La Republika Srpska ha nominato due nuove commissioni internazionali il cui compito sarebbe quello di stabilire i crimini compiuti a Srebrenica e quelli compiuti contro la popolazione serba a Sarajevo. Un gruppo di accademici e vari analisti ne sottolineano gli intenti revisionisti
Nella guerra per la verità in Bosnia Erzegovina, quella che si combatte con altri mezzi a ventitré anni dalla fine del conflitto armato, sta per iniziare una nuova battaglia. Il 7 febbraio, La Republika Srpska ha ufficialmente nominato i membri di due commissioni internazionali, una dedicata alle sofferenze di tutti i popoli nell’area di Srebrenica nel 1992-95, e l’altra sulle sofferenze della popolazione serba di Sarajevo nel 1991-95.
I due organi cominceranno a riunirsi nel mese di marzo, entrambi con a capo un israeliano: Gideon Greif, docente di storia ebraica all’Università del Texas, presiederà infatti la commissione su Srebrenica e Rafael Israeli, docente di storia del Medio Oriente all’Università Ebraica di Gerusalemme, guiderà quella su Sarajevo. I membri in totale sono quattordici, provenienti da dodici diversi paesi, tra cui l’Italia. Il giornalista Giuseppe Zaccaria, già corrispondente de La Stampa e portavoce di Fiat Serbia da Belgrado, è presente in entrambe le commissioni. Tra le altre figure di spicco, i media locali segnalano la figura di Adenrele Shinaba, commissario di polizia nigeriano ed esperto di antiterrorismo. Le istituzioni della RS hanno presentato i membri come “esperti, specialisti, umanisti” attraverso i quali “si arriverà a dati e fatti rilevanti” che “tutti i popoli dovranno accettare, perché saranno rivolti alla verità e alla riconciliazione”.
Del tutto opposte sono state le reazioni dei partiti civici, di quelli bosgnacchi e delle associazioni delle vittime del genocidio del 1995, tra cui le Madri di Srebrenica, unanimi nell’accusare le autorità serbo-bosniache di minimizzare e banalizzare i crimini di guerra. Critiche sono giunte anche dall’OHR, Alto Rappresentante della comunità internazionale nel paese. Ma le condanne più dure ed argomentate sono giunte, come vedremo, dagli studiosi.
Riconoscimento
Tutte le critiche partono dallo stesso punto: i fatti sul genocidio di Srebrenica e sui crimini di guerra compiuti a Sarajevo sono stati accertati da diverse sentenze di due corti di giustizia internazionali separate, il Tribunale dell’Aja per l’ex-Jugoslavia (ICTY) e la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), oltre alla Corte bosniaca per i crimini di guerra. Oltre a queste e all’inestimabile documentazione da loro raccolta, altre iniziative avrebbero potuto essere prese in considerazione. Prima tra tutte RECOM, la coalizione di circa 2000 soggetti della società civile che da tempo propone la creazione di una commissione inter-statale e l’ascolto di tutte le vittime nella regione post-jugoslava. Questo approccio abbatterebbe la dicotomia noi/loro e diffonderebbe un principio di riconoscimento mutuo delle sofferenze, nel rispetto delle differenze delle entità dei crimini e delle responsabilità politiche.
Questo approccio avrebbe potuto essere molto utile, soprattutto nel delicato caso delle vittime serbe dei crimini a Sarajevo, che talvolta hanno subito una marginalizzazione doppia e hanno diritto a un riconoscimento. Le due commissioni invece sembrano partire da un approccio rigorosamente top-down, filo-governativo e parziale.
Suscita inoltre perplessità l’invocazione a “elementi nuovi” e a un “approccio olistico” nella ricerca sui crimini. Nel 2016, la Corte Internazionale di Giustizia rifiutò la richiesta di Bakir Izetbegović, il leader dell’SDA (nazionalisti musulmani) di riaprire il caso sul genocidio di Srebrenica. L’intento, ovviamente opposto a quello delle commissioni della Republika Srpska, era di accusare esplicitamente la Serbia per genocidio. Tuttavia l’ICJ contestò l’assenza di “nuove prove” che potessero modificare sostanzialmente la giurisprudenza e la letteratura in merito.
Diversi analisti si chiedono quale contributo innovativo possano fornire i membri delle due commissioni, figure in larga parte estranee alla comunità scientifica che si occupa della regione post-jugoslava. Restano i dubbi su cosa di più olistico possano offrire rispetto, per esempio, all’articolato rapporto sui fatti di Srebrenica dell’Istituto Olandese per la Documentazione di Guerra del 2002 (rapporto che fu, a sua volta, oggetto di critiche) o ai solidi lavori di storici come Robert Donia sugli eventi di Sarajevo e sul resto della Bosnia Erzegovina.
Una lettera firmata da circa trenta studiosi internazionali esperti dell’area post-jugoslava, pubblicata la scorsa settimana e con primo firmatario il politologo Eric Gordy, definisce le due commissioni “parte di uno schema di deliberata revisione di verità già stabilite”, in un “contesto di appropriazione strumentale della storia”. Nel riesaminare la storia delle decine di commissioni per la verità storica create nel mondo negli ultimi 50 anni, la lettera individua vari fattori per il loro successo: un desiderio sincero per la verità, una legittimità popolare, un impegno per l’imparzialità e la precisione, un orientamento genuino per la riconciliazione. “Le due commissioni risultano insufficienti in tutti questi ambiti”, è il giudizio netto degli studiosi firmatari, che vi intravedono piuttosto “una strategia per trasformare le sofferenze legittime in uno strumento per banalizzare le sofferenze subite dagli altri”.
