L'Ambasciatore Nicola Minasi durante l'apertura della conferenza di Sarajevo “Italia e Bosnia Erzegovina: Balcani ed UE da un secolo all’altro”

L'Ambasciatore Nicola Minasi durante l'apertura della conferenza di Sarajevo “Italia e Bosnia Erzegovina: Balcani ed UE da un secolo all’altro”

Sintesi dei contenuti del terzo panel della conferenza “Italia e Bosnia Erzegovina: Balcani ed UE da un secolo all’altro” svoltasi a Sarajevo il 28 e 29 novembre scorsi, co-promossa da Ambasciata d'Italia in BiH e OBCT/CCI

14/01/2020 -  Redazione

Riflessioni ampie sullo stato dei rapporti UE-Balcani Occidentali, confronti con i processi di allargamento del passato, proposte di soluzioni concrete per il futuro, anche alla luce del recente freno all’integrazione dei paesi balcanici da parte del Consiglio Europeo dello scorso ottobre. Su questo ampio spettro di temi e ambiti disciplinari si sono confrontati i relatori del terzo panel della Conferenza “Italia e Bosnia Erzegovina: Balcani ed UE da un secolo all’altro” svoltasi a Sarajevo il 28 e 29 novembre scorsi, co-promossa da Ambasciata d'Italia a Sarajevo e OBCT/CCI.

“C’è bisogno di cercare ragioni più forti per il progetto europeo, legate alla libertà e al benessere” è il monito lanciato in apertura da Maurizio Lupi, membro della Commissione Affari esteri della Camera dei Deputati, che ha moderato la sessione. “Il concetto d’Europa oggi è in crisi anche nei grandi paesi fondatori: Italia, Francia, Germania. L’UE non è più vista come un’opportunità, ma come una cappa, una rinuncia ai propri poteri. Anche la ragione del benessere economico è venuta meno dopo la crisi del 2008, per la quale l’UE è percepita come responsabile”. Lupi ha quindi ricordato che la presenza della delegazione parlamentare italiana a Sarajevo “sottolinea il rapporto fondamentale di amicizia tra i nostri due paesi; è un esempio di diplomazia parlamentare, che dà sostegno e autorevolezza alla politica estera dettata dai governi”.

Troncota: un allargamento più “geopolitico” e “nazionalizzato”, il caso della Romania

Come è cambiato il modello di allargamento dell’UE e quali lezioni si possono trarre per il futuro? Su questo si è concentrato l’intervento di Miruna Troncota, ricercatrice presso la Scuola Nazionale di Studi politici e amministrativi (SNSPA) dell’Università di Bucarest. “Il modello di allargamento utilizzato negli anni 2000 per i paesi dell’Europa centrale e orientale non era replicabile con i paesi dei Balcani occidentali. Questo è un fatto noto da tempo tra ricercatori e addetti ai lavori. I motivi sono chiari. Anzitutto, negli anni 2000 la politica di vicinato europeo ha assunto un carattere molto più ‘geopolitico’, in particolare dopo il 2014 e la guerra in Ucraina, ma già dal 2008 quando scoppiò la guerra in Georgia. Le questioni geopolitiche hanno preso piede nella narrazione ufficiale e questo ha influenzato l’allargamento. Inoltre, i paesi dell’Europa centro-orientale erano diversi dai paesi post-conflitto dell’ex-Jugoslavia e dell’Albania, che avevano vissuto profonde trasformazioni, non solo di sistema tra comunismo e capitalismo. Era chiaro che fosse necessario un modello specifico. E l’UE ha le sue responsabilità, perché è stata lenta nel prepararlo”.

