Danis Tanović

Ancora un premio per il cinema bosniaco e per Danis Tanović al Film Festival di Berlino. “Smrt u Sarajevu – Death in Sarajevo” si è aggiudicato il Gran premio della giuria nella 66° edizione della rassegna tedesca che si è chiusa sabato con l'Orso d'oro all'italiano “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi

23/02/2016 -  Nicola Falcinella

In un concorso di 18 film di livello medio modesto, quello del premio Oscar di “No Man's Land” è stato uno tra i meglio accolti e tra i favoriti per un premio. Un premio meritato, dentro un palmares abbastanza discutibile che ha consegnato solamente l'Orso d'argento per “l'innovazione” al film del festival, il filippino “A Lullaby to the Sorrowful Mistery” di Lav Diaz, epico, potente e commosso racconto della rivoluzione contro i colonizzatori spagnoli tra il 1896 e il 1898.

Anche Tanović si è misurato con la storia, partendo da un anniversario, il centenario dell'attentato di Gavrilo Princip all'arciduca Francesco Ferdinando. Tutto si svolge a Sarajevo il 28 giugno 2014: curiosamente lo stesso giorno scelto da Jasmila Žbanić per il documentario “Jedan dan u Sarajevu – One Day in Sarajevo” realizzato con immagini girate da decine di persone in quella giornata. Dalla pièce teatrale “Hotel Europe” di Bernard Henry-Levy, Tanović trae un film corale alla Robert Altman con decine di protagonisti, su più livelli dell'albergo (nella realtà l'Holiday Inn) dove è ambientato. Storia e attualità si incrociano negli eterni problemi dei Balcani che sembrano ripetersi uguali a se stessi. Il regista si fa apprezzare per come tiene insieme tutti i diversi elementi e come li giostra e per la perizia tecnica con cui costruisce complessi pianisequenza o sfrutta la profondità di campo e gli spazi. “Death in Sarajevo” ha ricevuto anche il premio Fipresci della stampa e conferma il buon rapporto del regista con la Berlinale: nel 2013 ricevette due riconoscimenti per “An Episode in the Life of an Iron Picker”.

Il cinema balcanico si è fatto notare per diversi altri lavori interessanti, soprattutto da Croazia (“S one strane – On the Other Side” di Zrinko Ogresta, del quale abbiamo già scritto) e Serbia. Il cinema serbo era presente con due film nella sezione Forum, ancora una volta raccoglitore originale e curioso seppur disomogeneo, un documentario e un film di finzione

“Dubina dva – Depth 2” di Ognjen Glavonić, al secondo documentario lungo, investiga un fatto risalente alla guerra in Kosovo. Nell'aprile 1999 a Tekjia, vicino a Kladovo, fu trovato nel Danubio un camion frigorifero. Estratto il mezzo dalle acque, si scoprì che non c'era l'autista nella cabina ma che a bordo c'erano 53 cadaveri. Il film parte dalle immagini del fiume, mentre una voce, quella del poliziotto che trovò il camion e lo segnalò, ripercorre quelle ore. Altre voci si susseguono, quella di chi si occupò del recupero, chi guidò il camion e così via, mentre vediamo i luoghi di cui si parla ripresi oggigiorno. Si risale al fatto che le persone erano state uccise nella zona di Prizren. Dopo il ritrovamento, le salme erano state invece portate a Belgrado per cercare di coprire l'accaduto, tanto da essere tumulate nelle fosse comuni di Batajnica, vicino a Zemun. Non c'è niente di didascalico, Glavonić, che per anni ha condotto ricerche e ha provato a fare un film di finzione sulla vicenda, sceglie un modo rigoroso e avvolgente di raccontare. Le dichiarazioni rese da protagonisti e testimoni dei fatti rese nei diversi processi, si alternano tra loro a costruire un racconto a più voci sopra luoghi silenti, anch'essi testimoni di quel crimine, che si susseguono sullo schermo. Non c'è nulla di didascalico o di forzato, il film è una ricostruzione dell'accaduto che non può lasciare indifferenti. “Dubina dva” era il nome dell'operazione organizzata per far sparire i cadaveri e i segni del massacro. Quello di Glavonić è il primo film di un regista serbo che indaga i crimini di guerra commessi dal suo paese.

