Boris Buden (foto H-Alter)

Boris Buden (foto H-Alter )

“L’idea di rivoluzione implica una concezione diversa della democrazia”. Boris Buden, scrittore, traduttore e attivista, parla a tutto tondo di rivoluzione, resistenza, stato della democrazia, guerra e migrazioni nel "cosiddetto Occidente"

05/09/2024 -  Vesna Janković

(Originariamente pubblicato da H-Alter )

Nell’ambito della 17° edizione del Subversive festival, tenutasi di a luglio a Zagabria, lei ha tenuto conferenza  dal titolo “Nel vicolo cieco della critica disarmata: Come abbiamo respinto l’idea di rivoluzione?”. Nel frattempo, si sono svolte le elezioni europee, da cui l’estrema destra, come atteso, è uscita rafforzata. Assistiamo ad un’escalation della guerra in Ucraina e del conflitto israelo-palestinese, i cambiamenti climatici si stanno intensificando, e la sinistra europea sembra smarrita. In questo contesto, come possiamo anche solo concepire la rivoluzione?

Non sono un politico e non guido un partito rivoluzionario, quindi la domanda che mi pongo è: perché abbiamo rinunciato all’idea di una svolta radicale e immediata in un momento, come quello attuale, in cui i conflitti si stanno intensificando e lo spettro di una catastrofe nucleare incombe sull’umanità, minacciando di distruggerla in un batter d’occhio? Un momento in cui siamo anche alle prese con il riscaldamento globale, tanto che la maggior parte degli scienziati climatici, anziché un aumento della temperatura globale di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali – come concordato a Parigi nel 2015 – prevede un aumento di 2,5°C, se non addirittura di 3°C. Se queste previsioni si dovessero avverare, la vita sulla terra cambierebbe drasticamente. Non penso solo al caldo, ma soprattutto al fatto che due miliardi di persone saranno costrette a lasciare la cosiddetta nicchia climatica dell’uomo, cioè l’area in cui si è sviluppata la civiltà umana negli ultimi diecimila anni. Quindi, parliamo di migrazioni di massa, fame, conflitti politici, guerre per le risorse naturali… È evidente che stiamo sprofondando nell’abisso e nessuno ha idea di come evitare il disastro. Si discute invece di come vincere in Ucraina, anche se nessuno ha una risposta a questo interrogativo.

Perché abbiamo smesso di pensare la rivoluzione?

Nel corso della conferenza ho esposto una serie di ragioni per cui l’idea di rivoluzione è stata estirpata dalle nostre menti. Non è semplicemente scomparsa, è stata cancellata da una politica radicale e controrivoluzionaria che viene portata avanti da molto tempo ormai, sin dalla Rivoluzione d'ottobre. L'interesse che muove questa politica, attuata in modo sistematico, è la sopravvivenza dei rapporti capitalistici, o meglio la sopravvivenza del capitalismo ad ogni costo, anche rischiando di distruggere non solo l’ambiente, ma l’intera umanità.

L'idea di rivoluzione implica anche una concezione diversa della democrazia che vada oltre il concetto di liberaldemocrazia dei partiti, trascendendo tutte quelle categorie che stanno crollando davanti ai nostri occhi, compresa la distinzione – caratteristica della realpolitik – tra sinistra e destra.

La guerra in Ucraina ne è un chiaro esempio. Oggi la destra marcia sotto la bandiera della pace e la sinistra incita alla guerra. La situazione è caotica, ma non per questo dobbiamo seguire la destra per raggiungere la pace, né tanto meno dobbiamo seguire la sinistra per vincere la guerra. Si tratta di comprendere che l’attuale sistema di democrazia capitalista – con i suoi partiti di sinistra, centristi e di destra – non è capace di fermare la guerra né di creare i presupposti per una pace duratura, anche solo limitandosi a seguire l’ideale della pace perpetua di Kant.

