Dopo rocce, praterie e silenzio il paesaggio si fa appenninico, e poi sempre più urbano. E si scorge all'orizzonte Sarajevo. La tredicesima puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo per il Centenario dell'inizio della Grande Guerra
No, neanche oggi è tutta discesa. Anche Kalinovik dovremo lasciarla coi rapporti piccoli. A colazione, omelette e salumi nel locale di peluche rosso, lo stesso della cena, cerco di informarmi su quella che immagino essere una speculazione internazionale, con capitali cinesi o magari russi, con al centro l'hotel Moskva. Il cameriere ne parla benissimo. I proprietari sono gli stessi del ristorante, suoi datori di lavoro.
Torniamo al nostro alloggio, dove comunque non si è dormito male. Se qualcuno ha usato le stanze attigue come alcova a ore, lo ha fatto con discrezione. Darko doma il rottweiler che custodisce lo scantinato e ci libera i velocipedi. Fra noi e la risalita in sella, pochi passi: ricarica telefonica, pieno alle borracce, rifornimento di cibo. Ad Andrea basteranno gli ultimi venti grammi di cocco disidratato che si è portato da Treviso. Io non mi sento sicura se non ho mezzo chilo di viveri nella borsetta anteriore. Dopo un abboccamento col droghiere, tra serbo, inglese, italiano e gesti, esco con due banane e un pacchetto di fichi secchi.
Cominciamo a immaginare Sarajevo
Lasciamo a sinistra il benzinaio, a destra quel che resta di un'officina, vetri spaccati e scritte cirilliche sui muri. Cominciamo una salita silenziosa e costante, a larghi tornanti. In un paesaggio che sarebbe piaciuto a Sergio Leone, di rocce, praterie, e nemmeno una casa, scambiamo saluti laconici con i pastori. E cominciamo a immaginare Sarajevo, sempre più vicina. Anche la musica, che ho usato come doping nei momenti duri, oggi sa di amarcord. I pezzi già ascoltati rimandano ad altri paesaggi, colori, strade di questa terra montuosa. Oggi dj random ha in serbo per me un paio di chicche, accostate con imperscrutabile logica. Passerà da “Ciapa la galeina” (balli di gruppo), a “Addio mia bella addio” versione libertaria. Un inno da refusnik del risorgimento, che rifiutano di unirsi all'armata in partenza per la Sicilia.
L'ultima arrampicata è il passo Rogoi. I tornanti non mi spaventano più, anzi mi riempiono di una soddisfazione quasi erotica. Andrea aspetta in cima. A sinistra monumento partigiano, a destra casa distrutta negli anni Novanta. Da spaghetti western il paesaggio si è fatto appenninico, e ora, chilometro dopo chilometro, progressivamente più urbano. Poco prima di Trnovo sostiamo in un bar terrazza fermo agli anni Settanta. E abbandoniamo le bevande multinazionali per una limonata casareccia.
A un tavolino di metallo, è immersa in un libro una ragazza dal vaporoso caschetto biondo, i lineamenti delicatissimi, l'aria da film della Nouvelle Vague. Aspetta un fidanzato motociclista che arriverà poco dopo. Arrivano anche due francesi veri, ciclisti da corsa, completini sponsorizzati, aria riposata, bagaglio microscopico. Le loro tappe sono così lunghe che ne ascolto l'elenco distrattamente, per non finire a sminuire la nostra impresa.
Pedaliamo ancora lungo la statale, passiamo il fiume e svoltiamo per Ilidža, tra condomini grigi e marroni, i segni dell'assedio suturati con l'intonaco tono su tono. Poi deviamo per le sorgenti della Bosna, un parco attorno alle risorgive del fiume. Si raggiunge con un viale di platani, solcato da carrozze. Nel prato all'inglese prega un gruppo di visitatori musulmani. Inginocchiati, le schiene che si alzano e abbassano, le fronti che toccano terra all'unisono. L'uomo dalla barba folta che all'apparenza dirige gli altri ha la maglia giallorossa di Totti.
