Attore di teatro e cinema, sceneggiatore e attore televisivo, Rejhan Demirdžić (1927-1988) viene ricordato da Božidar Stanišić per la sua incantevole voce che un tempo ascoltava ogni domenica sulle frequenze di Radio Sarajevo nei suoi programmi umoristici
Capita anche a voi di riuscire a richiamare facilmente alla mente alcune scene di un film, pur ricordando solo vagamente la trama? Io ricordo certe scene anche grazie alla sensazione che la voce dei protagonisti ha lasciato in me. Cito solo alcuni attori e film, anche se sarebbe giusto citarli tutti: Bekim Fehmiu nel ruolo di Beli Bora Perjar nel film “Skupljači perja” del 1967 [Raccoglitori di piume, in Italia distribuito col titolo “Ho incontrato anche zingari felici”], Mira Banjac come Zilha nel film di Miroslav Mandić “Život radnika” [La vita dei lavoratori] del 1987, Pavle Vuisić nel ruolo dell’autista nel film “Ko to tamo peva” [Chi è che canta laggiù] del 1980 diretto da Slobodan Šijan, Mira Furlan come Sonja nel film “Turneja” [Tournée] del 2008 per la regia di Goran Marković, Mustafa Nadarević nel ruolo di Zijah nel film di Emir Kusturica “Otac na službenom putu” [Papà è in viaggio d’affari] del 1985…
Lo so, non è giusto nemmeno affermare che tra tutte quelle voci ve n’è che una spicca, quella di Rejhan Demirdžić. Quest’affermazione non significa però che io percepisca gli attori come concorrenti ad una gara (Non mi pongo la domanda: Chi sarà il migliore?)
Di chi è “la colpa” se la voce di Rejhan suscita in me una sensazione così forte?
Innanzitutto, è colpa degli ormai lontani giorni e sere invernali dei primi anni Sessanta in Bosnia. All’epoca a casa non avevamo la televisione – mio padre riteneva che fosse più importante comprare una lavatrice, per risparmiare a mia madre la fatica di dover lavare il bucato a mano. “Un televisore? Che se lo comprino quelli che preferiscono vedere i selameti [termine turco che significa “salvezza”, “strada giusta” e, in senso lato, “cose positive”]!” (Solo una volta cresciuto ho capito meglio il significato di quell’affermazione sui selameti che mio padre pronunciava spesso.) Chi non possedeva un televisore almeno aveva una radio (e nelle sere d’inverno anche le castagne al forno – ah, certi odori non svaniscono col tempo!)
Ogni domenica andavano in onda vari programmi umoristici. Un umorismo di stampo socialista, per intenderci. A quel tempo per me Rejhan Demirdžić, così come gli altri protagonisti di quei programmi – di cui capivo ben poco – trasmessi su Radio Sarajevo, era solo una voce. Conobbi e sentii meglio quella voce solo successivamente, dopo aver visto Demirdžić recitare in diversi spettacoli teatrali, film e serie televisive. Com’era la sua voce? È facile descrivere ciò che si vede, ma descrivere una voce o una melodia senza cadere subito nella banalità, questa sì che è una sfida!
Provo a formulare una frase sensata? Dunque, ascoltare la voce di Demirdžić era come ascoltare la voce di qualsiasi cittadino bosniaco di una certa età che alle urla e al chiasso preferiva la gentilezza umana: far sentire la propria voce e, al contempo, ascoltare gli altri. Una voce limpida, solo leggermente arrochita. A causa del consumo di tabacco? (Eh, anche oggi in Bosnia si fuma tanto, talmente tanto che se doveste suggerire ad un fumatore impenitente di fare una pausa tra una sigaretta e l’altra, potreste facilmente essere percepiti da quest’ultimo come nemici.)
“Rejhan! Non omette mai nemmeno una singola lettera!”, diceva mio padre. (Stiano tranquilli i linguisti, mio padre sapeva bene che non si pronunciano le lettere, bensì i fonemi, ma gli piaceva richiamarsi al significato primordiale – che piace anche a me – del verbo della lingua paleoslava “sloviti”, che significa innanzitutto “govoriti” [parlare].)
Vidi per la prima volta Rejhan Demirdžić al Teatro nazionale di Sarajevo. (All’epoca era consueto – una di quelle consuetudini oggi considerate “retrive” – portare gli alunni delle ultime classi delle scuole elementari a teatro). Era il 1968? Lo spettacolo…? Non ricordo il titolo dello spettacolo, ma ricordo di aver subito riconosciuto la voce di Rejhan. Una volta tornati nella mia città natale, entrai in casa correndo e gridai di aver visto Rejhan… Come sul palmo di una mano!