La questione guerra o pace è strettamente legata al nostro rapporto con la natura. Per salvare l’umanità non basta iniziare a rispettare la natura se, al contempo, continuiamo a fare le guerre tra di noi. Oggi più che mai è chiaro che queste dinamiche sono interconnesse. Pur trovandoci di fronte a sfide enormi – si tratta letteralmente della sopravvivenza dell’umanità – abbiamo nullificato le nostre capacità cognitive e immaginative. La nostra immaginazione politica e sociale è del tutto impotente di fronte alla scelta tra una sinistra che porta alla guerra fino all’ultimo uomo e una destra che porta ad una pace che equivale al perpetuarsi della distruzione capitalistica dell’ambiente e della società e a ulteriori violenze nazionaliste, scioviniste e razziste contro gli “altri”.

Supponendo che spetti alla sinistra avviare una svolta radicale, come commenta il fatto – sottolineato da molti analisti – che la destra è riuscita a intercettare meglio i bisogni di quelle classi sociali che un tempo costituivano il nocciolo duro dell’elettorato di sinistra?

Quelli che erano gli ideali tradizionali di sinistra – giustizia sociale, solidarietà, pace, contestazione della guerra capitalista – oggi, assumendo una forma distorta, appaiono come il risveglio del soppresso nelle politiche di destra attraverso un nazionalismo, ossia un razzismo sempre più palese non solo a livello degli stati nazionali, ma anche sotto forma di sovranità post-nazionale, come in quel blocco identitario e normativo che chiamiamo Occidente.

L’Occidente è un concetto razzista che permette non solo la riproduzione sovranazionale dei rapporti di egemonia e di dominio, ma anche la guerra per le risorse e una gestione violenta delle conseguenze catastrofiche della globalizzazione capitalista, conseguenze che si palesano, ad esempio, nel fenomeno migratorio.

Vediamo che in Germania l’AfD e i partiti centristi – CDU e CSU – concordano sullo smantellamento dello stato sociale e la sua trasformazione in quella che viene chiamata “società fredda”, sforzandosi, insieme ai liberali, di portare a termine il progetto della deregolamentazione neoliberista di ogni aspetto della vita.

La destra non è monolitica, ha molteplici progetti, però se oggi vive un’ascesa senza precedenti è grazie alla sinistra e alla sua decisione di rinunciare all’idea di una svolta e una critica radicale al capitalismo.

Quindi, una rivoluzione, per avere successo, deve essere globale?

Esatto, solo che oggi la dimensione globale è immersa nella fascinazione per la geopolitica e per i blocchi identitari e normativi. Non mi riferisco solo all’Occidente. C’è anche il cosiddetto “mondo russo”, visto come una sorta di alleanza, altrettanto monolitica, dei cosiddetti paesi antioccidentali, poi la Cina, l'Iran, ecc. L’idea è quella di un mondo multipolare che dovrebbe essere più giusto e più eguale. Nessuno però mette in discussione il carattere capitalista di questo mondo multipolare. Forse per questo la sinistra anticapitalista è totalmente estranea ai conflitti attuali. Sembra che il suo vecchio progetto di internazionalismo non sia traducibile nel linguaggio della geopolitica contemporanea, cioè della globalizzazione capitalista – unipolare, bipolare o multipolare che sia.

D’altra parte, la sinistra mainstream, i verdi e i socialdemocratici stanno ancora cercando di cavalcare l’onda guerrafondaia dell’Occidente capitalista e liberale, pretendendo di difendere la democrazia dalle cosiddette “autocrazie” antioccidentali. Questa sinistra si è schierata a fianco dei suoi leader, Biden e Netanyahu, ed è pronta a seguirli fino all’Armaggedon nucleare. Per la sinistra mainstream è più facile innescare una terza guerra mondiale che proporre un’idea politica per porre fine ai conflitti che infuriano in Ucraina e Palestina.

Se oggi è chiaro che il progetto di due stati separati, uno palestinese e l’altro ebraico, non potrà mai essere realizzato, allora qual è l'alternativa? La guerra fino alla distruzione di una delle due identità contrapposte? Il genocidio contro l’una o l’altra parte coinvolta è davvero l’unica soluzione? Sembra di sì. Per questo il cosiddetto Occidente, compresa la sua sinistra mainstream, avendo accettato il genocidio come soluzione, sostiene la parte più forte affinché lo faccia il prima possibile.