Dai Balcani occidentali talvolta si guarda all’adesione all’UE della Romania, e in parte a quella della Bulgaria, come esempi da cui trarre lezioni. Troncota ha tracciato importanti indicazioni sull’esperienza del proprio paese di origine: “La Romania firmò la domanda di adesione nel 1995, solo due anni dopo l’apertura delle candidature per l’Europa centro-orientale. Fu un processo velocissimo, del tutto inimmaginabile oggi. Nel 2019, a dodici anni dall’adesione, la Romania ha assunto la presidenza del consiglio UE, indicando i Balcani occidentali come una delle proprie priorità e appoggiandone l’integrazione, come hanno fatto Austria e Bulgaria”. Ci sono, però, anche indicatori negativi dell’adesione: “La Romania non è ancora nell’area Schengen, né nell’area Euro: questo è un fallimento, anche se non del tutto dipendente dal governo nazionale”.

Romania e i paesi balcanici occidentali sono accomunati dal problema dell’emigrazione. “Circa 3.4 milioni hanno lasciato la Romania per paesi dell’UE dal 2007 a oggi. È quasi l’intera popolazione della Bosnia Erzegovina”, ha osservato Troncota. “Può essere che molti cittadini cercassero semplicemente migliori salari e servizi. Ma penso anche che ciò dimostri come i cittadini fanno propria la lezione della democrazia. Essere europeo significa anche essere mobile, cercare opportunità in qualunque paese si voglia. È un trend europeo generale, che però in Romania è diventato quasi un manifesto politico. Nelle ultime elezioni presidenziali la diaspora romena ha avuto una grande influenza sul risultato, inoltre elegge rappresentanti in parlamento e rappresenta ormai quasi il 10% della popolazione. È un attore politico importante, che ha conosciuto una trasformazione recente, negli ultimi quattro-cinque anni. Ciò dimostra che diaspora ed emigrazione possono essere elementi non solo negativi”.

Troncota ha poi illustrato il concetto, in voga tra gli accademici, di “nazionalizzazione dell’europeizzazione”: “In seguito alla crisi dei migranti, ciò che è legato allo spazio Schengen e all’allargamento ha assunto maggiore rilevanza politica. Adesso l’allargamento dipende più dai paesi membri che dalle istituzioni europee. È il Consiglio europeo a prendere le decisioni chiave sull’allargamento e ad avere l’ultima parola su questo: prima ci si aspettava che fosse la Commissione a guidare il processo e formulare raccomandazioni. Questo fa sì che l’allargamento sia più ‘politicizzato’ e meno prevedibile. Prima era più chiaro, con regole messe nero su bianco, a porte chiuse. Ora è un gioco politico aperto tra gli stati”.

Come uscire da questo stallo e costruire un nuovo modello? Secondo Troncota, “dentro l’UE si deve abbandonare questo approccio di ‘nazionalizzazione dell’europeizzazione’. Bisogna discutere che tipo di Europa vogliamo. Questa discussione deve includere società civile e governi dei Balcani occidentali. Tra UE e Balcani occidentali c’è molta interdipendenza, e alcuni paesi membri dell’UE fanno finta che questa non esista. Eppure, come abbiamo visto con la crisi migratoria, devono affrontare gli stessi problemi”.

Ćerimagić: Unione europea e Balcani occidentali, il principe e il ranocchio

La fiaba del principe e del ranocchio dei fratelli Grimm: è ciò a cui assomigliano gli ultimi sviluppi delle relazioni UE – Balcani occidentali secondo Adnan Ćerimagić, analista bosniaco dell’European Stability Initiative (ESI), think tank con sede a Berlino. “Nella versione più popolare della fiaba, che probabilmente tutti conosciamo, la principessa bacia il ranocchio e il ranocchio diventa un bel principe. Ma nella versione originale la principessa è così disgustata dal ranocchio che lo lancia contro il muro, e allora il ranocchio si trasforma in principe. Ecco, le relazioni UE-Balcani occidentali degli ultimi mesi mi ricordano quest’ultima versione: c’è stato un tentativo di baciarci che è durato anni, ma non è successo nulla. Ora l’UE ci ha lanciato contro il muro e vedremo cosa succederà”.

