L'arresto di Karadžić e la reazione misurata di Sarajevo. I tempi della giustizia e lo stupore per le trasformazioni del dottor Dabić. Guerra, dopoguerra e la Bosnia di Dayton. Nostro commento
Sarajevo ha festeggiato, ma moderatamente. Qualche carosello di macchine nella notte di lunedì, alcune decine di persone martedì pomeriggio. Tra la cattedrale e la Čaršija, dalle sei in poi, giravano gruppi di persone con qualche fischietto e piccoli striscioni che salutavano l'arresto. In fondo, poca cosa. L'uscita da un incubo non si festeggia. Si assapora. E Karadžić era l'incubo. L'assedio, la miseria, il terrore. I sarajevesi nei bar, incollati di fronte ai teleschermi, che si scambiano di continuo messaggi, indossano ancora gli abiti della tensione, non quelli della festa. Quando il prigioniero appare al teleschermo qualcuno sputa e maledice. Ma la notizia deve ancora sedimentare. E poi, lo scarto tra il dottor Dabić e Radovan Karadžić è troppo forte.
Ricordo nel decennale di Srebrenica una donna, sopravvissuta alla strage del luglio '95, dirmi che aveva ancora paura di loro, di quelli "che si nascondono nei boschi". Come dei lupi, così tutti ce li immaginavamo. Protetti da bande armate pronte a tutto. Talmente forti da far paura anche alla Nato, preoccupata delle perdite che avrebbe potuto causare un eventuale scontro a fuoco. E invece eccolo lì. Inerme. Un vecchietto innocuo, vagamente assente. Con lo chignon e quel barbone che ricorda Saddam. Come sono diversi gli uomini quando non hanno più il potere. Questo non è Radovan Karadžić. E' un medico della mutua che al termine della pratica ha abbracciato le terapie alternative, tiene dei corsi, promuove lo yoga. La fotografia più impressionante è quella di lui seduto al tavolo con altri relatori. Sembra una riunione di condominio. Di cosa parlano? Di quanto fanno male gli antibiotici. Immagino mentalmente la prosecuzione della scena e una signora che si alza denunciando un mal di testa insistente. Il dottor Dabić, rassicurante, le consiglia delle tecniche di rilassamento.
In un'altra vita, il 4 marzo del '92, tuonava in parlamento a Sarajevo che la Bosnia Erzegovina si stava avviando verso l'inferno e il popolo musulmano verso l'estinzione. Come sono strani i percorsi della giustizia, che arriva solo quando il lupo è ormai diventato agnello. Perchè solo oggi? Solo perchè la Serbia deve entrare in Europa? I sopravvissuti e i familiari delle vittime che ho sentito in questi giorni non fanno che ripetermi questo. C'è soddisfazione, certo, ma mista ad amarezza.
In realtà, come l'arresto di Karadžić sembra suggerire, a Belgrado le cose sono davvero cambiate. Se i politici hanno ora il controllo sui servizi di sicurezza e sui militari, e la pressione europea sul nuovo governo continua, prossimamente dovremo attenderci l'arresto anche del braccio armato di Karadžić, Ratko Mladić. E quindi, dopo la firma dell'Accordo di Associazione e Stabilizzazione, via libera per la candidatura della Serbia all'Unione, come è giusto che sia. Una svolta epocale per la regione. L'integrazione dei Balcani occidentali, finalmente. Lo specchio dell'Europa che ridona senso al progetto europeo. Non solo una zona di libero scambio, ma la ricchezza delle culture, il diritto, l'unione delle minoranze. La pace, dentro e fuori dai confini dell'Unione. Quello che doveva succedere prima della pioggia.
A Sarajevo, però, domina la misura, non l'entusiasmo. In Serbia le cose stanno forse cambiando, in Bosnia Erzegovina no. La cattura di Karadžić rappresenta simbolicamente la chiusura di un capitolo. Ma non sposta di una virgola lo stato del dibattito politico nel Paese. Il problema non è più la guerra, è il dopoguerra. Il fatto che a Stolac i bambini vanno tutti a scuola in uno stesso edificio, ma i bosgnacchi devono entrare da una porta, mentre i croati da un'altra. Il fatto che si studia seguendo curriculum diversi, imparando versioni opposte della storia recente (e passata) di questo Paese. Il fatto che ogni livello delle istituzioni è contrassegnato in forma implicita o esplicita dall'appartenenza etnica. Che ci sono tredici parlamenti, tre presidenti e un alto rappresentante internazionale su tutti. In altre parole, che questo resta un Paese diviso, in larga parte secondo le linee stabilite da quelli che hanno voluto, combattuto e vinto la guerra.
Arrestato Karadžić, dopo 13 anni restano ancora da affrontare le conseguenze della sua visione. Dopo essere usciti dalla guerra, uscire dal dopoguerra.
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