Lo stesso vale per l’Ucraina. L’Occidente è pronto a difendere, fino all’ultimo ucraino, un ordine fondato sul diritto internazionale, cioè sull’idea di sovranità degli stati nazione, pur avendo in passato calpestato quell’idea ogni volta che se ne presentasse l’occasione, ignorando il diritto internazionale e distruggendo l'ordine su di esso fondato. Come possiamo fidarci di chi afferma che l’Occidente vuole difendere i confini esistenti in Europa se quello stesso Occidente ha più volte ridisegnato i confini?

Se è vero che Putin e la sua cricca nazionalista e imperialista altro non sono che una banda criminale, che ha iniziato questa guerra assurda, è anche vero che non hanno fatto nulla che l’Occidente non abbia fatto prima. Non vi è alcuna differenza sostanziale tra quello che accade oggi in Ucraina e in Palestina e quello che è accaduto in Iraq, Afghanistan e Siria. Sono tutte guerre di demarcazione definitiva tra i blocchi capitalisti, dove questi ultimi stabiliscono i propri confini come luoghi di caos, illegalità, devastazione economica, politica e morale, teatro di crimini e genocidi di cui nessuno sarà chiamato a rispondere.

Da anni ormai assistiamo ad una simile guerra di demarcazione anche ai confini della Croazia, dove la destra croata ora vuole schierare l’esercito per fermare i migranti. Come incidono le dinamiche globali sulla situazione nella nostra regione?

Quella che noi chiamiamo regione altro non è che un groviglio di confini, uno spazio tagliato in due da Schengen, cioè dalla frontiera tra l’UE e il resto del mondo, poi ulteriormente diviso dai confini tra gli stati apparentemente sovrani, e infine dai confini etnici, religiosi, linguistici e altri ancora.

In questo caso non ha senso parlare di stati sovrani. Tutti i paesi della regione post-jugoslava sono relegati ad una posizione di dipendenza neofeudale da istanze di potere superiore, sia che di tratti di Bruxelles, membri potenti dell’UE (come la Germania), NATO, Stati Uniti o quello che viene definito Occidente, anche se nessuno sa realmente cosa sia.

Nessuno dei paesi della regione è economicamente indipendente. Può forse esserci democrazia senza indipendenza? Parliamo di una realtà che non è fondata su alcun ordine, bensì sul disordine e sul caos. Abbiamo due stati (e mezzo) albanesi con uno status indefinito. C’è l’ultimo rimasuglio della Macedonia, la cui sopravvivenza viene messa in discussione da tutte le parti. C’è poi la Serbia che vuole compensare la perdita di una sua regione dividendo un paese vicino e appropriandosi di una delle sue parti. La Bosnia Erzegovina può avere un futuro in mezzo a tutto questo caos? Non credo.

Parliamo di un insieme di paesi in cui, come ho accennato prima, non vige alcun ordine, bensì un regime che io chiamo Pax Americana, non solo perché tutte le frontiere e le relazioni tra i popoli della regione sono state concordate negli Stati Uniti, ma anche perché questo caos ricorda la situazione in Libia, Siria, Iraq e Ucraina, paesi che non possono più essere considerati stati-nazione funzionali. Queste nazioni non sono state “liberate” per permettere loro di essere sovrane, bensì per un motivo diametralmente opposto, ossia per relegarle ad una posizione subordinata nel rapporti neofeudali di dominio globale. Questo non è un ordine fondato sul diritto internazionale, è un bilanciamento tra paura e potere in uno stato di violenza, temporaneamente sospesa, che potrebbe esplodere nuovamente in qualsiasi momento.

Secondo una delle interpretazioni che circolano, le guerre attualmente in corso sarebbero frutto del desiderio degli Stati Uniti di mantenere l’egemonia, ormai vacillante, a livello globale…

Magari si trattasse di quella logica ciclica relativa alla nascita, l’ascesa e la caduta dei grandi imperi, come quello romano. Purtroppo, viviamo sotto la minaccia di una guerra nucleare. Non si tratta del crollo di un impero che verrà soppiantato da un altro. Quanto sta accadendo potrebbe rivelarsi “la soluzione finale” per tutti noi.

