L'entusiasmo per l'arresto di Ratko Mladić ha generato un clima da missione compiuta riguardo alla giustizia per i crimini commessi negli anni '90. Sono ancora molti però i procedimenti in corso, sia all'Aja che presso le Corti locali, e molti i casi ancora da indagare. In attesa di percorsi alternativi, la giustizia dei tribunali rappresenta per le vittime l'unica possibilità di ottenere una riparazione

09/06/2011 -  Andrea Oskari Rossini

Lunedì scorso, nel presentare il suo periodico rapporto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il procuratore del Tribunale Penale Internazionale dell'Aja per la ex Jugoslavia (TPI), Serge Brammertz, ha ringraziato le autorità serbe per l'arresto di Ratko Mladić. “La Serbia ha adempiuto ad uno dei suoi principali obblighi nei confronti del Tribunale, riconoscendo la supremazia del diritto come pietra angolare per costruire il proprio futuro.” Brammertz ha poi aggiunto: “Vogliamo che l'ultimo latitante, Goran Hadžič, venga arrestato senza ulteriori ritardi.”

Secondo il procuratore, la Serbia ha ora un'importante opportunità, “quella di aiutare i propri cittadini a capire perché Mladić è stato arrestato e perché la giustizia richiede che egli venga processato.” L'Aja appare infatti sempre più consapevole dello scollamento tra i processi e come questi vengono accolti nei Paesi della regione. A proposito della Croazia, e della recente decisione nel caso Gotovina, Brammertz ha infatti definito come “spiacevole” il fatto che dopo la sentenza “i più alti rappresentanti delle istituzioni [croate] non abbiano commentato con obiettività il risultato del processo.”

Per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina, invece, il procuratore ha espresso profonda preoccupazione per le recenti iniziative miranti a indebolire il lavoro della Corte e della Procura di Stato, facendo evidente allusione alla proposta di referendum formulata dai serbi di Bosnia su queste istituzioni, e ha poi concluso esortando le procure dei diversi Stati della regione a collaborare tra di loro.

Missione compiuta?

Ratko Mladic (Foto ICTY)

Ratko Mladic (Foto ICTY)

Il percorso di giustizia per i crimini commessi negli anni '90 nei Balcani, già da tempo, si sta spostando sempre più dall'Aja alle Corti dei Paesi della regione. L'entusiasmo espresso da più parti per la chiusura di un'era, quella della latitanza di Mladić, per la consegna del simbolo, rischia ora di sollevare molti dubbi su quella che sarà la sorte dei processi alle seconde e alle terze file, cioè ai criminali di rango più basso, che devono essere giudicati localmente. Il clima post Mladić, almeno in Serbia, assomiglia per certi versi ad un “missione compiuta”.

Ci vorranno però anni prima che i processi si concludano, non solo localmente ma anche all'Aja. Dato il numero dei crimini commessi, inoltre, sarà difficile che un percorso tradizionale di giustizia possa mai essere considerato completo da parte delle vittime. In attesa dell'affermazione di nuovi strumenti, quali ad esempio percorsi di giustizia transizionale o iniziative quali la REKOM, è importante mantenere l'attenzione sui procedimenti in corso.

Per quanto riguarda la situazione all'Aja, possiamo ricostruire lo stato dei lavori seguendo la relazione del presidente del Tribunale, il giudice Patrick Robinson, presentata al Consiglio di Sicurezza lunedì contestualmente a quella del procuratore.

La “strategia di completamento”

Da anni la procura del TPI non procede a nuove incriminazioni, né altre ne farà in futuro. A partire dal 2004, infatti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (ris. 1534) chiede al Tribunale di presentare un rapporto sui progressi fatti in direzione della “strategia di completamento” dei lavori del TPI, cioè della sua chiusura. Il Tribunale costa e, dal dicembre scorso, l'ONU ha previsto la transizione – con tempi e modi ancora da definire con precisione - verso il cosiddetto “Meccanismo Residuale Internazionale”, che riguarderà le due Corti Penali istituite ad hoc, quella per la ex Jugoslavia e quella per il Rwanda.

Il giudice Robinson, nella sua recente relazione, riporta in dettaglio l'andamento dei processi ancora in corso, sottolineando a più riprese che l'istituzione che dirige è fortemente sottodimensionata dal punto di vista del personale a disposizione, e che questa situazione ha pesanti ripercussioni sulla lunghezza dei processi. Questo concetto attraversa in più punti la relazione del giudice che, in uno dei passaggi, sottolinea come l'istituzione abbia “disperato” bisogno di sostegno per completare il suo lavoro.

Indennizzi

Robinson sostiene anche che le vittime dei conflitti in ex Jugoslavia hanno diritto a ricevere indennizzi per i torti subiti, e anche per questo si rivolge al Consiglio di Sicurezza, affinché venga creato un fondo a tale scopo. Il Tribunale, scrive Robinson, “non può portare la pace e la riconciliazione nella regione solo tramite le sue sentenze. Insieme ai processi dovrebbero essere cercati altri rimedi se vogliamo raggiungere una pace duratura, e uno di questi rimedi è rappresentato dagli indennizzi alle vittime per quanto hanno sofferto.”

I caschi blu sulla scena della strage di Ahmići, Bosnia Erzegovina, Aprile 1993 (Foto ICTY)

I caschi blu sulla scena della strage di Ahmići, Bosnia Erzegovina, Aprile 1993 (Foto ICTY)

In questo momento il Tribunale dell'Aja ha concluso i procedimenti contro 125 delle 161 persone che ha incriminato nei suoi 18 anni di esistenza. 17 imputati stanno attualmente affrontando l'appello, 14 il primo grado e, per due accusati (Mladić e Hadžić), il processo deve ancora iniziare.