Poi arrivò il 1969 e la serie televisiva “Karađoz” [1] che tenne incollata allo schermo l’intera Bosnia (e probabilmente anche l’Erzegovina), tanto che i ladri – che all’epoca erano pochi, ma veri, non come quelli attuali, “democratici” – potevano entrare in qualsiasi casa senza che nessuno se ne accorgesse. Ma non lo facevano, probabilmente perché anche loro preferivano concedersi una risata guardando Rejhan Demirdžić nel ruolo di Husametin-beg e Aleksandar Mičić nel ruolo di Fistik. Così Rejhan e altri protagonisti della serie entrarono nelle nostre case come ospiti benvoluti che ci regalavano sorrisi – come un dono e un piacere… Demirdžić fu anche co-sceneggiatore, insieme a Juroslav Korenić, della serie “Karađoz”. All’epoca in pochi sapevano che, prima di cimentarsi nella realizzazione di questa serie, Demirdžić, sempre in collaborazione con Korenić, aveva scritto un dramma intitolato “Varalica Fistik” [L’imbroglione Fistik], ispirato alla commedia “Les fourberies de Scapin” di Molière. Messo in scena al Teatro nazionale di Sarajevo, “Varalica Fistik” fu accolto dal pubblico con evidente simpatia.
Il linguaggio arcaico e l’idea alla base della serie “Karađoz” furono percepiti dai vertici della Televisione Sarajevo (allineati al potere tanto da piegarsi alle opinione del Comitato centrale della Lega dei comunisti della Bosnia Erzegovina) in un’ottica ideologica. Pur suscitando ancora oggi molte simpatie, la serie “Karađoz” non è mai stata riproposta. È strano l’atteggiamento della Televisione Sarajevo nei confronti del patrimonio culturale bosniaco: questa emittente non considera “Karađoz” come una serie molto amata dal pubblico, bensì come un prodotto kitsch. Io la definirei una serie insolita, una favola, una fantasticheria, che fu trasmessa al momento giusto.
“A quel tempo venivano mandate in onda le serie che parlavano di temi di attualità e Jurislav Korenić e io cercammo di creare una storia orientale, adattandola poi al contesto bosniaco, quindi vi è un bey bosniaco, e non istanbuliota. Inoltre, molti attori sarajevesi riuscirono a ‘rompere il ghiaccio’ proprio grazie a questa serie”, dichiarò Demirdžić in un’intervista rilasciata alla rivista Nada nel 1982.
Rejhan, vita e opere
Rejhan Demirdžić nacque il 2 gennaio 1927 a Sarajevo. Morì, improvvisamente, nella sua città natale il 22 agosto 1988. Era la prova vivente del fatto che i migliori attori non si formano solo alle accademie, ma anche grazie alle proprie esperienze individuali e all’interazione con il mondo in cui vivono. “Ero ancora un ragazzino in pantaloncini corti quando interpretai il mio primo ruolo. Era il 1943, avevo sedici anni. ‘Lako je muškarcima’ [Per gli uomini è facile], era questo il titolo dello spettacolo, scritto dallo scrittore ungherese Pál Barabás e diretto da Lidija Mansvjetova, che aveva aperto una scuola di recitazione. Furono anni di guerra, ero solo un bambino, ma mi piaceva recitare…”, affermò Rejhan Demirdžić in un’intervista.
Nel periodo tra il 1945 e il 1955 Rejhan recitò nei teatri di Šabac, Titovo Užice e Niš. (In un’occasione dichiarò che in quelle città della Serbia lo ricordavano meglio che a Sarajevo e nell’intera Bosnia.) Poi tornò definitivamente a Sarajevo. È lunga la lista delle opere cinematografiche e televisive in cui Demirdžić interpretò ruoli di rilievo, dal 1957 fino alla morte nel 1988. (I curiosi possono verificare la lunghezza di questa lista dando un’occhiata a Wikipedia.) Anche sui palcoscenici teatrali Rejhan diede vita ad una vasta gamma di personaggi. Fu capace di interpretare qualsiasi ruolo, “dal bey al piccolo delinquente di strada”, come dicevano i suoi contemporanei.
Ho chiesto allo scrittore Predrag Finci, sarajevese di nascita, di scrivere qualche riga su Rejhan. “Per tutta la vita, fin dalla prima giovinezza, Rejhan fu un attore e, come attore, era molto professionale, capace, affascinante, coinvolgente. Anche quando interpretava piccoli ruoli rimaneva impresso nella memoria del pubblico, e nei grandi ruoli fu sempre speciale, sempre diverso, ma sempre fedele a se stesso…”.