Quanto all’egemonia statunitense, Immanuel Wallerstein fa risalire l’inizio del declino agli anni Settanta del secolo scorso. Gli USA sono stati l’unica potenza egemone solo nel periodo tra il 1945 e il 1970. A differenza di quanto credono in molti, il crollo dell’Unione sovietica e dell’intero blocco orientale non ha portato al ripristino dell’egemonia degli Stati Uniti che non solo sono stati colti impreparati dal crollo del comunismo, ma nemmeno lo auspicavano.

Secondo Wallerstein, la fine dell’Urss non ha fatto che indebolire ulteriormente gli Stati Uniti, rafforzando il multipolarismo. Questo processo ha subito una forte accelerazione dopo il 2001 e il fallito intervento militare di Bush in Iraq. In fin dei conti, gli USA sono una potenza militare che continua a perdere le guerre, lasciando dietro di sé il caos. Il Vietnam se l’è cavata anche bene, ma come hanno ridotto l’Afghanistan e l’Iraq? Che fine farà l’Ucraina, che ha già subito danni irrimediabili? Questo non giustifica affatto Putin e la Russia, tutt’altro! Putin ha imparato fin troppo bene dall’esempio dell’Occidente, questo è l’aspetto più preoccupante. Tutto quello che la Russia di Putin ha fatto in Ucraina, il cosiddetto Occidente lo ha già fatto prima: interventi militari che violano il diritto internazionale, calpestano la sovranità e l’integrità territoriale di altri stati, occupazioni illegittime, modifiche dei confini in Europa e non solo, distruggendo interi paesi e l’ordine esistente basato sul diritto internazionale. E quando non li compie direttamente, l’Occidente sostiene apertamente crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e persino potenziali genocidi.

In questo contesto, qual è la posizione della Corte internazionale di giustizia e del Tribunale penale internazionale, organismi che dovrebbero garantire la giustizia internazionale?

Quando la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto contro Vladimir Putin, accusato di aver deportato bambini ucraini in Russia, Gordon Brown, ex primo ministro britannico e membro del Partito laburista, ha accolto con favore la decisione della Corte, definendola un grande passo in avanti nella giustizia internazionale, elogiando il Sudafrica per non aver invitato Putin ad un incontro dei BRICS a Johannesburg.

Perché oggi Brown non scrive qualcosa su Netanyahu? Solo a Gaza gli israeliani hanno ucciso quasi quattordicimila bambini e il Sudafrica ha denunciato Israele per genocidio. Oggi Gordon Brown e l’intero Occidente tacciono. Perché l’ex premier britannico non scrive qualcosa su Biden che introduce, o minaccia sanzioni contro la Corte internazionale di giustizia e il Tribunale penale internazionale dell’Aja?

Gli Stati Uniti, come il resto dell’Occidente, in linea di massima sono “impunibili” davanti ai tribunali internazionali. Se non c’è uguaglianza davanti ai tribunali, non può esserci nemmeno giustizia. Come ci possiamo aspettare che la giustizia internazionale sia fatta da quelli che si pongono al di sopra delle sue leggi e puniscono le sue istituzioni?

La Russia di Putin, invece di contrastarla, sfrutta questa devastante logica dell’ingiustizia per realizzare i propri interessi imperialisti. “Se loro possono distruggere e uccidere impunemente, lo possiamo fare anche noi”. Non vi è nulla di difensivo nell’invasione russa dell’Ucraina, né tanto meno si può parlare di principi nel senso della difesa dell’ideale di un ordine mondiale più giusto e multipolare. Si tratta si mera distruzione, esteriore e interiore.

Oggi più che mai emerge l’ipocrisia dell’Occidente, in un momento in cui le democrazie occidentali sono travolte dalla censura, accompagnata da una recrudescenza del razzismo, non solo a destra. Mi viene in mente l’affermazione del socialista Josep Borrell sull’idilliaco giardino europeo, circondato da una giungla. Allo stesso tempo, i punti di vista del Sud globale – che si differenziano in modo significativo dalle posizioni europee e americane – sono assenti dai media. Lei come commenta questa situazione?

Il senso dell’importanza dell’Europa – che negli anni ‘90 era talmente forte che sembrava che l’Europa fosse la soluzione a tutti i nostri problemi – è completamente svanito. Le nostre élite liberali sono le uniche a invocare ancora uno “stato normale e ordinato” che secondo loro già esiste da qualche parte in Europa e in Occidente, ad esempio in Germania. Al contempo, queste élite insistono sulla cosiddetta “differenza di civiltà”, ossia sulla distinzione tra noi, persone civili, e i barbari, tra un’élite destinata a governare e quelli che non sono capaci né meritano di governare nemmeno se stessi.

