Quella che si combatte oggi in Bosnia Erzegovina è una “guerra per la verità” fondata sulla competizione etnica, e le armi principali sono parole e narrative sul passato
“Fa male, ogni anno fa più male. Il problema è che noi, che abbiamo vissuto là, avevamo un’idea di cosa sarebbe potuta diventare quella comunità che è stata invece distrutta. Il tempo non cura tutte le ferite”, spiega in un’intervista televisiva Emir Suljagić. Sopravvissuto al genocidio di Srebrenica quando era poco più che ventenne (su cui ha scritto lo straordinario libro Cartolina dalla fossa) Suljagić è uno dei più instancabili testimoni degli eventi del luglio 1995, quando oltre 8.000 bosniaci musulmani furono uccisi dalle forze serbo-bosniache.
In questi ultimi anni, e soprattutto in quello corrente, l’attenzione pubblica su Srebrenica si è concentrata sull’attualità, tra speculazioni della politica domestica, aiuti e pressioni internazionali.
Suljagić, invece, cerca di restituire centralità a coloro che con il passare degli anni, in questi giorni di luglio, sono sempre meno protagonisti. “Quando parlo di vittime del genocidio, parlo dei miei compagni di classe con cui sono cresciuto. E so quanto potenziale abbiamo perduto in quel crimine mostruoso”.
Ora che giustizia transnazionale e documentazione storiografica hanno espresso (o stanno per farlo) solidi verdetti, sarà sempre più fondamentale per la trasmissione del passato ricordare nomi e storie individuali, prescindendo dal loro carico identitario e collettivo.
È ciò che prova a fare questo video inedito, diffuso nei giorni scorsi dalla agenzia BIRN, girato tra gli abitanti di Srebrenica durante l’assedio delle forze serbo-bosniache tra il 1993 e il 1995, restituendoci la loro umanità, tra speranza e rassegnazione.
È ciò che fanno i giovani dell’associazione Adopt Srebrenica, che stanno realizzando un Centro di documentazione composto di materiale del periodo precedente alla guerra, fotografie e testimonianze per recuperare le memorie degli scomparsi e superare le narrative centrate sulla separazione etnica, ricomponendo un passato di convivenza come normalità quotidiana.
Come ogni anno, l’11 luglio sono stati sepolti al Memoriale di Potočari gli scomparsi ritrovati nelle fosse comuni e identificati nei mesi scorsi. Quest’anno si trattava di 71 uomini, che si aggiungono ai circa 6.500 già sepolti negli anni precedenti. Il fatto che ne manchino ancora all’appello più di 1.000 segnala che la rielaborazione dei traumi durerà ancora a lungo.
Per la verità, la commemorazione è svolta in tono minore rispetto alle edizioni precedenti. La partecipazione di pubblico è apparsa inferiore, così come lo è stata la presenza di ospiti internazionali. Dalla Serbia non ha partecipato nessun esponente di governo, conseguenza dei disordini avvenuti nel 2015 con la visita dell’allora premier Vučić, ma anche del fallito ricorso di Sarajevo alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sul caso Bosnia-Serbia, che ha nuovamente raffreddato i rapporti.
Un gesto simbolicamente importante, per quanto politicamente limitato è la visita a Potočari di diversi esponenti dell’opposizione serba. Saša Janković, giunto secondo alle recenti presidenziali serbe, si è espresso in termini netti sul riconoscimento del genocidio e sulla necessità di fare i conti con il passato da parte di Belgrado.
Ma a catturare l’attenzione, quest’anno, è stato ciò che è avvenuto (o meglio, ciò che sarebbe dovuto avvenire) fuori da Potočari.
Trilogia della “menzogna”
Dagli ambienti ultra-nazionalisti serbo-bosniaci è infatti partita un’offensiva negazionista brutale e senza precedenti, sviluppatasi su tre episodi tutti a ridosso dell’11 luglio, e tutti contenenti un riferimento alla parola laž (menzogna, bugia) per sottolinearne l’intento revisionista.
La prima vicenda riguarda Liljana Bulatović, biografa e amica intima del generale Ratko Mladić, nota per argomenti negazionisti, glorificatori della leadership di guerra serbo-bosniaca, e deliberatamente insultanti verso le vittime dei crimini. Bulatović era stata invitata a presentare il suo libro, intitolato “Srebrenica: menzogna e inganno al popolo serbo” proprio a Srebrenica il 7 luglio, dunque a ridosso della commemorazione di Potočari, per giunta in una manifestazione culturale finanziata dal comune. Solo dopo la mobilitazione di numerose ONG della Bosnia Erzegovina e della Serbia, l’evento è stato annullato.
Negli stessi giorni, un’associazione ultranazionalista locale (Istočna Alternativa, “Alternativa Orientale”) annunciava per l’8 luglio, nel pieno centro di Srebrenica, la posa di un monumento dedicato all’ambasciatore russo presso l’ONU Vitali Churkin.
Recentemente scomparso, Churkin è diventato una sorta di eroe popolare per i nazionalisti serbi nel luglio 2015, quando oppose il decisivo veto alla risoluzione proposta dal Regno Unito al Consiglio di Sicurezza ONU che esortava a riconoscere il genocidio di Srebrenica.
“Quello che per loro è Bill Clinton, per noi è Churkin”, ha spiegato un sostenitore dell’iniziativa, ennesimo caso di “geo-politicizzazione” della memoria, che nutre la narrazione complottista secondo cui i fatti di Srebrenica (e le guerre jugoslave tutte) costituirebbero un continuum nella cosiddetta “guerra strategica” dell’occidente atlantista contro l’oriente russo-slavo, assolvendo da ogni responsabilità le classi politiche e militari locali.