Se doveste recarvi a Sarajevo a bordo di un voz o un vlak [due termini, serbo e croato, che indicano treno] (poco importa come lo chiamano, l’importante è che giunga a destinazione), dirigendovi poi a piedi verso il centro storico e cercando di non guardare continuamente il vostro smartphone, scorgerete facilmente due grattacieli di 25 piani situati a pochi passi dall’Holiday Inn; due torri gemelle della stessa altezza, perfettamente identiche, collegate al piano terra. Prima dello scoppio della nostra guerra fratricida, le torri, costruite nel 1986 su progetto dell’architetto Ivan Štraus, ospitavano gli uffici del gigante dell’economia jugoslava Unis, che riuniva ben 88 aziende.
I due grattacieli vennero soprannominati dai sarajevesi Momo e Uzeir. Sono i nomi dei due protagonisti di un programma radiofonico umoristico intitolato “Cik Cak” ideato da Nikola Škrba. Momo, un serbo interpretato da Rudi Alvađ, un attore croato (fatto, quest’ultimo, che all’epoca era del tutto irrilevante), e Uzeir, un bosgnacco interpretato da Rejhan Demirdžić. I grattacieli erano talmente identici che non si riusciva a distinguere quale fosse “serbo” e quale “bosgnacco”.
Poi scoppiò la guerra, Sarajevo venne assediata. Momo e Uzeir (così come tante altre cose positive che gli ideologi della divisione trasformarono in una sputacchiera) divennero un lontano ricordo. Le torri furono bombardate dai “miei”: dopo l’incendio, delle strutture rivestite di vetro rimasero solo scheletri di acciaio (durante l’assedio di Sarajevo non c’era acqua sufficiente per riempire i serbatoi situati sui tetti delle due torri.)
Dopo la guerra iniziò un periodo di cambiamenti, poi questa transizione infinita e l’attesa, ancora più infinita, in sala d’aspetto di Bruxelles, del momento dell’adesione all’UE. L’azienda Unis (il nome, che portava dal 1968, deriva dal termine francese “unis” che significa uniti) venne fusa con una compagnia kuwaitiana, così nacque Unitic e le torri gemelle vennero ricostruite. Anche oggi, come nel periodo precedente alla guerra, i sarajevesi le chiamano Momo e Uzeir.
Rejhan Demirdžić è ricordato nelle testimonianze dei suoi amici e colleghi (che sono sempre meno numerosi); nell’ambito del festival teatrale MESS, organizzato a Sarajevo, è stato istituito un premio, rivolto ai giovani attori, che porta il suo nome; gli è stata intitolata anche una strada nel quartiere sarajevese di Dobrinja. Eppure alcuni miei amici sarajevesi mi dicono che le giovani generazioni conoscono sempre meno la figura e le opere di Demirdžić.
In questo articolo non ho voluto toccare questioni relative alla vita privata di Rejhan (ne hanno parlato i suoi amici e colleghi, sempre in una luce positiva), cito solo un aneddoto: quando venne a sapere che la chiesa in una città della Bačka, dove viveva una sua amica, era sprovvista della campana, Rejhan vi si recò portando con sé – una campana. Un’altra curiosità su Rejhan Demirdžić: il suo nome in arabo significa “basilico” e il suo cognome “grate di ferro” per finestre. Se fosse vissuto abbastanza a lungo per assistere alle nostre divisioni assurde e vergognose, forse – chissà? – si sarebbe rivolto all’ufficio competente per cambiare il cognome in Antidemirdžić.
[1] Il Museo Karagöz di Bursa è l’unico museo che custodisce la tradizione del teatro delle ombre turco, nato proprio nella città di Bursa sette secoli fa. Ancora oggi, cinque volte alla settimana, viene messo in scena lo spettacolo di Karagöz, la cui trama, rimasta invariata per secoli, è ispirata alla storia di Karagöz, un uomo del popolo, analfabeta, ma saggio, e Hacivat, un personaggio arrogante, convinto di essere intelligente solo perché è ricco. Nel corso della storia questo spettacolo ha spesso assunto connotazioni satiriche, venendo di conseguenza censurato. Nella regione post-jugoslava, lo spettacolo di Karagöz è stato presentato in Bosnia, Serbia e Macedonia del Nord. Oggi viene messo in scena solo in Grecia e in Turchia.
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