L'idea di transizione post-comunista, ossia di allargamento dell’UE ad est, segue fedelmente il paradigma di quella “differenza di civiltà”, anziché il principio di solidarietà e uguaglianza. L’altra faccia di questo processo è la cosiddetta accumulazione originaria del capitale, ovvero l’espropriazione e la privatizzazione dei beni statali o – come nel caso dell’ex Jugoslavia – dei beni comuni.

Dal punto di vista politico, assistiamo al processo di instaurazione di rapporti neofeudali, intesi come forma di sovranità post-nazionale, dove tutto il potere è concentrato nelle mani delle élite burocratiche del centro, strategicamente posizionate all’interno delle istituzioni, reali o fittizie, di potere globale, da Bruxelles al Pentagono, dal Fondo monetario internazionale alla NATO, passando per il presidente francese, il premier britannico, il ministro tedesco delle Finanze e quello dell’Economia, fino al cosiddetto Occidente.

Il rapporto tra gli stati nazionali delle periferie d’Europa, come la Croazia, e le élite del centro è paragonabile al rapporto tra gli ex vassalli e i loro signori feudali. Per quelli che aspettano ancora di entrare nell’UE, pensando che tale passo possa risolvere tutti i loro problemi, l’Europa rappresenta ancora un ideale. Un’Europa che non riesce più a ritrovare la propria grandezza svanita, se non in quello sguardo acritico dall’esterno di cui peraltro gode perversamente. Se centinaia di migliaia di cittadini ucraini muoiono per quella Europa e quella NATO, allora forse l’Europa e la NATO davvero valgono qualcosa. E cosa otterranno dall’Europa e dalla NATO tutte quelle vedove e orfani quando usciranno dalle macerie? Un bel niente.

È proprio l’atteggiamento nei confronti della guerra in Ucraina a rispecchiare tutta l’impotenza politica dell’Europa…

L'Europa è ormai un ideale svanito, espulso dalla scena politica mondiale dal cosiddetto “Occidente”, cioè da un soggetto oscuro coinvolto in una miriade di attività: esporta la democrazia, arma se stesso e gli altri, impone sanzioni, rovescia i regimi, combatte le guerre. Però non conosciamo l’identità di questo soggetto.

Quando, nell’aprile 2022, sembrava che la guerra potesse essere fermata – l’Ucraina e la Russia erano ad un passo dal raggiungere un accordo di pace a Istanbul – Boris Johnson, recatosi improvvisamente a Kyiv, avrebbe detto a Zelensky: “The West is not yet ready for peace” [l’Occidente non è ancora pronto per la pace]. Il problema non è la prontezza dell’Occidente per la guerra o per la pace, ma chi ha legittimato Boris Johnson a parlare a nome di un soggetto chiamato Occidente. Lo abbiamo forse scelto noi? Chi ha legittimato quell’uomo a parlare a nome di centinaia di milioni di persone? Tutti i membri del suo governo lo consideravano un bugiardo e ciarlatano. Dominic Cummings, un suo ex consigliere, lo ha chiamato proprio così, definendo l’Ucraina “un porcile corrotto”.

Io mi chiedo: come siamo arrivati al punto in cui i ciarlatani e i bugiardi, senza alcuna legittimità democratica, decidono della vita e della morte di centinaia di migliaia di persone? È questa la democrazia che Boris Johnson, come rappresentante dell’Occidente, protegge dall’autocrate Putin?

Da tempo ormai si parla – utilizzando un eufemismo – di “deficit democratico” nell’UE. Però negli ultimi due anni la situazione è rapidamente deteriorata. Lei come vede oggi la cosiddetta “democrazia occidentale”?

