Lo scorso anno la Bosnia Erzegovina si è trovata a fare i conti con una delle più gravi crisi del dopoguerra. I leader politici locali e Bruxelles sono inclini all'ottimismo, ma non tutti la pensano così. Il commento del nostro corrispondente

11/01/2008 -  Zlatko Dizdarević Sarajevo

Il mese dei godimenti festivi, degli auguri, delle dichiarazioni ottimistiche, dei brindisi allegri e della chiusura degli occhi davanti ai problemi è terminato. Quest'anno, come raramente capita, i vari calendari sono coincisi al punto che tutte le festività sono cadute nel periodo che va dalla metà di dicembre alla metà di gennaio. Le persone inclini alle barzellette hanno enumerato nel seguente modo le occasioni di celebrazione di questo periodo: il Bajram musulmano, il Natale cattolico e quello ortodosso, il Capodanno e la parafa dell'Accordo di associazione e stabilizzazione...

La famosa "parafa" di suddetto Accordo, che di per sé, in senso prettamente tecnico, non significa proprio nulla, è stata oggetto da parte dei media e dei politici di un'attenzione di gran lunga superiore a quella rivolta a tutte le altre feste messe insieme. Ovviamente non va dimenticato che con questo "grande passo della BiH verso l'UE" sia a Bruxelles che a Sarajevo sono stati tutti ugualmente contenti. Chi non è abbastanza addentro al reale stato delle cose potrebbe pensare che in base all'entusiasmo mostrato per la parafa dell'accordo la sfortunata Bosnia sia stata quasi accolta nell'Unione europea.

Le speculazioni sul fatto che l'Accordo sarà firmato "già in gennaio", che la riforma della polizia si concluderà "entro marzo" e che la nuova costituzione vedrà la luce "subito dopo", sono state ripetute innumerevoli volte dai media locali. Secondo questo scenario euforico la BiH già entro la fine di quest'anno potrebbe diventare candidato dell'Unione europea?!

Nei Balcani, però, la via che porta dalle promesse verbali fino al loro rispetto è sempre incomparabilmente più lunga di quanto ci si aspetti quando si fanno suddette promesse.

Dopo le feste la prima doccia fredda per gli irriducibili ottimisti della Bosnia è giunta dalla Slovenia. Janez Jansa, premier dello stato che dal primo gennaio ha assunto la presidenza dell'Unione, apertamente, in una delle prime uscite a nome dell'Europa, ha avvertito che in questo momento "la Bosnia Erzegovina è un problema maggiore del Kosovo". Il suo messaggio è che "il futuro della BiH, divisa in due entità, rappresenta una seria minaccia per la stabilità dei Balcani...".

Le reazioni alla dichiarazione di Jansa sono tonanti. Alcuni hanno visto nella dichiarazione di Jansa quasi un complotto contro la Bosnia per la quale "di tanto in tanto c'è sempre qualcuno che tira fuori le maliziose idee sull'insostenibilità e lo sfacelo". I più razionali ma anche i più diplomaticamente saggi hanno letto la dichiarazione del premier sloveno come la prova che l'UE è cosciente del fatto che "la Bosnia con l'Accordo di Dayton e le due entità non ha alcuna prospettiva e per questo appoggiano un cambiamento immediato e radicale della costituzione di Dayton a vantaggio della creazione di uno Stato più efficente".

L'intera vicenda sulla dichiarazione di Jansa evidentemente è un "riscaldamento della situazione" alla vigilia del dibattito che seguirà e che è condizione per l'ulteriore spostamento della BiH dal suo punto morto. Sulla base delle promesse di dicembre che Sarajevo ha fatto all'Europa è chiaro che nel più breve tempo possibile devono essere risolte almeno due cose: la prima riguarda il portare a termine la riforma della polizia e subito dopo scartare il pacchetto più doloroso, la Costituzione.

In entrambi i casi si tratta della necessità di cambiare le fondamenta dell'attuale ambiente politico della Bosnia. All'oligarchia di governo, però, sembra che vada a genio lo status quo, benché affermino il contrario. Lo stato attuale è il paradiso per le ruberie, la criminalità, la corruzione che regnano tuttora. La transizione economica del paese non è ancora terminata, e la privatizzazione criminale pure. È difficile credere che i politici si affretteranno a creare istituzioni democratiche sulla base della legge e del diritto.