Il riferimento di Ćerimagić è alle note dichiarazioni del presidente francese Macron sulla Bosnia Erzegovina come una presunta “bomba a orologeria” per la presenza di ex-jihadisti: queste parole per molti sembravano indicare un netto disimpegno verso l’integrazione di Sarajevo nell’UE. “È stato interessante vedere le reazioni in Bosnia Erzegovina: politici, analisti, società civile, quasi tutti hanno reagito con indignazione. ‘No, non è vero’, ‘Non è dimostrato ciò che dice Macron’, ‘Non siamo il paese che lui dice che siamo. Ma se ci saranno pericoli, dovremo lavorare insieme per risolverlo’. Macron ha tirato il ranocchio-Bosnia contro la parete, e questo si è trasformato nel principe che si difende, orgoglioso di dimostrare che almeno alcune cose funzionano”.

Quale ruolo può dunque svolgere l’UE per un cambiamento positivo in Bosnia Erzegovina? La risposta di Ćerimagić inizia con un dato non proprio rassicurante, almeno in termini di percezione dei cittadini. “Secondo un sondaggio di Balkan Barometer, circa il 50% dei cittadini della Bosnia Erzegovina crede che l’eventuale ingresso in UE o non avrà alcun impatto, o avrà addirittura un impatto negativo sul paese. Un terzo crede che la Bosnia Erzegovina non entrerà mai in UE. Penso che questo sia il risultato di un dibattito attorno alla futura adesione che non è mai stato accompagnato da passi concreti. La responsabilità non è solo delle istituzioni bosniache, ma anche di quelle europee: il processo di adesione, di fatto, non è realmente iniziato prima del 2016, quando Sarajevo ha presentato la richiesta. I bosniaci hanno sperato a lungo nella promessa della prospettiva UE, del miglioramento degli standard di vita, dell’avvicinamento agli altri paesi. Ma ciò non è diventato realtà, generando stanchezza, e facendo perdere all’UE la capacità di generare un impatto positivo. Oggi nel processo di integrazione la Bosnia Erzegovina si trova dieci anni dietro all’Albania, e quello che è successo ora con Albania e Macedonia del Nord  certo non invita all’ottimismo”.

Quali raccomandazioni per un rilancio dell’allargamento? Ćerimagić ne indica diverse, con la premessa che “questo è un momento perfetto per discutere del futuro dell’allargamento. Non è importante perché siamo arrivati a questo punto; è importante decidere cosa fare oggi. Ed è positivo che, nonostante le dichiarazioni negative di Macron, alcuni stati membri abbiano assunto posizioni di supporto all’allargamento”. È fondamentale, secondo il ricercatore dell’ESI, riunire i processi di adesione, attualmente distinti: “Ora abbiamo un processo per Montenegro e Serbia, un altro per Macedonia del Nord e Albania, un altro ancora - o meglio nessuno - per Bosnia Erzegovina e Kosovo. C’è bisogno di un’offerta unica per tutti i sei paesi, affinché si possano confrontare e possano anche competere tra loro in modo virtuoso”.

La procedura di adesione, segnala Ćerimagić, “dovrebbe essere credibile per tutti i sei paesi. La Francia ha recentemente proposto un modello semplificato di adesione in sette fasi [rispetto ai 35 capitoli negoziali dell’attuale procedura, ndA], una proposta che va nella giusta direzione. Però, invece di sette fasi, se ne potrebbero effettuare appena due: la prima sarebbe l’offerta di aderire al mercato unico e alle sue quattro libertà – merci, capitali, servizi, persone. È ciò che fu offerto ad Austria, Svezia e Finlandia nel 1989. Questa proposta dovrebbe essere fatta a tutti i sei paesi balcanici nello stesso momento, così da motivarli, e allo stesso tempo invogliare anche gli stati membri UE a lavorare con i paesi in fase di adesione. Oggi gli stati membri UE, e la stessa Commissione UE, mostrano scarse motivazioni nel processo. Includere i Balcani occidentali nel mercato unico, invece, darebbe a tutti un ‘senso di urgenza’: la protezione del mercato comune diventerebbe un motivo di responsabilità per i paesi balcanici”.