L'Occidente non è una democrazia: la mera somma di democrazie parlamentari non è di per sé una democrazia. Quanto alla giustizia, l’Occidente – come accennato prima – è un esempio di impunità assoluta, può distruggere e uccidere impunemente. Ma chi gli ha dato il diritto di farlo? Siamo stati noi a dargli questo diritto attraverso un processo democratico? I criminali di guerra dell’ex Jugoslavia, che hanno scontato 10-15 anni di carcere per “bombardamenti indiscriminati”, ora guardano cosa sta accadendo a Gaza e chiedono: “Aspetta un attimo, io non ho ucciso nemmeno un centinaio di bambini e ho scontato quindici anni, e questi ne hanno ucciso diverse migliaia, e continuano a uccidere, ma nessuno reagisce?”. Quindi, la nostra intera storia postbellica, basata sulla giustizia e sulla punizione dei criminali di guerra, indipendentemente da quale parte stessero, è stata cancellata. Viviamo nell’illegalità, lasciati alla mercé della volontà arbitraria dei potenti.

Tra gli ospiti dell’edizione 2024 del Subversive Festival c’era anche Angela Davis  secondo cui l’Europa vive ancora nell’illusione di essere un continente bianco…

Se l’Europa ancora considera se stessa un continente bianco vuol dire che vive nel passato. L’Europa non ha un futuro come continente bianco, non solo a causa dell’impossibilità di un rilancio demografico, ma anche per via della provincializzazione di tutti gli aspetti della vita, compreso quello economico. L’Europa non riesce più a tenere il passo con le altre regioni del mondo che stanno progredendo tecnologicamente ed economicamente ad un ritmo molto più veloce.

Il trauma di questa decadenza, perdita di superiorità, emarginazione e provincializzazione politica è il serbatoio emozionale da cui la destra trae energia per la sua propaganda razzista. Però questo risentimento è autodistruttivo. L’unico possibile futuro dell’Europa è quello che trascende l’idea del “continente bianco”. Dopotutto, il bianco non è il colore della pelle. Il bianco è potere, dominio, sfruttamento. È sinonimo di impunità e ingiustizia. Questo è il punto.

Non è assurdo che questa illusione persista nonostante l’Europa non possa sopravvivere economicamente senza il lavoro migrante, come dimostra anche il caso della Croazia?

L'Europa di oggi non può sopravvivere senza l’immigrazione, e quindi senza la politica e la biopolitica dei confini. Non si tratta di chiudere i confini, come pensa la destra che vorrebbe schierare l’esercito lungo le frontiere, seguendo la logica della securitizzazione di ogni aspetto della vita sociale. Le frontiere sono un filtro, tutto dipende da chi le controlla e per quali interessi, chi può passare e chi viene bloccato. Del resto, i confini tra bianco e non bianco, presenti ovunque in Europa, oltre a stabilire le differenze culturali, regolano il rapporto tra lavoro e capitale, cioè i rapporti di classe. Sono i luoghi in cui l’Europa esprime la sua aggressività e violenza passiva e attiva. È lungo questi confini che l’Europa oggi porta avanti le sue guerre, non solo in Ucraina, anche nei Balcani, in Libia, Siria, Iraq. Qui tutti i nostri sentimenti morali si sono affievoliti, a partire dal senso di solidarietà, empatia e obbligo morale nei confronti delle persone in difficoltà. Ormai siamo abituati alle immagini di migliaia di cadaveri che galleggiano nel Mediterraneo.

Il ruolo principale di Frontex non è quello di proteggere le frontiere europee, bensì di normalizzare la violenza e la morte lungo queste frontiere. Essendo ormai anestetizzati dalle immagini dei cadaveri di bambini sulle coste mediterranee dell’Europa, il massacro dei bambini a Gaza non ci sconvolge affatto. Del resto, non sono bambini bianchi. Per parafrasare Krleža, nemmeno i bambini sono tutti uguali.

L'Occidente e l’Europa sono disposti a sacrificare altre centinaia di migliaia di ucraini, pur non avendo alcuna chiara idea di come porre fine alla guerra. Quando Annalena Baerbock, ministra degli Esteri tedesca, ha invocato “la vittoria definitiva” in Ucraina, nessuno le ha chiesto cosa intendesse concretamente. Mandare a morte due generazioni di giovani tedeschi, issare la bandiera dell’UE sul Cremlino o cancellare la Russia dalla faccia della terra in una guerra nucleare? Abbiamo dimenticato la lezione di Clausewitz, secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, e quindi deve avere un epilogo politico. Quale? Nell’interesse di chi? Per raggiungere una pace duratura o una legittimazione politica della logica bellica della pulizia etnica, come accaduto nelle guerre jugoslave degli anni Novanta? Nessuno sembra preoccuparsene.

