Il Pride a Sarajevo, foto di Alfredo Sasso

Il Pride a Sarajevo, foto di Alfredo Sasso

È ovvio che un Gay Pride non può risolvere tutti i problemi che affliggono Sarajevo e l’intera Bosnia Erzegovina. Ma i suoi cittadini ne avevano bisogno. Ed era il momento giusto, il momento di andare avanti

18/09/2019 -  Ahmed Burić

Nell’immortale film partigiano “Valter brani Sarajevo” [Valter difende Sarajevo, film ispirato alle vicende di Vladimir Perić, soprannominato Valter, leader della resistenza di Sarajevo durante la Seconda guerra mondiale] del 1972, uno dei più grandi omaggi cinematografici alla città di Sarajevo, vi è una scena – la mia preferita – in cui i cittadini di Sarajevo, radunati nella Baščaršija, aspettano di prendere i corpi dei loro familiari e amici uccisi dai tedeschi. Dopo aver scoperto che i partigiani impegnati nella lotta clandestina a Sarajevo stavano preparando un’azione di sabotaggio, i tedeschi sono però lì sul posto con camion carichi di mitragliatrici nascoste sotto dei teloni. Appena i partigiani iniziano l’operazione vengono falcidiati a raffiche di mitra. La mattina del giorno successivo, i tedeschi circondano con una rete di filo spinato la piazza dov’è avvenuta la strage, e il comandante delle truppe tedesche con il megafono invita i cittadini a venire a identificare i morti.

I partigiani sopravvissuti alla strage, guidati da Valter, hanno però avvertito i sarajevesi di non avvicinarsi ai soldati tedeschi che, armati di fucili, stavano accanto ai cadaveri, perché avrebbero sparato contro di loro. Per i tedeschi era l’occasione perfetta per pareggiare i conti con la resistenza di Sarajevo, ma a quel punto accade qualcosa di inaspettato: l’orologiaio Sead Kapetanović si dirige verso i soldati tedeschi con i fucili puntati, poi alcuni cittadini decidono di seguirlo e infine l’intera folla composta da alcune centinaia di persone si muove ed entra nella zona recintata in cui si trovavano i cadaveri. A quel punto il comandante tedesco Von Dietrich appoggia la mano sulla canna del fucile, ordinando ai suoi uomini di non sparare, per evitare ulteriori perdite di vite umane – perché è impossibile uccidere un intero popolo – e i sarajevesi riescono a recuperare i corpi dei loro familiari e amici uccisi.

Le fonti storiche descrivono questo episodio, accaduto nel 1944, in maniera diversa, senza citare alcuna scena analoga a quella sopra descritta, che però esprime una grande verità. La verità su una città che, come poche altre città europee, ha vissuto profondi mutamenti nel corso dell’ultimo secolo, condividendo, sotto questo aspetto, il destino della maggior parte delle città d’Oriente.

Durante il primo Gay Pride di Sarajevo, mentre il corteo dei sostenitori dei diritti LGBT, partito dal monumento della Fiamma Eterna eretto in ricordo della liberazione della città dall’occupazione nazifascista, si muoveva verso il palazzo del parlamento, quella scena del film “Valter difende Sarajevo” mi tornava continuamente in mente. Non perché volessi paragonare l’atmosfera del film a quella che si respirava durante il Pride, visto che l’incolumità dei partecipanti al Pride non è stata minacciata – anche se le inedite misure di sicurezza e l’appello lanciato dalla Comunità islamica di Bosnia Erzegovina, che ha ricordato ai fedeli che nessuno ha il diritto di esercitare violenza su un’altra persona a causa delle sue scelte o convinzioni personali, erano decisamente giustificati - , ma perché in quella marcia c’era qualcosa di catartico e liberatorio. Esattamente come non tutti i partecipanti al “corteo” di Valter erano partigiani, così anche quasi il 90% dei partecipanti al Gay Pride di Sarajevo erano eterosessuali. Ma hanno deciso di sostenere l’idea secondo cui ogni violenza contro altre persone va condannata e l’unico atteggiamento corretto è quello di lottare contro la violenza.

Questo – e non solo – è stato il primo Gay Pride di Sarajevo. Prima dell’inizio del Pride, mentre ci riunivamo al bar dove ogni giorno beviamo il caffè, stavamo scherzando sul fatto che Sarajevo era diventata il fulcro dell’attivismo per i diritti umani. Tutto questo è un po’ strano: sono dovuti passare undici anni dal primo tentativo della comunità LGBT di Sarajevo di organizzare un evento pubblico (un tentativo andato a vuoto, sfociato in violenza contro gli organizzatori e i sostenitori dei diritti LGBT) perché si creassero le condizioni per lo svolgimento del primo Gay Pride. Pensavamo che nel corso dell’ultimo decennio non fosse stato fatto nulla per migliorare la situazione dei diritti umani in Bosnia Erzegovina. Avevamo forse torto? Fino a poche settimane fa quasi tutti temevano che si sarebbe ripetuto lo scenario di violenza di undici anni fa. Lo si poteva intuire dal modo in cui i media hanno trattato l’argomento e dall’atmosfera che si respirava nella città, ma anche dal fatto che gli organizzatori e la polizia si aspettavano che al Pride partecipassero al massimo un migliaio di persone.

Poi è arrivata quella domenica e il corteo di circa 4000 persone, accompagnato – come già detto – da un ingente dispiegamento di forze dell’ordine, ha sfilato per le strade di Sarajevo. Una marcia per rivendicare la possibilità per le persone LGBT di vivere una vita normale; una marcia di solidarietà nei confronti delle persone stigmatizzate per il loro orientamento sessuale. L’appello lanciato dalla Comunità islamica della BiH che – nonostante consideri l’omosessualità come un male e una perversione - ha esortato i fedeli a non ricorrere alla violenza, ha sicuramente contribuito affinché il Pride si svolgesse senza incidenti. La maggior parte dei sarajevesi intelligenti e dalla mente aperta sono venuti a sostenere il Pride, tra l’altro perché hanno capito che quella avrebbe potuto essere l’ultima occasione per Sarajevo di dimostrare di essere una città che rispetta i valori di libertà e diversità, liberandosi così dalla narrazione dominante, imposta dalla precedente amministrazione comunale, composta perlopiù da rappresentanti delle forze politiche xenofobe e conservatrici. La coalizione di sinistra liberale attualmente alla guida della città ha sicuramente contribuito al buon esito della manifestazione, ma l’appoggio è arrivato anche da numerosi cittadini che, affacciati alle finestre, guardavano sfilare il corteo, salutando i manifestanti con la mano.

Così Sarajevo ha mostrato il suo vero volto. Il volto di Valter. Forse è un paragone esagerato e non del tutto corretto dal punto di vista storico, ma i sostenitori del Pride sanno di cosa sto parlando. È ovvio che un Gay Pride non può risolvere tutti i problemi che affliggono Sarajevo e l’intera Bosnia Erzegovina. Ma ne avevamo tanto bisogno. Ed era il momento giusto. Il momento di andare avanti!


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