Oltre all’inclusione nel mercato comune, conclude Ćerimagić, “i Balcani Occidentali dovrebbero essere coinvolti nelle politiche di coesione sociale. L’UE deve stanziare più denaro per questi paesi. La Romania ha all’incirca la stessa popolazione e il doppio del PIL, ma ottiene quattro volte e mezzo i fondi che ottengono i Balcani occidentali. Se vogliamo che questi paesi lavorino per migliorare lo stato di diritto, devono essere sostenuti economicamente”.

Mujanović: più democrazia, meno tecnocrazia

“Nei Balcani c’è bisogno di proposte di sostanza, non di tecnocrazia”, è stato il cuore dell’intervento di Jasmin Mujanović, analista di relazioni internazionali e docente di scienza politica alla Elon University, negli Stati Uniti. “Manca un impegno genuino per costruire la vera democrazia in questa regione. Democrazia non è solo istituzioni: in Bosnia Erzegovina ci sono già molte, anzi troppe istituzioni. La stessa UE è complice di questo eccesso: ha chiesto a Sarajevo di creare una nuova istituzione, il Meccanismo di coordinamento, che è di fatto un organo incostituzionale, e mi auguro che un giorno qualcuno lo impugni davanti alla Corte di Strasburgo. La Bosnia Erzegovina ha già un proprio meccanismo, che è il Consiglio dei ministri, cioè il governo statale. Abbiamo un surplus di istituzioni, ma un deficit di processi sostanziali e di cultura democratica”.

Secondo Mujanović, negli ultimi venticinque-trenta anni nei Balcani occidentali è mancato un’ “ingrediente specifico” fondamentale in una democrazia compiuta: “Non ci sono le conseguenze delle proprie azioni. Le élite politiche sono rimaste al potere senza interruzioni e non hanno mai affrontato alcuna conseguenza; non hanno mai dovuto rendere conto ai propri cittadini o alla comunità internazionale, non ne hanno mai avuto paura. Basta pensare al caso dell’attuale presidente della Serbia e alla sua trasformazione politica: mi sorprende sempre che nessuno abbia mai chiesto pubblicamente a Vučić cosa è esattamente cambiato nella sua mente, nel suo cuore, nella sua anima per essere oggi sostenitore dell’adesione all’UE, della riconciliazione e dello stato di diritto”.

Il giudizio di Mujanović sulla regione è caustico: “Oggi nei Balcani occidentali abbiamo democrazie elettorali, ma non democrazie compiute. E se è avvenuto questo, significa che nemmeno la comunità internazionale ha fatto fino in fondo la propria parte, nonostante le tante risorse ed energie spese, con un lavoro enorme e anche positivo dei singoli paesi UE e degli USA, che hanno sicuramente creato le condizioni per la pace. Ma bisogna interrogarsi sulla qualità della nostra pace, che è scarsa. Alle élite politiche è stato concesso di violare costantemente i termini della pace”.

Sulle nuove relazioni UE-Balcani occidentali, Mujanović raccomanda “una trasformazione politica, non tecnocratica, bensì basata su valori, principi e impegni. Bisogna affrontare chiaramente coloro che indeboliscono la democrazia e i diritti umani”. Secondo Mujanović, in questa fase si può aprire una nuova opportunità: “Si sta tornando a parlare di NATO, che per tutta la regione, e per la Bosnia Erzegovina in particolare, è un fattore esistenziale: rappresenta un impegno per la pace, che si era indebolito, quasi dissolto in paesi come Bosnia Erzegovina e Kosovo, in cui sono riemerse idee allarmanti come lo scambio di territori su base etnica. L’integrazione NATO offre l’opportunità di reinvestire nelle dinamiche di sicurezza, e permette di togliere il giocattolo alle élite che tengono il potere da 25 anni grazie alla paura e alla minaccia di violenza: a quel punto allora si potrà discutere di democratizzazione, tanto nelle istituzioni come dal basso”.