“Vlažnost – Humidity” rappresenta invece l'esordio del trentenne Nikola Ljuca, senza grandi nomi nel cast. Un film abbastanza insolito nel panorama del cinema dell'area, con un'atmosfera quasi da thriller, ma senza utilizzare stilemi del genere. Una storia imprevedibile, insinuante e carica di tensione sui nuovi ricchi di Belgrado. Petar e Mina sono una coppia di 35-40 anni, belli, benestanti, sembrano felici: i titoli di testa li scoprono a letto, si abbracciano, fanno l'amore, giocano, declamano una poesia. La mattina Petar si sveglia e Mina non c'è, non ha lasciato messaggi, al telefono risponde la segreteria telefonica. L'uomo non si agita troppo, non chiede a nessuno, non dà l'allarme: si reca alla stazione di polizia, ma poi rinuncia a sporgere denuncia. Intanto va a lavorare, trova un contatto per un appalto più vantaggioso che gli frutterà una promozione. La sera va alle feste con amici come lui, risponde elusivamente a chi gli chiede di Mina, prosegue la sua vita tutta apparenza. A Belgrado e dintorni fa caldo, tutti sono sudati o gocciolanti, la settimana passa velocemente mentre genitori e sorella di Petar si preparano a una festa familiare. Qui Mina ricompare come se niente fosse. Si ricomincerà daccapo? Sarà come prima? Sarà tutto cambiato nel loro rapporto? Ljuca lascia le risposte allo spettatore, ma non lo tranquillizza mai (il lavoro sul sonoro è molto accurato). Più che i fatti contano le sensazioni. Una generazione che vive senza farsi troppe domande e senza farne, che accetta la prima spiegazione ricevuta, che non vuole problemi, bastano gli affari, la carriera, le feste, il sesso. Un mondo dove si può fare i conti con un'assenza semplicemente ignorandola. Oppure riaccogliere una persona senza chiedergli nulla.

Se la Turchia ha ottenuto una menzione speciale in GenerationPlus con il documentario sui giovani lottatori “Genç Pehlivanlar - Young Wrestlers” di Mete Gümürhan, il cinema romeno è apparso per una volta sotto tono.

Un po' pacchiano, più fiction che documentario, pare “Hotel Dallas” di Livia Ungur e Sherng-Lee Huang, che vorrebbe raccontare la Romania di fine anni '80 nella quale tutti guardavano “Dallas”, unico programma tv estraneo alla propaganda del regime. Un film che vorrebbe mostrare come una serie straniera ha cambiato la cultura popolare, un po' come fa “Chuck Norris vs. Communism” di Ilinca Calugareanu che però è nettamente più riuscito, approfondito e compatto.

Parziale delusione “Ilegitim – Illegittimo” di Adrian Sitaru, presentato sempre in Forum. Il quarto film del regista noto per “Hooked – Pescuit Sportif” (2008), “Best Intentions” (2011) e “Domestic” (2012), uno degli autori più interessanti della scuola romena, tratta ancora di famiglia, di segreti nascosti e ipocrisie. La famiglia Anghelescu è turbata, durante una festa, dalla scoperta che fanno i figli: il padre medico aveva, anni prima, al tempo di Ceausescu, denunciato delle persone per un aborto. I tre figli lo attaccano, qualcosa in famiglia si spezza. Intanto i due figli più giovani, Romeo e Sasha hanno una storia d'amore tra loro e la ragazza rimane incinta. La questione dell'incesto si complica alla scoperta che il bambino sarà affetto dalla sindrome di Down e da una malformazione cardiaca: così la questione dell'aborto si riproporrà con posizioni dei singoli un po' mutate rispetto alla situazione di partenza. Un film diverso dai precedenti di Sitaru, meno ficcante, più piccolo come budget e anche come storia, con personaggi meno precisi (anche se gli attori sono sempre i suoi) e un andamento più programmatico.


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