Radovan  Karadžić, 2018

Il processo a Radovan Karadžić, comparso per la prima volta di fronte ai giudici il 31 luglio 2008, è iniziato il 26 ottobre 2009. L'ex presidente dei serbo bosniaci è accusato di genocidio, crimini contro l'umanità e violazione delle leggi e delle usanze di guerra a Sarajevo, Srebrenica e in altre 20 municipalità bosniache. Al momento la Procura sta ancora presentando prove e testimoni sull'assedio di Sarajevo. La fase dell'accusa, secondo il procuratore, che attualmente ha utilizzato 122 delle 300 ore a disposizione per la presentazione delle prove, dovrebbe concludersi tra un anno. La percentuale maggiore dei tempi del dibattimento (il 69,6%) finora è stata utilizzata dai contro interrogatori dei testimoni condotti dall'imputato. Secondo il presidente del Tribunale, il processo non si concluderà prima di giugno 2014. La condanna definitiva, dopo l'appello, potrebbe giungere nel 2018, a quasi trent'anni dall'inizio del conflitto in Bosnia Erzegovina.

Vojislav Šešelj

Altrettanto complesso è il caso di Vojislav Šešelj, comparso per la prima volta di fronte ai giudici il 26 febbraio 2003. Il processo è iniziato solo nel novembre 2007, subendo diverse interruzioni. Šešelj deve rispondere di nove capi d'accusa per crimini contro l'umanità e violazione delle leggi e delle usanze di guerra commesse in Croazia, Bosnia Erzegovina e Vojvodina tra l'agosto 1991 e il settembre 1993. La sentenza è prevista per il settembre 2012, ma si tratta solamente di una stima che potrebbe essere soggetta a modifiche. Attualmente la parola è alla difesa, che viene sostenuta dallo stesso Šešelj. Il 5 maggio scorso il collegio giudicante ha respinto un'istanza dell'imputato che, sostenendo che la Procura non aveva presentato prove sufficienti per continuare il dibattimento, chiedeva di essere liberato. Šešelj è inoltre imputato all'Aja in un altro processo, accusato di oltraggio alla Corte per aver rivelato in una delle sue pubblicazioni l'identità di 11 testimoni protetti. In questo caso, la sentenza dovrebbe giungere entro la fine del mese.

Stanišić e Simatović, Tolimir, Haradinaj

Per quanto riguarda il processo a Jovica Stanišić e Franko Simatović, accusati di crimini di guerra e contro l'umanità, la Procura ha terminato la presentazione delle accuse e l'inizio della fase difensiva è previsto per il 15 giugno prossimo.

Zdravko Tolimir, responsabile dei servizi di sicurezza dell'esercito serbo bosniaco e, dopo la guerra, artefice secondo diversi inquirenti della rete di protezione che era stesa intorno al latitante Mladić, non ha potuto essere processato insieme ai cosiddetti “7 di Srebrenica”, pur essendo parte di uno stesso procedimento, perché trasferito all'Aja solo in un secondo momento. Il processo a Popović e altri 6 alti ufficiali dell'esercito e della polizia della RS è già concluso. La sentenza nel caso Tolimir, arrestato solo nel maggio 2007, dovrebbe giungere invece nell'ottobre 2012.

Tra gli altri processi attualmente in corso ci sono quelli a Mićo Stanišić e Stojan Župljanin e quello a Momčilo Perišić. Il processo a Jadranko Prlić poi, imputato insieme ad altri croato bosniaci di crimini di guerra e contro l'umanità commessi contro bosniaco musulmani tra il '91 e il '94, è eccezionalmente lungo e complesso. 6 accusati, 26 capi d'imputazione, 70 diversi luoghi del delitto. Secondo la previsione dello stesso giudice Robinson si tratterà probabilmente del più lungo processo nella storia del Tribunale. Per quanto riguarda infine il Kosovo, la Camera d'Appello del TPI ha ordinato una parziale revisione del processo a Ramush Haradinaj. L'inizio del processo nei confronti dell'esponente politico kosovaro, ex leader dell'UCK, è programmato per questo mese di giugno, e la nuova sentenza dovrebbe arrivare nell'estate prossima.

Comunicare la giustizia

I giudici dell'Aja hanno dovuto affrontare casi di grande complessità. La lunghezza dei procedimenti, tuttavia, rischia di attenuare l'efficacia dell'azione del TPI agli occhi delle vittime. Per ovviare a questo problema, e in generale per migliorare la comunicazione con le società attraversate dai conflitti degli anni '90 in Europa, da anni il Tribunale ha avviato il cosiddetto programma Outreach. Attraverso incontri con le comunità locali, dibattiti pubblici e il lavoro di uffici a Sarajevo, Belgrado, Zagabria e Pristina, i magistrati dell'Aja hanno cercato di avvicinare il proprio lavoro alle vittime e di spiegarne i risultati. Questa dimensione del lavoro del TPI è di eccezionale importanza, ma purtroppo ancora troppo poco sviluppata, soprattutto per la mancanza di adeguate risorse. Affidare la propria principale strategia di comunicazione ad un portale multilingue – per quanto ben articolato – e ai nuovi strumenti della rete (Twitter, You Tube) rischia di essere troppo poco per raggiungere con efficacia vittime che spesso vivono in località remote della campagna balcanica. Sotto questo profilo, la comunicazione del Tribunale è ancora subordinata alla voce dei principali media della regione, in particolare alle televisioni, che non sempre riportano i fatti con la necessaria obiettività e, in alcuni casi, sono ancora fortemente orientati dalle letture nazionali che tanta parte hanno avuto nel nascondere o giustificare i crimini degli anni passati.


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