Kapidžić: una nuova narrazione nel rapporto UE-Balcani

“Più che nuove soluzioni tecniche, serve una narrazione nuova per il rapporto UE-Balcani”, è la tesi di Damir Kapidžić, docente di Politica comparata all’Università di Sarajevo. “Nel 2004, quando avvenne il grande allargamento dell’UE verso l’Europa centro-orientale, c’era una narrazione forte, sia ad est che ad ovest. Ad est c’era il discorso del ‘ritorno all’Europa’; ad ovest c’era quello della reintegrazione dell’est: ‘una volta erano parte di noi, poi hanno smesso di esserlo, ora li riportiamo a casa’. Negli allargamenti del 2007 e del 2013, il tema del ‘ritorno dall’Europa’ è stato molto più debole. Ora abbiamo criteri tecnici, checklist, procedure. Macron ha sollevato a suo modo, in parte a ragione, questo punto: non si può dire ai propri elettori che bisogna accettare dei nuovi paesi membri solo perché stanno rispettando dei criteri tecnici. Deve esserci una narrazione di fondo, che coinvolga entrambe le parti: sia i paesi UE, sia i paesi dei Balcani occidentali”.

Per costruire nuove possibili narrazioni, secondo Kapidžić, entrambe le parti devono però porsi delle questioni scomode. “L’UE deve chiedersi quali obiettivi vuole raggiungere nei Balcani occidentali. Attualmente, sembrerebbe che siano sicurezza, controllo delle migrazioni, relazioni commerciali. Tutto qui: non sembra esserci altro, o almeno queste sono le tre chiavi non negoziabili. Ma questi tre obiettivi possono essere raggiunti anche senza strumenti democratici e senza valori europei, e con leader autoritari. È per questo motivo che abbiamo avuto leader come Gruevski in Macedonia o Vučić in Serbia con il sostegno attivo dell’UE”. Dall’altra parte, “i paesi dei Balcani occidentali devono chiedersi che obiettivi vogliono raggiungere in UE. E questo è ancora meno chiaro. Vogliono l’adesione, l’accesso ai fondi UE e al mercato comune? Ma questi sono criteri formali: non c’è cambiamento sostanziale, non c’è l’accettazione dei valori europei di libertà ed uguaglianza, non ve ne è bisogno. Le relazioni UE-Balcani sono improntate sulla stabilità, e questo è fallimentare: non vi è prospettiva di cambiamento”.

Un nuovo approccio dovrebbe fondarsi sulla “lungimiranza”, secondo Kapidžić. “Bisogna guardare agli obiettivi futuri, non a politiche reattive. Ora tutto è reattivo: reagire ai foreign fighters di ritorno dalla Siria, reagire alla possibile crisi migratoria, reagire alla crisi demografica… Oggi predomina la narrazione di ‘europeizzare’ i Balcani occidentali. Suona bene, però non implica la capacità di azione autonoma dei paesi balcanici: è un approccio unidirezionale, che non permette di discutere o negoziare nulla. Imporre l’europeizzazione, come dimostra il caso della Croazia in cui certi standard democratici stanno persino declinando, porta a fare passi indietro. Nemmeno l’enfasi sulla ‘securitizzazione’ aiuta. Ci vorrebbe un accordo nuovo basato su valori di uguaglianza e dignità”.

Kapidžić conclude con uno sguardo al futuro che, ammette lui stesso, “non è promettente. I Balcani occidentali stanno vivendo una forte crisi di emigrazione, e non sono i poveri e gli affamati che emigrano, ma soprattutto i settori sociali più capaci e istruiti, specialmente coloro che hanno valori simili a quelli europei. Come hanno dimostrato alcuni studi, è più semplice cambiare il paese in cui si vive che il paese in cui si è nati. Ed è quello che stanno decidendo di fare coloro che emigrano. La prospettiva quindi è quella di una regione sempre più arretrata, più conservatrice, più radicalizzata. È questo il futuro con cui vuole avere a che fare l’UE nei Balcani Occidentali? Non credo. Ma per evitare questo serve una nuova narrazione, che non so se, né quando, potrà formarsi. Di certo non nell’immediato. Però non c’è alternativa: con le narrazioni esistenti non avverrà alcun tipo di cambiamento”.