Preoccupa però la mancanza di un massiccio impegno civico per promuovere il dialogo e la ricerca di una soluzione diplomatica? Dove sono le voci contro la guerra?

Prima dell’inizio dell’invasione occidentale dell’Iraq – basata sulle menzogne del Pentagono e della CIA, e sostenuta dai media come New York Times, Washington Post, CNN e dalle big tech, tra cui AT&T, Google, Facebook, Microsoft – a Londra si era tenuta la più grande manifestazione contro la guerra della storia della Gran Bretagna. I cittadini avevano capito di essere stati ingannati, intuendo che sarebbe finita male. Ciononostante, le élite politiche, comprese quelle della sinistra liberale, avevano spinto i loro popoli in una guerra che si è conclusa con mezzo milione di vittime civili, la distruzione di un paese e il caos politico che regna ancora sovrano.

Anne Applebaum, storica e presunta esperta di Europa orientale e Russia – anche se non è mai stata in Russia – ha promosso e pienamente sostenuto l’invasione dell’Iraq nel 2003 e la politica interventista dei neoconservatori americani, e oggi sostiene la guerra perenne dell’Occidente contro il presunto male. Quest’anno Applebaum ha ricevuto due riconoscimenti per la pace in Germania: il premio intitolato a Carl von Ossetsky, assegnato dalla città di Oldenburg, e il Premio per la pace degli editori tedeschi.

La realtà in cui viviamo – europea, occidentale e democratica – ha letteralmente assunto una dimensione orwelliana. L'Europa e l’Occidente sono l’Oceania del romanzo “1984” di Orwell, con il suo slogan principale: “La guerra è pace”.

Nel corso della conferenza tenuta nell’ambito del Subversive Festival, lei ha elaborato il concetto di resistenza giustapponendolo al movimento di liberazione popolare jugoslavo. Può spiegare meglio le differenze?

Oggi l’idea di resistenza al fascismo domina il discorso sulla Seconda guerra mondiale nello spazio post-jugoslavo. Però la verità è che da noi non c’è stata alcuna resistenza al fascismo. Il 14 aprile del 1941 il Partito comunista jugoslavo non aveva invitato alla resistenza al fascismo, bensì alla lotta di liberazione popolare. I partigiani non si definivano un movimento di resistenza, nemmeno prima del 1942 quando si chiamavano NOV (Esercito di liberazione popolare) e POJ (Brigate partigiane jugoslave). Alla fine del 1944 contavano 650mila combattenti, organizzati in cinquantadue divisioni e quattro eserciti, controllando centinaia di chilometri lungo la linea del fronte in una guerra tradizionale. Quello partigiano non fu mai un movimento di resistenza.

La resistenza nacque solo dopo il 1945. Nel suo libro Hrvatski pokret otpora [Movimento di resistenza croato], lo storico Wolffy Krašić si concentra in particolare sul movimento guidato da Jakša Kušan. Anche Vjekoslav Maks Luburić aveva organizzato “la resistenza popolare croata”. Qui l’idea di resistenza non è basata sulla lotta antifascista, bensì sulla riconciliazione tra fascisti e antifascisti.

In parole povere, nell’area post jugoslava, il termine “resistenza” fa parte della narrazione del revisionismo storico. Oggi in Serbia è diffusa l’idea che a opporsi al fascismo fossero i cetnici di Draža Mihailović, non i partigiani. A dire il vero, anche nella politica ufficiale della memoria dell’UE, basata su tre risoluzioni del Parlamento europeo, non c’è posto per i partigiani jugoslavi. Anche perché i partigiani della Jugoslavia, anziché opporre la resistenza ai fascisti con l’intento di preservare l’ordine vigente prima dell’ascesa del fascismo, si battevano per una svolta sociale radicale e rivoluzionaria attraverso la lotta di liberazione popolare.