Un giudizio altrettanto duro viene dall’IFIMES (Istituto per gli studi su Medio Oriente e Balcani), che in un recente rapporto si concentra con preoccupazione sulla posizione dei due professori israeliani, Gideon Greif e Raphael Israeli. Il rapporto illustra la crescita preoccupante dell’antisemitismo in Unione europea, fomentato a sua volta da un crescente negazionismo sulla Shoah. Secondo l’IFIMES, Greif (che è uno specialista della storia della Shoah, da trent’anni collaboratore del Memoriale dell’Olocausto Yad Vashem; si è occupato anche del campo di sterminio croato di Jasenovac) e Israeli rischiano di legittimare non solo il revisionismo nei Balcani, ma anche una più generale ondata di negazionismo culturale e legale.
Sfidare apertamente il corso della giustizia internazionale contraddirebbe gli sforzi ancora in corso – e non sempre ripagati - dei Centri Wiesenthal per fare processare i criminali nazisti ancora in vita. Il coinvolgimento di Greif e Israeli riporta alla mente il caso di Efraim Zuroff, il direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, che nel 2015 scatenò molte polemiche al negare fermamente la natura genocidaria del crimine di Srebrenica. Quella voce, all’epoca, era apparsa isolata all’interno della comunità scientifica ebraica.
Passi indietro
La creazione delle commissioni su Srebrenica e Sarajevo segue la decisione del parlamento della Republika Srpska, approvata il 14 agosto scorso – in piena campagna elettorale - con cui si annullava il “Rapporto su Srebrenica” del 2004. Quest’ultimo aveva ammesso i crimini dell’esercito serbo-bosniaco attingendo dalla documentazione usata dal Tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY). Il rapporto del 2004 fu ampiamente considerato uno dei passi più importanti nel tentativo di avvicinare verità storica, riconoscimento e riconciliazione sociale in Bosnia Erzegovina.
Quell’approccio è stato del tutto abbandonato negli ultimi anni. Il potere in Republika Srpska, con Milorad Dodik al suo vertice, sta conducendo una linea apertamente revisionista sui crimini degli anni Novanta. Le ragioni sono diverse: al di là dell’effetto-propaganda immediato, l’obiettivo a lungo termine è quello di legittimare la continuità storica della Republika Srpska, giustificandone non solo l’autonomia ma anche una futura possibile rivendicazione d’indipendenza. Radovan Karadžić, Ratko Mladić e tutti i vertici storici della Republika Srpska vengono elevati a padri della patria, autori di una grande operazione di legittima difesa comunitaria, anziché di pulizia etnica. Il fatto che nel 2016 Dodik abbia intitolato la casa degli studenti universitari di Pale a Radovan Karadžić, o nel 2017 abbia definito Mladić “un eroe” all’indomani della sua condanna all’ergastolo all’Aja, dimostra quanto questo processo sia ormai consolidato.
Karadžić e Mladić sono attualmente imputati nei processi di secondo grado della giustizia internazionale, in carica al MICT . La sentenza definitiva di Karadžić avverrà il 20 marzo prossimo, quella di Mladić probabilmente sarà nel 2020. Anche se difficilmente produrranno risultati in tempi brevi, le commissioni su Srebrenica e Sarajevo funzioneranno anche come strumento di pressione a favore degli imputati. Una mitigazione delle loro condanne accelererebbe il processo di eroizzazione.
Revisionismo e zeitgeist sovranista
In questa vicenda non va dimenticato il fattore internazionale. È noto che da tempo Milorad Dodik cerca spazio nello zeitgeist ultra-sovranista europeo. Proprio qualche giorno fa, l’attuale co-presidente della Bosnia Erzegovina e leader del partito SNSD ha incontrato a Vienna alcuni rappresentante del FPO austriaco, attualmente al governo a Vienna, e della Lega Nord italiana - era presente Dante Cattaneo, futuro candidato del carroccio al Parlamento Europeo, -. I media bosniaci hanno dato ampio risalto alla visita, in cui i rappresentanti dei tre partiti avrebbero raggiunto un accordo di cooperazione sui temi della crisi migratoria e della difesa dei valori cristiani europei.
La relativizzazione del massacro di Srebrenica è parte della macro-narrazione sulla “dorsale verde”, ovvero la presunta penetrazione islamista nei Balcani a cui il nazionalismo serbo-ortodosso avrebbe, a suo modo, messo un freno. È un tipo di discorso che da sempre esercita un grande fascino tra i movimenti identitari di destra, ma anche nel più trasversale universo culturale cosiddetto anti-imperialista e anti-liberal, che si apre continuamente nuovi spazi in Europa. Dodik sembra cosciente che l’offensiva revisionista su Srebrenica ha un capitale simbolico anche in ambito internazionale, ed è probabile che lo userà per inserirsi sulla mappa mondiale dell’onda reazionaria.
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