Woelk: i paradossi dell’allargamento

“C’è un deficit politico nel processo di allargamento”: afferma, in accordo con gli interventi precedenti, Jens Woelk - docente di diritto costituzionale comparato all’Università di Trento e attualmente consulente-esperto UE presso il Consiglio della Magistratura della Bosnia Erzegovina. Woelk ha identificato i molteplici paradossi in cui opera il processo d’integrazione nei Balcani occidentali, e in particolare in Bosnia Erzegovina: “Il primo è il paradosso della sovranità. In questi paesi vi è una sovranità più formale che sostanziale, perché gli stati non sono consolidati; in parte perché sono contestati; in parte perché non riescono a provvedere a tutti i servizi che i cittadini si aspettano da uno stato”. Il secondo paradosso è quello del “modello mancante: l’UE non ha un unico modello di statualità, e anche se ce l’avesse non sarebbe probabilmente adatto né per la Bosnia Erzegovina né per altri paesi dei Balcani occidentali, per la questione delle minoranze etniche, dei popoli costituenti, ecc. Il motto stesso dell’UE è ‘Uniti nella diversità’, quindi non può prevedere un modello istituzionale unico da cui copiare. Però questo diventa difficile nella pratica: serve un aggancio a un sistema di valori, di idee, di condivisione degli obiettivi. Quale modello offre l’UE per la sentenza Sejdić-Finci e la sua attuazione concreta? In astratto, certo, ci sono i valori e i diritti di non discriminazione: ma come tradurli nel contesto costituzionale bosniaco, che peraltro è in evoluzione?”

Il terzo paradosso, ha spiegato Jens Woelk, è “quello della ‘buona volontà’, conseguenza del carattere volontario dell’integrazione UE. Non ci sono delle vere e proprie sanzioni se manca la volontà politica. Tutto è basato sulla volontarietà”. Il quarto è “il paradosso dell’assistenza: di norma l’assistenza è fondata su incentivi, non su sanzioni, che rischierebbero di danneggiare ciò che si vuole costruire. Quindi c’è poco bastone e tanta carota”. Il quinto è il “paradosso dello specchio: da una parte c’è l’UE, dall’altra i Balcani occidentali. Sono vasi comunicanti, in relazione l’uno con l’altro. La capacità di ‘fare presa’ da parte dell’UE dipende dalla sua stessa attrattività. Nel contesto bosniaco, è fondamentale l’anno 2006: nello stesso anno in cui fallisce la riforma costituzionale bosniaca, in UE entra un ‘periodo di riflessione’ dopo il fallimento del trattato costituzionale, che di fatto è l’inizio della crisi poi culminante nel decennio successivo con la crisi finanziaria e la Brexit”.

Dopo gli ultimi scossoni causati dal veto francese, osserva Woelk, “sembra che si parli dell’allargamento in funzione più politica. È un fatto positivo, necessario per riportare credibilità e superare lo status quo”. Woelk suggerisce alcuni passaggi concreti: anzitutto “serve rafforzare la dimensione regionale dei Balcani occidentali, accanto a quella bilaterale. Bisogna rifondare un discorso di valori comuni, muovere verso un orizzonte unico”. Poi “non c’è bisogno di nuovi piani d’azione, ma di coerenza nel monitorare, valutare ed eventualmente ridiscutere le cose già attuate”. Infine, “si deve aprire un dialogo, non solo con i politici e i tecnici, ma anche con i cittadini, e coinvolgerli direttamente per una trasformazione sostenibile e diffusa della società”.


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