La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato la Bulgaria per l'estradizione nel 2016 di un giornalista turco, consegnato in tutta fretta alle autorità turche che lo accusavano di far parte del movimento di Fehtullah Gülen, in violazione delle norme nazionali e internazionali
14 ottobre 2016, due di notte. I doganieri bulgari e rumeni stazionati al passaggio di frontiera di Ruse – Giurgiu sul Danubio ispezionano un camion col rimorchio proveniente dalla Turchia. Durante il controllo, emerge uno spazio nascosto ricavato all'interno del veicolo. Dentro, ci sono nove persone, che tentavano di passare il confine dirette, si scoprirà più tardi, in Germania.
Tra i nove c'è anche D., cittadino turco, giornalista, in fuga dalle campagne di repressione scatenate in Turchia dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016 contro il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Dopo essere stato fermato, D. tenta di chiedere protezione alle autorità bulgare, che però, in violazione delle leggi nazionali, sembrano fare di tutto per ignorare la richiesta e rispedirlo al più presto possibile in Turchia. Nella prima mattina del 15 ottobre, a poco più di ventiquattro ore, dal suo fermo D., in manette, viene portato al confine bulgaro-turco di Kapitan Andreevo, e lì consegnato alla forze di polizia turche.
Su questo episodio controverso si è espressa lo scorso 20 luglio 2021 la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU), condannando la Bulgaria ad una pena pecuniaria di 15mila euro per non aver saputo o voluto salvaguardare il diritto di D. a vedere esaminata la propria domanda di asilo e aver ignorato i rischi a cui veniva così esposto.
Dalla sentenza della CEDU emergono numerose informazioni aggiuntive sulla vicenda. D. (il nome del protagonista della vicenda non viene mai citato in forma completa), classe 1985, ha lavorato come corrispondente dalla città di Bozova per il quotidiano “Zaman” e l'agenzia “Cihan”, entrambi parte del “Feza Media Group”, associato alla figura del leader religioso Fethullah Gülen, secondo le autorità turche la mente dietro il tentato golpe del luglio 2016.
Nel marzo 2016, dopo che il gruppo editoriale era stato messo di fatto sotto il controllo governativo attraverso una sentenza del tribunale, D. era stato licenziato, e la sua tessera di giornalista ritirata. Dopo il fallito colpo di stato, secondo le dichiarazioni di D., la polizia aveva iniziato a cercarlo, e per questo aveva cambiato indirizzo, per decidere infine di abbandonare il paese e cercare rifugio in Germania attraverso la penisola balcanica.
D. non avrebbe quindi avuto inizialmente l'intenzione di chiedere protezione in Bulgaria, ma una volta fermato dalla polizia a Ruse, avrebbe espresso più volte le proprie preoccupazioni sulla prospettiva di essere rimpatriato, chiedendo di poter parlare con un avvocato e di avere a disposizione un interprete, ma entrambe le richieste sono state negate.
Secondo la Corte, “a causa della fretta [nel rimpatriare D.] e del mancato rispetto delle procedure di legge, D. è stato privato della necessaria valutazione del rischio relativo alla sua consegna alle autorità turche”. Inoltre, l'ordine di espulsione sarebbe stato presentato a D. solo in versione bulgara, senza alcuna traduzione, rendendo così impossibile sia la comprensione di quanto stava accadendo, si la possibilità di presentare ricorso.
La stessa CEDU ha quindi sentenziato all'unanimità che la Bulgaria ha violato sia l'articolo 3 (divieto di tortura, pene e trattamenti inumani o degradanti) che l'articolo 13 (diritto di ricorso effettivo alla giustizia) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, condannando il paese a risarcire il giornalista.
D., nel frattempo, nel dicembre 2019 è stato condannato a sette anni e mezzo di reclusione, con l'accusa di far parte dell'organizzazione terrorista di Gülen, ed è attualmente recluso nella prigione di Kandıra in attesa di ricorso.
La vicenda di D. si inserisce in un contesto più ampio in cui, a partire dal fallito golpe del 2016, le autorità bulgare hanno mostrato estrema sensibilità e solerzia nel rispondere alle richieste di “collaborazione” da parte turca nel perseguire e rimpatriare soggetti sospettati di militare nell'organizzazione di Gülen, o comunque di essere oppositori al regime politico del presidente Erdoğan.
Una collaborazione ai limiti o oltre i limiti del diritto nazionale e internazionale: secondo un'indagine della rivista tedesca Der Spiegel, pubblicata nel settembre 2020, l'ex premier bulgaro Boyko Borisov e l'ex procuratore generale Sotir Tsatsarov avrebbero collaborato attivamente con l'ambasciata turca a Sofia per rimpatriare cittadini turchi in fuga per motivi politici. Accuse rispedite però al mittente dai diretti interessati.
Difficile dire con certezza quanti cittadini turchi siano stati respinti dalla Bulgaria negli ultimi anni, visto che una parte non indifferente sono stati probabilmente mandati indietro attraverso gli accordi di riammissione firmati tra Unione europea e Turchia nel marzo 2016.
Secondo le statistiche del ministero degli Interni di Sofia, riportate dal portale Svobodna Evropa, se nel 2015 le espulsioni erano state 49, nel 2016 queste sono salite a 90, per toccare il punto massimo nel 2019, quando hanno raggiunto le 108 unità.
Al momento alla Corte europea dei diritti dell'uomo pende un altro caso simile a quello di D., che riguarda l'imprenditore Adbullah Büyük, estradato in tutta fretta dalla Bulgaria in Turchia il 10 agosto 2016. Anche Büyük viene considerato vicino al movimento di Gülen.
Riferendosi all'espulsione di Büyük, lo stesso Borisov, allora primo ministro, dichiarò di avere “la spiacevole sensazione, che si sia agito ai limiti della legalità”. Pur negando che le azioni da parte bulgara fossero dettate dalla necessità di “proteggere” il paese da eventuali nuove ondate di rifugiati provenienti dalla Turchia, Borisov ha parlato all'epoca di “terribile vulnerabilità” della Bulgaria nei confronti del vicino turco.
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