse comuni.

Il viaggio prosegue fino a Zvornic, grossa città di confine, è tempo di salutare la Bosnia, con la tristezza nel cuore ci avviamo ad attraversare il fiume Drina per rientrare in Serbia. Le operazioni di controllo occupano quasi due ore, i militari salgono sul bus prendono i passaporti e se li portano via, poi tornano e si prendono il vecchietto seduto proprio davanti a me. Non saprò mai perché l'abbiano portato in caserma, comunque sia il pullman resta ad aspettarlo per circa una mezz'oretta, finché non lo si vedrà riemergere dagli uffici e tornare al suo posto. Possiamo ripartire, facciamo il ponte di ferro e metallo e siamo sull'altra riva alla dogana serba, la scena si ripete.

Il sole abbassa la testa verso i campi di grano mentre i nostri autisti si lanciano nella pianura serba, sono finite le montagne, l'orizzonte è tornato al suo posto, bello lontano e arioso. Attraversiamo le grandi città di Lonica e Sabac, ma ne possiamo vedere soltanto le stazioni dei bus, che in genere sono sempre piuttosto trasandate, poco curate, come forse è anche giusto che sia. I nostri autisti hanno già accumulato un'ora di ritardo sulla tabella di marcia ed ora hanno fretta, ma per fortuna ormai la strada è dritta, rischiamo poco.

Il nonnetto davanti dorme un poco e tiene tirata la tenda, penso che conosca questa tratta ormai a memoria e non abbia nessuna voglia di guardarsi il paesaggio ancora una volta. Io invece per tutte le 8 ore e mezza di viaggio ho sempre tenuto gli occhi fuori dal finestrino resistendo sia al sole che al sonno quando cercavano di chiudermeli.

La Serbia sembra davvero una tavola piatta, una rampa di lancio in cui prendere la rincorsa per atterrare in Russia saltando la Romania e l'Ucraina, mentre mi diletto con questi futili pensieri sale un altro nonnetto, che mi piace pensare serbo, si siede di fianco all'altro ed attaccano a parlare fittissimo. Non smetteranno più fino a Belgrado. Un discorso unico, un fiume di parole interrotto soltanto da qualche risata timida e qualche ruga di perplessità sulla fronte. Non li posso vedere bene da dietro, ma intuisco i solchi tondi sulle guance che fa il sorriso appena prima di venire.

Torniamo a Belgrado con qualcosa di pesante nel petto, rotto, non già in mille pezzi, ma sul punto di distruggersi. Un vetro infrangibile crepato dentro che fa di tutto per rimanere al suo posto.
Per qualche tempo ancora ci riuscirà, raccogliere i cocci spetterà al futuro.

Raccogliere i cocci spetta sempre al futuro.

17 giugno - "Decompressione"

Drina - Emanuele Mei

BELGRADO - MILANO

Come sub che risalgono in superficie dal blu che tende al nero, sentiamo di aver bisogno di fare la nostra decompressione. E non è importante intendersi di chimica, sangue, gas inerti, legge di Henry o di Dalton, lo senti che non ce la puoi fare a reinserirti così, di colpo.

Non molto tempo fa, dopo lo spaesamento del primo viaggio alle porte del Medio Oriente, avevo teorizzato l'esistenza del RAD. Ero stato ad Istanbul per la prima volta e dopo due ore di viaggio mi ero trovato un orizzonte così diverso dal mio, da concludere che gli aerei avrebbero dovuto essere abbattuti tutti senza pietà alcuna.

"Il RAD (lo chiamerò così dalla parola "radice") ce lo si trova dentro, non fuori, misura la capacità di sentirci a casa in ogni luogo fisico o mentale. Fondamentale per non perdere le proprie coordinate genetico-spirituali, il RAD vince sulla natura materiale delle cose comprimendo o dilatando tutte le distanze del mondo fisico. Che, tra l'altro, può risultare piuttosto piccolo" - scrivevo.

Dunque gli aerei fanno male.

