Lo scrittore bosniaco Hasan Kikić resta un autore poco tradotto e poco conosciuto all'estero. Eppure “Provincija u pozadini”, la sua opera migliore, è un romanzo sociale che parla al mondo intero e pone in risalto l’altra faccia del fronte della Grande guerra: la fame, la miseria e la disperazione viste con gli occhi di un bambino di nove anni

18/06/2014 -  Božidar Stanišić

L’anno scorso un amico italiano, che studia letteratura slava, ha assistito ad una lezione su Miroslav Krleža. Il docente, naturalmente, ha parlato anche dell’influenza di Krleža sulla generazione degli scrittori jugoslavi fra le due guerre. In tale occasione è stato nominato anche Hasan Kikić (1905-1942). Il mio amico mi ha chiesto allora la traduzione di due, tre frammenti dell’opera di quest'ultimo.

“Sembra scriva maledettamente bene!” ha esclamato dopo la lettura di un pezzettino del romanzo “Provincija u pozadini” (La provincia in sottofondo). Ha chiesto poi che gli raccontassi qualcosa sull’autore. “Quest’opera è già stata tradotta in qualche lingua europea?” Immediatamente si è risposto da solo. “Suppongo di no …” E ha aggiunto: “No, il romanzo di Kikić non sarà interessante per gli accentratori nemmeno in occasione del centesimo anniversario della Grande guerra!”.

Accentratori, così lui chiama i grandi (e sordi) editori del triangolo Londra-Berlino-Roma. “Forse ad un'opera così potrebbe essere interessato qualche piccolo editore?” A queste, anche se del tutto amichevoli, domande, da tempo rispondo con un’alzata di spalle. A dire il vero, a volte sorrido anche. In modo scioccamente ottimista.

Il romanzo

"La provincia in sottofondo (ciclo sulla guerra 1878-1918)". È il titolo completo di questo romanzo di Kikić, pubblicato nel 1935 dall’editore di Zagabria Epoha. Prima di questa, che è la sua opera migliore, Hasan Kikić aveva scritto un ciclo di storie dal carattere dichiaratamente sociale. In seguito ha pubblicato i romanzi “Ho- Ruk” (Oh, issa!), “Bukve” (Il faggio) e non è riuscito a terminare la prosa “Lole i hrsuzi” (Fannulloni e furfanti)…

Kikić, nato nel 1905 a Gradačac, cittadina della Posavina bosniaca, di mestiere faceva il maestro. Ma la sua vera vocazione non era educativa, bensì narrativa. E' questa che lo ha reso la voce della Bosnia e della sua gente semplice. Di quella gente a cui non è mai mancato sulle spalle il peso della storia, ma, allo stesso tempo, anche la mitezza di carattere e l’umanità nelle azioni.

Quando è stata pubblicata “Provincija u pozadini” ai critici è sembrata bizzarra la struttura del romanzo: la divisione in otto unità narrative è vissuta, generalmente, come una sua debolezza. E' stata sottolineata, naturalmente, la sua capacità nel descrivere con successo temi prettamente locali, e indubbie sono la vicinanza allo stile di Krleža e l’influenza esercitata sulla sua opera dall’espressionismo.

Soltanto dopo la Seconda guerra mondiale in Jugoslavia è stata però dedicata attenzione anche ai significati universali di quest’opera, che permangono tutt’ora.  Nel periodo tra il 1952 e il 1955 Svjetlost di Sarajevo ha pubblicato la raccolta delle sue opere in tre libri. Nel primo tomo è stato pubblicato il voluminoso studio su Kikić di Meša Selimović. Nelle sue osservazioni Meša ha sottolineato anche il percorso interrotto dello sviluppo dell’autore. Kikić, partigiano, è stato infatti ucciso dai cetnici nel 1942 (è “interessante” che molti dentro e fuori dalla Bosnia ancora oggi si occupino più dell’appartenenza di Meša alla letteratura serba e di Kikić a quella croata che delle loro opere).

Lo scenario bosniaco: microcosmo della tragedia

L’anno 1935, quando è stato pubblicato il romanzo “Provincija u pozadini”, è il diciottesimo dalla fine della Grande guerra. All’inizio della tragedia bellica, quando i bosniaci di tutte le fedi furono inviati sui vari fronti come soldati della Monarchia giallonera, Kikić aveva nove anni. Con gli occhi di un bambino e con la pancia vuota percepì tutta la “modernità” del fenomeno Grande guerra. In questa “modernità” i civili non morivano per le cannonate, ma per i silenziosi, oggi diremmo, “effetti collaterali”.

Nel romanzo, come anche nella realtà della sua Posavina, quel micro-mondo simbolo dell’Europa, questi “effetti” sono la miseria, la fame e la malattia. Quindi, l’altra faccia del fronte. E questo è uno degli aspetti più sottolineati nel film tv “Provincija u pozadini”, realizzato nel 1984 dal regista sarajevese Faruk Sokolović (i ruoli principali sono di Nada Đurevska, Mirjana Karanović, Tahir Nikšić, Danilo Stojković…).

Il romanzo è stato realizzato dalla prospettiva di un bambino che, come migliaia di suoi coetanei in Bosnia, nei Balcani e in Europa, cresce in modo accelerato. E ancora più velocemente crescono gli “urlapčad” (dal tedesco: Urlaub - assenza), bambini concepiti durante i congedi militari dei loro padri. Non per caso lo scrittore ha dedicato quest'opera alla memoria dei suoi “buoni coetanei”. Kikić lo chiama “documento sull’infanzia” delle classi 1904, 1905, 1906, cresciuti nella loro “cara, vasta, piatta e fertile patria”. L’autore afferma di averlo scritto con il desiderio “di far sapere che nel periodo bi-acca [BiH] imperiale e nel recente passato storico bi-acca, si nasceva, si viveva e si moriva; di raccontare come passavano gli autunni e le primavere e loro avevano voglia di  cantare e piangere, e si soffriva la fame e si odiava e amava; di come si cresceva e concepiva e come pioveva e si annebbiava, e i soli, caldi e setosi, splendevano”. 