Anche in questo caso sono arrivate vibranti proteste di ONG e attivisti, che hanno parlato del monumento come di “un dito nell’occhio dei sopravvissuti”, costringendo una reticente amministrazione municipale a negarne il permesso per “timore di provocazioni reciproche”.
L’evento più visibile era tuttavia in programma a Banja Luka. Proprio per l’11 luglio, nel centro della capitale della Republika Srpska il movimento ultra-nazionalista Zavetnici aveva convocato una manifestazione intitolata, senza mezzi termini, “Supporto a Ratko Mladić – Stop alle menzogne su Srebrenica”, incitando a protestare contro “le manipolazioni dei numeri delle vittime” e “un progetto politico teso a demonizzare il popolo serbo”.
Una vicenda che, come si dirà in seguito, ha sconcertato intellettuali e attivisti civici, ma che ha suscitato principalmente indifferenza nel contesto cittadino. “Questa è una sconfitta per l’umanità. A prescindere che sia legale o meno, è incivile e disumano organizzare una manifestazione di questo tipo proprio in quella data”, ha commentato il politologo Srdjan Puhalo.
Le istituzioni della Republika Srpska, invece, hanno mostrato indulgenza e qualche tacita complicità. La manifestazione ha ricevuto la pronta autorizzazione della polizia, rimasta in vigore una settimana e ritirata a 24 ore dall’evento con motivazioni più di comodo che di sostanza, portando solo allora all’annullamento definitivo.
Nessuna chiara presa di posizione è giunta dal presidente della RS Milorad Dodik (“È una manifestazione legittima. Se ci andate voi, ci vado anch’io”, ha dichiarato ai microfoni tv), né dai partiti di opposizione. Il blocco di potere in RS si è confermato monolitico, fermamente ancorato alla rimozione delle proprie responsabilità storiche.
Non sembra avere contribuito alla riconciliazione il ruolo di Mladen Grujčić, il primo sindaco serbo a Srebrenica dagli anni Novanta. Se qualche tiepida speranza veniva dalla sua giovane età e dallo spirito di alternanza che incarnava dopo gli anni di inconcludente amministrazione a guida SDA (nazionalisti bosgnacchi), questa è stata presto vanificata dalla sua palese incapacità (o disinteresse) di compiere riconoscimenti simbolici e gesti distensivi all’altezza del suo ruolo. L’assenza di Grujčić alla cerimonia di Potočari, peraltro anticipata da tempo, segna un definitivo passo indietro nella riconciliazione che sarà complesso recuperare.
Il caso Bursać e la normalizzazione del fascismo
In Republika Srpska, le voci contrarie al negazionismo sono state tanto poche quanto incisive, uno sforzo di radicalità necessario per squarciare il velo di indifferenza e ostilità che circonda la narrazione sugli anni Novanta.
Chi ha alzato più il tono è l’editorialista Dragan Bursać, autore di due articoli (intitolati “Anatomia del male” e “Banja Luka festeggia il genocidio?”, pubblicati da Al Jaazera Balkans) che prendevano di mira la “normalizzazione del fascismo” con provocazioni acute e la tagliente analogia con i crimini nazisti. “Immaginate uno scenario in cui Himmler e Leni Riefenstahl presentano un film o un libro sulla negazione dell’Olocausto, pagati dagli ebrei sopravvissuti. Questo sta per succedere a Srebrenica”.
Bursać, serbo-bosniaco di Banja Luka, ha espresso duri giudizi sulla sua città. “Qui esiste una maggioranza silenziosa che in qualche modo approva la manifestazione neofascista. Il problema non è nel 5% di fascisti, ma nel 95% delle persone che stanno zitte, che non hanno detto ‘Andate via di qui’ ”. In seguito alla pubblicazione Bursać ha ricevuto diverse minacce di morte sui social network, ritenute attendibili dalla polizia, che l’hanno costretto a trasferirsi temporaneamente in una località segreta, sotto protezione.
Bursać è un nuovo bersaglio di quella che Refik Hodžić definisce la “guerra per la verità” fondata sulla competizione etnica, che si combatte oggi in Bosnia Erzegovina non con armi ma “con altri mezzi”, principalmente parole e narrative sul passato, non su un campo di battaglia ma nello spazio politico, mediatico e quotidiano, nelle case, nei luoghi di culto e su internet. Una guerra che si combatte a Banja Luka così come a Sarajevo e a Mostar, dove “altre” narrative riscrivono la storia e rifiutano di riconoscere i diversi dolori e memorie che da essa derivano.
Nel mirino vi sono soprattutto le giovani generazioni. “I giovani a Banja Luka sono almeno all’80% più nazionalisti dei loro genitori. Pensano di avere tutto chiaro. Per ora sono solo guerrieri da tastiera, che proprio nella mancata esperienza della guerra hanno il loro vantaggio comparativo di odio, pensiero unico e provocazione”, spiega amaramente Bursać a OBC Transeuropa. In questo conflitto per la verità, Srebrenica è ancora uno dei terreni di scontro principali e devono succedere molte cose, o passare ancora molto tempo, perché non lo sia più.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto Testimony – Truth or Politics. The Concept of Testimony in the Commemoration of the Yugoslav Wars, coordinato dal CZKD (http://www.czkd.org/ ) e cofinanziato dal programma "Europa per i cittadini" dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea.
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