Poeta e scrittore della Bosnia Erzegovina, Faruk Šehić descrive il suo arrivo a Venezia e il mescolarsi di acqua e persone in una città straordinaria
(Pubblicato originariamente da xxzmagazin )
Quando sono arrivato alla stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia mi è subito venuto in mente Iosif Brodskij, il cui libro “Watermark” (in italiano “Fondamenta degli Incurabili ”) avevo letto all’epoca in cui scrivevo il mio libro sull’acqua. Volevo provare la stessa sensazione che provava Brodskij quando arrivava in questa stazione tanti decenni fa. Ricordo la descrizione della stazione contenuta nel libro di Brodskij, il vapore che usciva dalla locomotiva, un vapore che aveva l’odore di acido carbolico, se la memoria non m’inganna.
Non ho potuto sentire l’odore di quel vapore perché quando sono sceso dal treno non c’era alcun vapore. Ciononostante, ero felice di trovarmi in una scena del libro di Brodskij che mi ha influenzato molto. È un libro di piccolo formato ma di grande contenuto. Alcune frasi mi trasportavano con la forza dell’immaginario e della verità in una sfera più alta dove cominciavo ad appoggiarmi alla mia immaginazione e precisione.
Ho cercato di farmi strada tra la folla di turisti venuti da ogni dove per godere di questa antica città dove è talmente chiaro che gli esseri umani sono inestricabilmente legati all’acqua e che sono nati da essa, insieme a tutta la vita presente sulla terra. Quando sono uscito dall’edificio della stazione ferroviaria ho avuto la sensazione di esserci già stato tanto tempo fa. Mi sono sentito come se fossi tornato a casa, nella repubblica dell’acqua della mia immaginazione. Per noi Bosanska Krupa [città della Bosnia in cui l’autore è cresciuto, ndt] era un po’ come Venezia, perché ci sono alcune parti della città le cui fondamenta sono immerse nell’acqua del fiume Una, come Pašalići o Pazardžik dove si trovava la casa di mia madre, costruita con la pietra calcarea e la sabbia dell’Una; dove quando il fiume entrava in piena lo si poteva toccare con le dita affacciandosi alla finestra della cucina.
A Venezia ho visto il mare Adriatico tingersi di verde, ma non lo percepivo come mare, bensì come acqua dolce, nonostante l’odore del sale marino si avvertisse ovunque. Il mare di Venezia non è mare, è quell’acqua di cui parla Brodskij che ha il potere magico di spingerci a dimenticare noi stessi e a cominciare a riflettere sulle cose eterne.
Un’altra cosa a cui ho pensato ricordando il libro di Brodskij sono le lenzuola bagnate. Brodskij dice che a Venezia è impossibile trovare un posto per dormire dove le lenzuola non siano bagnate perché c’è sempre molta umidità nell’aria. Nell’albergo in cui ho soggiornato, situato in Campo Santa Maria Formosa, le lenzuola non erano bagnate. Dalla finestra della mia camera, modesta ma arredata in modo piacevole, guardavo i tetti di Venezia e ascoltavo il canto dei gabbiani che mi ha riportato indietro nel tempo, facendomi ricordare tutte le città in cui dalle camere degli alberghi sentivo questi uccelli, da Istanbul a Fiume e Trieste. La voce dei gabbiani di Istanbul, che ascoltavo dalla camera dell’hotel Cartoon vicino a Piazza Taksim, mi è rimasta impressa nella memoria, diventando il parametro di confronto con le voci dei gabbiani di altre città. I gabbiani di Istanbul a volte si fanno sentire con una voce che assomiglia a quella dei bambini molto piccoli. A volte è come se piangessero. A Venezia i gabbiani sono silenziosi.
Venezia è la vera repubblica dell’acqua, Krupa è solo una sua replica di dimensioni minori. Ho potuto sentire il legame che unisce il mio libro sull’acqua con questa città dove l’acqua penetra fin dentro le case. Qui ad ogni strada può essere dedicato un libro. È sufficiente osservare questa acqua primordiale per immaginare di poter tornare allo stadio degli anfibi, e poi ancora indietro, fino alle molecole che diedero origine alla vita.
Guardavo le orde di turisti che calpestavano tutto ciò che trovavano sul loro cammino, sperando che un giorno il turismo di massa sparirà e che le città ritroveranno la loro serenità e armonia. In verità ero nervoso quando sono arrivato a Venezia perché dovevo camminare per circa 40 minuti dalla stazione Santa Lucia fino al Campo Santa Maria Formosa con una grande valigia in mano e uno zaino pieno zeppo sulle spalle. Il problema erano i gradini dei ponti. A Venezia ci sono circa 400 ponti che collegano le oltre cento isole che formano la città. In origine a Venezia non c’erano ponti, si cominciò a costruirli solo con l’espansione della città, ed è per questo che spesso sono storti. Nel lontano passato gli abitanti usavano le imbarcazioni per spostarsi da un’isola all’altra.
Passeggiando per la città mi sono imbattuto in una guida che spiegava a un gruppo di turisti serbi che a Venezia nel Seicento c’erano circa 14mila gondole e che ogni famiglia aveva la propria gondola, aggiungendo che era come quando in Jugoslavia ogni famiglia aveva una “Fića” [la Fiat 600, ndt].
I tavolini in Piazza San Marco erano vuoti, il che non stupisce visti i prezzi esorbitanti. Cercavo il bar preferito di Brodskij dove è stata girata una parte del documentario in cinque puntate intitolato “Il ritorno”. Mi è piaciuta l’atmosfera sfumata delle scene e la piazza San Marco vuota, tovaglie antiche, sedie leggere. Brodskij parlava con grande erudizione e saggezza.
Mi sono seduto in un bar a San Zaccaria, nei pressi della fermata dei vaporetti. Ho ordinato un caffè, odiando intensamente i turisti che mi bloccavano la vista impedendomi di osservare l’acqua e l’isola che si scorgeva nella laguna. Mi sentivo come una divinità acquatica tornata a casa dopo un lungo esilio. Quando ho lasciato Venezia, tornando sulla terraferma, ho capito quanto fosse atemporale la sensazione che suscita questa città, che non è un lembo di terra né un semplice insieme di isole collegate da ponti. Venezia è semplicemente indicibile. Sufficiente a se stessa e fuori dal mondo che conosciamo.
Faruk Šehić, poeta, scrittore e giornalista bosniaco, è nato nel 1970 a Bihac e cresciuto a Bosanska Krupa. Ha studiato veterinaria a Zagabria fino allo scoppio della guerra in Bosnia nel 1992, quando ha fatto ritorno per arruolarsi nell'Armija BiH. Dopo la guerra ha studiato Letteratura all’Università di Sarajevo. Lavora come giornalista per il settimanale BH Dani. Pone al centro della sua opera l’esperienza della guerra, raccontandone la quotidianità, la brutalità, ma anche l’umanità con uno stile sobrio e poetico. Con il suo primo romanzo "Il mio fiume", ha vinto il premio Meša Selimović nel 2012 e il Premio dell’Unione Europea per la Letteratura nel 2013.
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