Quando nel Centro memoriale della resistenza tedesca a Berlino vediamo le immagini di alcuni membri di quella resistenza in uniforme nazista – penso ad esempio a Claus von Stauffenberg che aveva organizzato un attentato a Hitler – capiamo che questo movimento non aveva tra i suoi obiettivi quello di cambiare la posizione della donna nella società. A differenza del Fronte antifascista delle donne jugoslave (AFŽ), che era appunto un “fronte”, non un movimento di resistenza, e contava due milioni di membri.

L'obiettivo della Resistenza tedesca (Widerstand) era quello di raggiungere un accordo di pace con gli alleati occidentali e proseguire la guerra contro l’Armata rossa. “Otpor” [resistenza] è anche il nome di un movimento serbo contro il regime di Milošević, organizzato a Budapest dalla CIA. Dopo il 2000 questo movimento, per conto degli americani, ha svolto diverse attività finalizzate ai cosiddetti “cambi di potere”, partecipando a rivoluzioni colorate in una cinquantina di paesi in tutto il mondo. Tutte queste rivoluzioni sono fallite, come dimostra, tra l’altro, la guerra in Ucraina.

Quindi, il concetto di resistenza viene sfruttato principalmente dal revisionismo storico allo scopo di intaccare, definitivamente e irrimediabilmente, l’idea di rivoluzione. Finora ci è riuscito.

Che fare invece delle rivoluzioni che divorano i propri figli?

Credo che dobbiamo porci un altro interrogativo: come affrontare le controrivoluzioni che sono riuscite a soffocare ogni rivoluzione? Che dire della controrivoluzione di Stalin che ha annullato tutte le conquiste emancipatorie della Rivoluzione d’Ottobre? E la controrivoluzione dei poteri tecnocratici, come venivano chiamati nell’ex Jugoslavia, che attraverso la Lega dei comunisti ha ostacolato e alla fine distrutto l’idea e la pratica di autogestione? O ancora le istituzioni finanziarie ed economiche internazionali che, in nome della mano invisibile del mercato, hanno promosso particolari interessi politici e ideologici, ostacolando ogni tentativo di opporsi allo sfruttamento capitalista?

Invece di rappresentare la rivoluzione come un mostro che divora se stesso, in contrapposizione ad un mondo normale, bello, ordinato e pacifico dove tutto sarebbe perfetto se non fosse per quei matti di rivoluzionari che cercano di cambiare le cose, dobbiamo affrontare la vera storia delle controrivoluzioni e dei loro grandi successi. Credo che ormai non ci sia una sola idea rivoluzionaria che non sia stata intaccata da queste controrivoluzioni. Questo è il punto! Quei rivoluzionari che divorano i propri figli altro non sono che controrivoluzionari.

A spingermi a porre la domanda precedente è stata anche la nostra realtà locale a Zagabria. Tre anni fa abbiamo assistito ad una piccola rivoluzione con cui il movimento Možemo! è salito al potere, promuovendo il municipalismo, la partecipazione civica e altre idee della sinistra verde. Nel frattempo però sembra che assistiamo (nuovamente) all’espressione della legge ferrea dell’oligarchia di Michels…

Non dobbiamo temere l’oligarchia del movimento Možemo! Anziché un coccodrillo nella palude della democrazia croata, Možemo! sembra essere preda di coccodrilli. È già finito tra le fauci delle corporazioni dei media che hanno deciso di togliergli il potere, e ci riusciranno.

Credo però che questa grande esperienza sperimentata da Možemo! non sia vana. È bene conoscere i veri limiti, non solo i propri limiti, ma anche quelli di una democrazia parlamentare dei partiti. Qualcuno ne trarrà qualche lezione. Forse impareranno che non vale mai la pena sacrificare il radicalismo di sinistra per conquistare le simpatie del centro. Così come non ha senso percepire quel centro come un’incarnazione della realtà, come un metro di giudizio della realtà oggettiva.

È proprio nell’identificarsi con una realtà senza alternative che il centro dimostra la sua assurdità, il suo patologico oblio della realtà. Non solo a Zagabria. Il campo largo centrista liberale, neoliberale e conservatore – paneuropeo e panoccidentale – è l’estremista più pericoloso in questa storia post-democratica in cui ci siamo avventurati insieme a Možemo! Se non ci porterà verso la Terza guerra mondiale, ci lascerà bruciare sotto il sole.


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