I tram e la vecchia biblioteca
Usciti da Vrelo Bosne lasciamo sulla destra un campus universitario e un'affollatissima enorme piscina. Un ponticello, ed eccoci nel traffico urbano, con una rotatoria che ci porta dritti nel cosiddetto “viale dei cecchini”. Tre corsie per senso di marcia, in mezzo i doppi binari dei tram. Ci spiegherà Eugenio, complice e cicerone, che i tram arrivarono prima qui che a Vienna. Gli imperatori scelsero Sarajevo per evitare ai passeggeri viennesi i rischi del collaudo su strada. Noi percorriamo un ampio marciapiede-ciclabile. Ci sfilano accanto poster grandi e piccoli. I cuori rossi del Sarajevo film festival. I mobili di marca “Bellona”. Il proliferare di centri commerciali.
Ero stata qui dieci anni fa. Ricordavo la devastazione di Grbavica, il pavé scivoloso della čaršija, il burek con molti più gusti che in tutto il resto dei Balcani, qualche minareto. Ricordo bene, chissà perché, la Inat kuća, di fronte alla Vijećnica, la biblioteca, allora ancora grigia di fumo e distruzione. La troveremo ritinteggiata, lavori in corso per ripristinare i ghirigori di stucco. I muri di nuovo in piedi, i libri sparsi per sempre nel vento, dopo che le scintille delle pagine hanno volteggiato in aria per ore “come i capelli di Farrah Fawcett ”.
Ancora non ci siamo, alla biblioteca. Stiamo sfilando tra i centri commerciali dalle pareti di vetro, il cemento grigio dei ministeri, il giallo e marrone dell'Holiday Inn, fino alla Miljacka. Non riconosco nulla. Eugenio al telefono dice di incontrarci alla Fiamma Eterna. Forse qualcuno mi ha detto che non fu spenta neanche nei giorni dell'assedio. Non ricordo neanche quella.
Troppo diversa questa città assolata dai frammenti di grigio e tristezza dei miei ricordi 2003. Allora camminavamo per le colline, tra i cimiteri con le date di morte tutte uguali. Fotografavamo case sventrate, i muri esposti alla strada, ricoperti di graffiti, schizzi di giovani uomini dai capelli lunghi e le pose da Rambo.
Nessuna nostalgia per la distruzione, molta me ne verrà fra qualche giorno - della Sarajevo che non ho mai visto - parlando al bar con un anziano metalmeccanico. Del melting pot del passato, sosterrà lui, restano solo gli edifici rimessi in piedi. E l'ampiezza gastronomica del bar dove siamo seduti, dalle torte di noci austriache ai mattoncini di baklava gonfi di miele.
Stiamo ancora pedalando. Sostiamo sul fiume accanto all'osteria Dva ribara, che significa "due pescatori". Concordiamo di incontrarci al monumento dedicato ai bambini, alla fine della via Maresciallo Tito. Eugenio ci aspetta alla fontana, ci immortala trionfatori. La confusione, la voglia irrealizzabile di spiegarsi gli anni pantanosi della guerra, torneranno domani. Per ora c'è solo la gloria dell'arrivo.
Tutto doveva portarci qui
La spontaneità friulana e le rive di Trieste . I boschi dell'Istria, le colonne di vacanzieri sull'Adriatico e il verde brillante di Plitvice . Le cascate della Una , i campi minati sull'altopiano, il meccanico di Livno , la quiete del lago Rama. La discesa lungo la Neretva , i due giorni di arrampicata, dopo la tekija, tra le praterie. La ragazza della Nouvelle Vague.
Tutto, è evidente, doveva portarci qui. Qui alla fontana di cemento e vetro. Ai cilindri di metallo che risuonano, incisi di 1600 nomi di bambini e adolescenti uccisi nell'assedio. Allo splendore rinascimentale delle moschee. Ai cimiteri senza recinto, tre lapidi qui e dieci là, sparse nel parco sulla collina. E naturalmente, all'ultima salita.