Ovviamente, non bisogna dimenticare nemmeno il blocco totale creato dalla irrisolta questione del Kosovo. L'Europa è in una posizione delicata rispetto alla Serbia, le posizioni all'interno di essa rispetto alla situazione in quel paese non sono unitarie, e la Bosnia Erzegovina è già da anni, con molti altri paesi circostanti, ostaggio di questa situazione.

A dispetto delle euforiche e reciproche promesse che Bruxelles e Sarajevo si sono scambiati in modo euforico alla vigilia di Natale, la situazione è la seguente: la riforma della polizia molto ma molto difficilmente sarà realizzata nei tempi previsti, anzi. La Republika Srpska non rinuncia alle sue intenzioni di mantenere ad ogni costo la propria struttura poliziesca all'interno della polizia statale. Loro vedono la polizia come elemento di statalità della propria entità e su questo non cedono. L'esercito delle entità se ne è già "andato" con l'unificazione a livello statale, quindi la polizia è rimasta come unico "custode del territorio statale". Essa, pertanto, va mantenuta ad ogni costo. Agli altri cittadini della BiH questa intenzione è chiara e per questo motivo non possono accettare questa condizione di Banja Luka. I leader della Republika Srpska hanno saggiamente stimato che in questo momento non verrà esercitata su di loro una grande pressione dall'esterno. Tanto per la debolezza dell'Europa verso la Serbia nel momento del chiarimento della questione del Kosovo, quanto anche per le drammatiche elezioni presidenziali a Belgrado e l'influenza della Russia in tutta questa storia.

Con la Costituzione la situazione è ancora più chiara. I politici locali hanno unitariamente promesso all'Europa "una immediata ed efficace riforma della Costituzione" e con questa promessa a dicembre hanno salvato la testa a se stessi e anche all'Alto rappresentante della comunità internazionale, Miroslav Lajcak. Dopo di che tutti hanno potuto tranquillamente andare a sciare. Ma la cosa riguardo la Costituzione è la seguente: sia i bosgnacchi che i serbi che i croati hanno più o meno posizioni diametralmente opposte sulla futura organizzazione dello stato.

A Banja Luka sono pronti "ad ogni variante di Dayton che non tocchi né organizzativamente né territorialmente la Republika Srpska". Apertamente dicono che la Republika Srpska è una categoria durevole, e che la "BiH non deve esserlo". I croati sono a favore di una terza entità, più il distretto di Sarajevo. Ciò, con qualsiasi variante, mette in questione il territorio dell'attuale Republika Srpska, cosa che i politici di Banja Luka non vogliono nemmeno sentire. Dicono: che facciano della seconda entità che si chiama Federacija due nuove entità, e la RS rimane là dove è con le attuali frontiere. Infine, i bosgnacchi sono a favore di uno stato composto da più regioni che sarebbe fondato su criteri multietnici, economici, geografici, storici e su altri criteri rilevanti. Essi sono tutti fermamente contrari ad ogni tipo di concessione su questo punto.

In questo momento, quindi, non esiste un solo argomento che indichi che la situazione tra gli attuali oligarchi nazionali sia diversa rispetto a tre mesi fa, quando sul paese volteggiava la grande crisi creata artificialmente. Tutti concordano che "nel più breve tempo possibile firmeranno l'Accordo di associazione e stabilizzazione". Ovviamente, sanno che la condizione per suddetta firma è la riforma della polizia e la riforma della Costituzione. E tutti insieme sono arrabbiati per la dichiarazione di Jansa il quale "non ha il diritto di mettere in questione il futuro della BiH".

Per un semplice osservatore dell'intera situazione questa storia potrebbe essere definita come la "quadratura del cerchio". Nessuno sa chi e come sarà risolta. L'unica consolazione, dicono i cinici, è che non si sa nemmeno come verrà risolta la questione del Kosovo, ciò nonostante in molti sono ottimisti. Questa è la Bosnia dopo le feste e alla vigilia di una nuova bufera che, sicuramente, è l'unica certezza.


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