Al lettore risulterà vano ogni sforzo di trovare nel romanzo dei cosiddetti ruoli principali. Il protagonista del romanzo è il collettivo di madri e di bambini che aspettano il ritorno dei mariti e dei padri dal fronte. E in questa lunga attesa, sentendo intensamente l’assurdità della guerra, soffrono il dramma della divisione  sociale. Si tratta di un dramma complesso dove soffrono i deboli, le madri si vendono ai mercanti per un pezzo di pane, i poveri rubano per sopravvivere nonostante la possibilità di essere condannati. 

Tutto questo, però, non impedisce loro di notare anche tutte le ipocrisie della Monarchia morente. Quella che, nel 1878, subito dopo l’occupazione, innalzò patiboli in tutta la Bosnia, e che nel 1914 chiamò i bosniaci a rispondere in modo patriottico alla guerra. Di tutto questo, come ha notato un critico, Kikić in questo romanzo parla dalle “profondità del popolo”.

I piccoli cacciatori di bovini

Il quarto autunno di guerra, momento in cui inizia il capitolo più riuscito, titolato “K. und K. goveda”, il governo militare austroungarico inizia la requisizione del bestiame in Posavina. Come "impresa di trasporto” il governo ingaggiò i bambini. Fra di loro c’era, ovviamente, anche il futuro autore di questo romanzo. I piccoli segugi all’inizio lo fanno volentieri. Sono pagati per questo, così aiutano le madri, fratelli e sorelle per non soffrire la fame. Poi, negli occhi dei bambini, nei quali continuamente si rispecchia il dramma dello scenario di guerra, il bestiame che loro mandano nei pentoloni dei militari diventa metafora di un paese che si è sottomesso alla volontà del più forte. Gradualmente svanisce la differenza fra i padri che periscono sul Piave e i buoi che muggiscono invano sulla strada verso i pentoloni. Kikić sottolinea che quel viaggio era lungo, solo all'andata, 49 chilometri, sempre a piedi. Kikić precisa di aver percorso “cinquanta volte 98 chilometri!”. 

“Il residuo amaro dell’esperienza” di Kikić

Anche il capitolo “K. und K. Goveda” è un documento commovente di quel periodo che lo scrittore cercò di cogliere con la sua narrazione. In questo tentativo decise per la realizzazione di una struttura narrativa frammentata. Struttura che, per alcuni versi, è comparabile a quella che userà Danilo Kiš nel romanzo “Peščanik” (Clessidra). Così, quando leggo “Il residuo amaro dell’esperienza” - raccolta di discorsi dove Kiš analizza i propri testi - penso anche a Kikić.

Kiš sostiene che l’intera “Clessidra” è una crepa, e questa crepa è “l’uscio stretto” attraverso cui si entra in questo libro…. Kiš crede che “la parola stessa clessidra, in tutti i suoi significati, in realtà sia la metafora della crepa, la clessidra come roccia di sabbia è il prodotto di terremoti geologici e di fessure, la clessidra come clessidra è la crepa attraverso la quale scorre la sabbia-tempo; Clessidra è l’immagine  di un tempo spaccato, di esseri spaccati e del loro creatore spaccato. Clessidra è una ‘crepa’ perfetta!”.

Kikić, credo, ha sbirciato nella sua “crepa perfetta”, nella clessidra dei suoi ricordi. Finché non ha scritto questo romanzo, non è riuscito a distoglierne lo sguardo.

Un antagonista “invisibile”

In medias res, nel romanzo “Provincija u pozadini", vi è la fame. Nessuno degli scrittori slavi del sud ha rappresentato in modo così intenso la fame come Kikić. Ogni volta che torno sulle pagine di “Una giornata di Ivan Denisovič” di Solzenicyn, ai “Racconti della Kolyma“ di Šalamov, a “Se questo è l’uomo” di Levi, a “7.000 giorni in Siberia” di Karl Stajner o, per esempio all’”Altalena del respiro” di Herta Müller, mi tornano alla mente determinati frammenti di questo romanzo di Kikić.

Immagino che l’obiezione a queste parole potrebbe essere: sì però la Posavina nel romanzo di Kikić non è un campo di concentramento! Forse non lo è! In verità, manca solo il filo spinato. La guerra ha imprigionato ugualmente ogni volontà libera. E ha liberato, fra il resto, anche lo spettro della fame, “la pazzia che fa male sia nella pancia sia nell’intestino”. La fame, come nelle opere menzionate che appartengono alla storia dell’umanità, ha occhi umani. Enormi, aperti, come nel ciclo “Bambini di strada” del pittore di Sarajevo Roman Petrović (1896-1947), che li ha dipinti sui visi dei bambini affamati.

Nel suo rifiuto dell’indifferenza, Kikić è inoltre estraneo ai cliché della rappresentazione della Bosnia. Nel romanzo non si ode la voce del muezzin, né il suono delle campane delle chiese. Se ascoltassimo questa assenza di voci e suoni, forse faremmo più facilmente anche “alcune” domande non solo sulla Bosnia di ieri e di oggi ma sull’Europa dei nostri tempi.


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