Il fiume Miljacka e il centro sono a circa 500 metri di altezza. I sobborghi, le mahale, si arrampicano sulle colline, intorno alla città storica, come sulle pareti di un mastello per lavare i panni. Fino a 900 metri. Marzia, che ci ospiterà, per fortuna non sta sugli impianti delle Olimpiadi '84. Ma una bella rampa c'è.
Riprendiamo una settantina di metri di quota mentre Eugenio ci segue a piedi, così gentile da passare per il parco, così non devo constatare che probabilmente va più veloce di me. Nel cortile di Marzia, all'ombra del melo, il contachilometri segna 852. Dopo undici giorni nomadi e stranieri, il viavai degli ospiti della casa sancisce il ritorno alla vita stanziale.
Parole in italiano, presentazioni, curiosità. Di dove siete, che mestiere fate (l'informatore, risponde Andrea, e io mi precipito a precisare “farmaceutico”), ma perché lo avete fatto, ma ne avete già fatti dei viaggi così. Siamo stanchi, ma restano le energie per un piccolo bagno di gloria. Mi schermisco (“In cima lui mi aspettava sempre”) e Andrea mi lusinga (“Io sono le gambe e lei la testa”), col suo accento trevigiano che ora qualcuno può riconoscere a orecchio.
Tra poche ore – ci informa Eugenio - ci sarà un concerto di musica da camera, al Bošnjački Centar sulla Maresciallo Tito. Anche se non ci dovesse piacere il genere, la sede merita una visita. Sì, siamo tornati alla civiltà. Andremo anche noi, tanto per domani non ci sono tappe da preparare.
Quell'uomo è Jovan Divjak
Il centro lo ha fondato l'erede di una ricca famiglia di bey, nobili d'epoca ottomana. Ora che il mecenate riposa nel mausoleo all'ingresso, si può parlarne con spirito critico. “Il patrimonio – spiega Eugenio – raccoglie frammenti di molte biblioteche private di Sarajevo. Le hanno salvate, ma se ne sono anche appropriati”.
Girare i Balcani con Eugenio è meglio che indossare i Google glass. Ogni pietra gli dà l'abbrivio di una storia da raccontare. “Vedi l'uomo che ci ha dato i programmi di sala?”, sussurra. “È Jovan Divjak”. Il generale nato a Belgrado che tentò di coordinare la difesa della Sarajevo multietnica. E ora sostiene progetti per ricostruire qualche goccia di quella comprensione.
Il più vecchio dei musicisti ha 22 anni. Chi non suona Beethoven, Arenskij o Dvorak, volta le pagine degli spartiti. Quanto a noi, i corpi scricchiolano dallo star fermi e la mente si stupefà della differenza. Dall'altopiano delle tombe medievali di ieri a dove siamo oggi, sulle poltroncine imbottite dell'ex bagno turco, ad ascoltare ragazzi talentuosi non ancora nati negli anni della guerra, a sbirciarne sguardi e movimenti delle mani dribblando i fiori rossi e il cappellino di paglia della signora seduta davanti a noi.
Ceniamo da Šahovski, il club degli scacchisti, con un antipasto di uštipci da fare invidia a quelli di Zora, peperoni ripieni di riso e bosanski lonac, uno stufato di carne e verdure miste che cuociono insieme per ore. “Una metafora della mixité bosniaca”, chiosa Eugenio. Usciamo con le pance strapiene e concludiamo la serata al Kriterion, un localino hipster. Schiviamo le promoter di sigarette al mentolo, vestite di miniabiti impalpabili di lamé dorato, e raggiungiamo la sala interna. Musica elettronica. Nel visual-blob che l'accompagna, un filmato in bianco e nero del maresciallo Tito. Poi uno spezzone di “WarGames”. Il computer deve scegliere se giocare a scacchi, a tris, o a “guerra termonucleare globale”.
[Continua, ma avviandosi alla conclusione]
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