"Racconti ad orologeria" di Faruk Šehić fa parte di quei libri di rielaborazione post-bellica: ma è uno dei pochi a concentrarsi sull’interiorità del protagonista. Prendendo in prestito le immagini surreali del sogno e il linguaggio effimero della poesia l'autore riesce a restituire almeno parte di quel tragico vissuto
La scrittura di Faruk Šehić non assomiglia a niente di noto. L’aspetto dell’unicità formale, potenzialmente valido per ogni autore, si applica in particolar modo allo scrittore e poeta bosniaco, i cui libri accolgono il lettore e lo accompagnano in un’esperienza sempre nuova, sempre destabilizzante. Non è solo lo stile, che transita dal lirismo alla prosa tendendo a un livello sempre più alto, a determinare Šehić come autore di punta della letteratura bosniaca contemporanea, ma anche gli innumerevoli mondi che è in grado di creare, e che si compie perfettamente nella nuova raccolta Racconti a orologeria, uscita per Mimesis Edizioni .
Quest’ultimo lavoro narrativo si pone in continuità con il romanzo Il mio fiume (Knjiga o Uni), il primo romanzo, pubblicato in Italia sempre da Mimesis Edizioni e vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il premio Meša Selimović nel 2011 e il Premio letterario dell’Unione Europea nel 2013. In quel libro, l’esperienza della guerra e le sue conseguenze sulla psiche del protagonista rispecchiano quanto vissuto dall’autore sul campo di battaglia nella guerra di Bosnia Erzegovina dal 1992, quando l’autore aveva 22 anni, e per i successivi anni. Nato a Bihać e cresciuto a Bosanska Krupa, Šehić fu infatti costretto ad abbandonare gli studi in veterinaria a Zagabria per prestare servizio militare in quella che lui racconta sempre come un’esperienza trasformativa devastante e di totale rottura. Senz’altro un libro che si aggiunge ai tanti che riguardano la rielaborazione post-bellica, ma uno dei pochi a concentrarsi sull’interiorità del protagonista: prendendo in prestito le immagini surreali del sogno e il linguaggio effimero della poesia, è possibile anche solo provare a restituire parte di quel tragico vissuto.
Se Il mio fiume aveva preparato i lettori al suo flusso lirico e alla densità delle sue parole, Racconti a orologeria prova nuovamente a sparigliare le carte, frammentando sempre di più la narrazione. Ci si trova davanti proprio a dei frammenti, più che dei racconti, i cui protagonisti sono impossibili da enumerare, sfuggono e a volte cambiano forma all’interno dello stesso segmento narrativo. Non è solo la lingua a costituire una sfida, ma anche l’unità temporale della storia stessa. Si capisce allora perché i racconti, come enunciato dal titolo, siano “ad orologeria”: il tempo non è unitario, sfugge al controllo e persino alla percezione cognitiva, e solo la memoria può fare da bussola. La lingua non è che uno strumento imperfetto per poter rendere queste idee: lo conferma anche la traduttrice Elvira Mujčić, che spiega in una nota resa pubblica dalla casa editrice online : “Nella traduzione dalle lingue della ex-Jugoslavia una delle difficoltà maggiori risiede proprio nei tempi verbali, nei continui salti dal presente al passato, anche all’interno della stessa frase, nel mescolarsi spontaneo di un tempo soggettivo, interiore e quello oggettivo, esteriore.” E continua: “Durante la traduzione di Racconti a orologeria questa difficoltà ha raggiunto livelli altissimi, io stessa mi perdevo in un flusso temporale indistinto, in un unico interminabile istante.”
Ogni racconto è una tacca sul quadrante dell’orologio che avvicina sempre di più al momento della deflagrazione finale: l’ennesimo riferimento alla guerra, e infatti il sottotitolo dell’opera è proprio “Il canto pre-apocalittico”. Il concetto di apocalisse, di azzeramento totale di tempo e spazio come raccontato dai testi cristiani, diventa un termine a cui anelare. “Il tempo è così fragile e soggetto alla tirannia”, afferma il narratore nel racconto dal titolo Matrix a Belgrado, terminando con l’auspicio di poter trovare un volto umano in grado di donare la redenzione dei peccati e la vita eterna. I mondi creati da Šehić sembrano spiare attraverso le faglie di innumerevoli universi cyberpunk, simili a quello della trilogia delle sorelle Wachowski e al tempo stesso ai profili di città decadenti e oscure come Sarajevo e Belgrado, appunto. “Perché dovremmo ricorrere alla fantascienza, se tutto ciò che ci è accaduto qui è fantascientifico?”, si chiede Šehić. Non è forse un caso che ad occuparsi del nuovo capitolo della serie di Matrix ci sia un altro scrittore dell’ex-Jugoslavia, Aleksandar Hemon: come Šehić, entrambi provengono dal mondo post-apocalittico e post-bellico dei Balcani e sanno trasporre la sua essenza distopica nei loro libri.
Come accadeva per Il mio fiume, questi racconti-frammenti esplorano la PTSD, la sindrome da stress post-traumatico, che affligge spesso chi è sopravvissuto a una guerra. Tra di essi compare spesso infatti il monologo, forma d’elezione per trasporre l’interiorità e per creare un ordine in un flusso di pensieri sconclusionato. La realtà è quindi abitata da zombie, i sopravvissuti della guerra, che sono i collegamenti tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La voce di Šehić, attraverso i suoi personaggi, è come quella di Caronte, che traghetta i quasi-morti attraverso lo Stige: i fiumi, pur posizionandosi sullo sfondo, non sono mai dei meri spettatori, hanno sempre un ruolo. Sono le nervature che trasportano vita e morte lungo le terre abitate, le cui acque hanno il potere di dare ristoro e calma.
"Piangevamo piegati come l’erba sotto la potenza della massa d’acqua sulle sponde del fiume”, declama il narratore de La fiaba di ferro: “Noi eravamo figli dell’apocalisse. Eravamo l’entropia che nasce dopo lo sfacelo della società e delle sue regole rodate”. Šehić riesce a raccontare il dolore di vivere in un mondo che cade sotto il proprio stesso peso, e anche per questo riesce a parlare con così grande intensità a tutti i suoi lettori di oggi.
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