Fanno male come un sacco di altre cose con le quali, comunque, non riusciamo a smettere. Da questa consapevolezza è nato questo viaggio, una gran voglia di mettere il naso, gli occhi e i sensi tutti dentro questi Balcani, così vicini, così lontani. Riordinare le coordinate interiori piantando i piedi nel luogo in cui i nodi vengono al pettine, il posto che gli aerei mi avevano sempre negato di respirare, di capire, quello in cui il mio orizzonte si sarebbe scontrato con quello di Istanbul e quelli di chissà quali altri mondi.

I Balcani ci hanno attraversato con più potenza di quella con cui noi abbiamo attraversato loro, lasciandoci lì su un aereo per Milano a guardare le nuvole serbe dal finestrino pensando cosa risponderemo a chi ci chiederà come sia andata, coscienti che le parole non basteranno mai a descrivere tutta quella fluida intensità del reale, anzi la banalizzeranno e ce ne ruberanno dei preziosissimi pezzetti ogni volta che ne parleremo.

Tutti gli incontri, le facce, le storie e le vite incontrate le tieni lì, ce le hai addosso e lo senti che non sei leggero come quando sei partito. Le vicende di Duvan, Dusko, Boris, Leila34, Darko, Aisha, Dragana, Goran e tutti gli altri sembrano già cristallizzate nella memoria, con i loro sguardi, le tensioni, le risate, i piccoli tic, le cose non dette, quelle che avremmo voluto chiedere e non abbiamo osato, quelle che mi hanno chiesto di non scrivere e quelle che non ho scritto perché volevamo tenerle per noi. Abbiamo davvero fatto un viaggio a bilanci emotivi aperti cercando di farci attraversare, ma abbiamo finito per assorbire tutto come spugne e adesso dobbiamo improvvisarci una rete di sicurezza che non abbiamo.

Mentre iniziamo a rivedere i campi attorno a Malpensa penso a quello che secondo me è stato il momento più intenso di tutta questa avventura, il diluvio di Doboj. Persi in un piccolo centro della Bosnia interna, nella Republika Sprska, ad assistere al passaggio di un gigantesco ed improvviso temporale serale. Doversi riparare nell'androne delle scale di una casa con due donne infreddolite. Cercare di capirsi e desistere, parlare con il corpo. Aspettare, nonostante fosse tardi, aspettare, nonostante non avessimo un posto in cui dormire. Aspettare che si compisse il diluvio, riconoscersi dei limiti, sentirsi piccoli e onorati di assistervi. Lasciar cadere tutto il resto e vivere l'attimo in tutta la sua potenza. Riuscire ad universalizzarlo fino al punto da credere di aver intuito che possa anche esserci altro oltre a noi, e che quello che hai davanti potrebbe esserne un manifesto.

Sembrerà strano, ma quella "resa assoluta", a me è parsa essere la cosa più vicina alla libertà.

Grazie ad Emanuele, preziosissimo compagno di viaggio che ha moltiplicato tanto e sottratto niente.

In ultima battuta vorrei dire grazie anche a tutti voi per aver letto questi report e per averci, in pratica, accompagnato in questo viaggio.

Grazie a chi ha seguito tutto, a chi mi ha incoraggiato a portarli fino in fondo, a chi si è stufato dopo poche righe, a tutti per aver sopportato gli errori di ortografia, avevo un tablet di merda che mi complicava la vita e sempre pochissimo tempo, a breve correggerò tutto.

Penso che alla fine sia servito più a me che a voi, mettere tutto nero su bianco mi ha permesso di buttare fuori, oggettivare subito e non tenere dentro, sono stato costretto a rielaborare tutto abbastanza al volo, durante la notte o negli spostamenti, preferibilmente da solo senza altri attorno.
Credo che senza questa valvola di sfogo sarei esploso come una pentola a pressione in balia del RAD e della grafomania virulenta. Adesso gradualmente vado a fare la mia decompressione al contrario di un sub, verso la cima, con le vacche al posto delle meduse. E lassù in qualche maniera ritrovo i miei Balcani.

Spero che in qualche modo tutto questo sia servito a qualcosa, a me e a voi.

Per me, l'utilità è l'unica cosa che fa la differenza.

Adiòs amici.


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