È un settore in pieno fermento quello cinematografico balcanico, nonostante siano scarsi i mezzi di finanziamento, compresi quelli europei spesso destinati a paesi più grandi di quelli del sud-est Europa
A metà novembre, per le strade del centro di Zagabria, si potevano incrociare per qualche giorno cinefili, produttori di film e specialisti dell’industria cinematografica provenienti da tutti i Balcani.
Una serie di incontri, organizzati dall’ufficio locale del sottoprogramma Media, aveva infatti riunito il mondo audiovisivo della penisola, per discutere dello stato del cinema balcanico, delle sue difficoltà e dei suoi successi, in modo da consigliare la Commissione europea - anch’essa presente nella capitale croata - sulle misure da prendere per meglio favorire la settima arte in questa parte d’Europa.
Il risultato del seminario, intitolato “E’ così che NOI lo facciamo!” (“Ovako MI to radimo!”), è un’interessante fotografia di un settore in pieno fermento, in una regione dove si moltiplicano - malgrado gli ostacoli di cui parleremo - i festival e i film di qualità.
Lo spunto formale della conferenza organizzata a Zagabria il 17 novembre era il 25° compleanno di MEDIA, lo strumento con cui l’Unione europea finanzia l’industria audiovisiva del continente (e diventato dal 2013 parte del programma “Creative Europe”).
Nei Balcani, questo anniversario ha un valore ancora più simbolico, perché corrisponde in buona parte al periodo (i primi anni Novanta) in cui la regione visse l’inizio di una nuova fase storica, tra indipendenze, fine dei regimi totalitari e guerre.
A un quarto di secolo di distanza, i paesi dell’area sono tutti governati da democrazie più o meno consolidate e, per quanto riguarda le rispettive produzioni cinematografiche, sono tutti oggi membri del sottoprogramma Media, aperto infatti anche agli stati non ancora aderenti all’Unione europea. Al netto delle differenze nazionali, i paesi dei Balcani presentano - all’interno dei 35 partecipanti di Media - delle similitudini notevoli, che fanno sì che possano a volte esprimersi con una voce sola.
I problemi dei paesi piccoli
“Facciamo tutti parte di mercati cinematografici piuttosto piccoli e i nostri linguaggi locali hanno difficoltà a viaggiare”, spiega Martina Petrović, direttrice dell’Ufficio Media a Zagabria. I paesi dei Balcani, prosegue, si confrontano con diversi ostacoli: “Le scarse risorse nel finanziamento, le limitazioni derivanti dalle lingue usate e riguardo alle collaborazioni con i paesi vicini”.
Si tratta di problematiche comuni a tutti “i paesi a bassa capacità audiovisiva”, ma che, aggiunge Petrović, “non sono prese sufficientemente in considerazione [dall’Ue, ndr.] quando si valutano i progetti cinematografici provenienti dai Balcani”. Il risultato è che i “big five” (Francia, Italia, Germania, Regno Unito e Spagna) si accaparrano la maggior parte dei finanziamenti europei (57%, negli ultimi tre anni), lasciando ai “paesi medi” il 32% della torta e a quelli piccoli un magro 11%. “Con un’infrastruttura solida, affiancata da una situazione politica stabile, e con un supporto finanziario continuo da parte dello stato, si assicurerebbero la stabilità e la continuità dell’industria cinematografica balcanica”, conclude Martina Petrović.
Alle risorse difficili da trovare, segue anche il problema della “visibilità”, ovvero dell’esportazione delle pellicole realizzate nella regione. “Negli ultimi vent’anni, le istituzioni pubbliche si sono concentrate sull’assicurare la produzione dei film, all’interno del nuovo contesto economico”, afferma Kamen Balkanski, direttore del Centro nazionale cinematografico di Sofia e del locale Ufficio Media.
“Oggi, ci sono nuovi attori che dominano il campo della distribuzione e della proiezione e, comprensibilmente, preferiscono mostrare dei film commerciali, col risultato che i film nazionali ed europei rimangono costretti in un angolo”, aggiunge Balkanski, che invita le autorità pubbliche a “stimolare i punti di incontro tra audience e film” ed immagina in futuro la nascita di “un fondo di co-produzione pan-balcanico”.
Nonostante queste sfide ancora da superare, il mondo audiovisivo della regione ha saputo comunque produrre numerose “storie di successo”, che prendono la forma di festival, film o documentari che testimoniano la vivacità culturale nei Balcani.
Le “buone nuove” più recenti
Gli esempi non mancano ed ogni paese può citarne più d’uno. Per la Bulgaria, Kamen Balkanski ricorda due appuntamenti annuali di rilievo come il Sofia Film Festival e i Sofia Meetings (entrambi a marzo).
In Croazia, c’è l’imbarazzo della scelta tra i festival cinematografici di Pola e di Zagabria, ma si potrebbero citare anche le Giornate del cinema croato (in aprile) o gli appuntamenti di genere come Zagreb Dox (per i documentari) o il Trash Film Festival di Varaždin che da 11 anni consegna la “motosega d’oro” al miglior film trash dell’anno.
Nella penisola si è poi ritagliato un ruolo di rilievo il Sarajevo Film Festival, iniziato ancora durante l’assedio della capitale bosniaca nel 1995, così come il DokuFest di Prizren, dedicato a documentari e cortometraggi. E la lista è ben più lunga.
Lo stesso discorso può essere inoltre fatto per i film di provenienza balcanica, che sono “sempre più presenti nei festival cinematografici europei”, come racconta l’ex eurodeputata Doris Pack, coordinatrice del premio Lux al Parlamento europeo.
Tra i film che l’hanno maggiormente colpita di recente, Pack ricorda “Nemico di classe” (2013) del regista sloveno Rok Bicek, “No One's Child” (2014) del serbo Vuk Ršumović o il più recente “Sole alto” (2015) del croato Dalibor Matanić, che ha ricevuto a Cannes il Premio della giuria “Un Certain Regard”.
Tra i documentari che hanno saputo superare le barriere del finanziamento e della distribuzione tipici dei piccoli stati, Kamen Balkanski cita, per il suo paese, “Divorce Albanian Style” (2007) della regista bulgara Adela Peeva, “Corridor No. 8” (2008) di Boris Despodov e “The Beast is Still Alive” (2016) di Vesela Kazakova e Mina Mileva.
Il caso Gazda
In Croazia, il documentario consacrato alla vita del magnate Ivica Todorić, “Gazda” (2016) - letteralmente “il boss” - sembra anch’esso destinato ad entrare in questa lista.
Girato dal regista zagabrese Dario Juričan, il film ha alimentato un grande dibattito all’interno del paese, nonostante sia stato proiettato soltanto in alcuni cinema indipendenti.
“Le grandi catene di multisala, che controllano il 90% del mercato in Croazia, si sono rifiutate di proiettare il film”, racconta Dario Juričan, che vede dietro a questo gesto “una connessione” tra i proprietari dei grandi cinema e l’oggetto del suo lavoro, ovvero la famiglia Todorić.
Per assicurarsi la distribuzione del film nel proprio paese, Juričan ha dovuto passare attraverso una campagna di crowdfunding, che gli ha permesso di raccogliere 7mila euro con cui creare un fondo per le proiezioni.
Iniziato con l’ambizione di “rompere un tabù”, il documentario è interamente consacrato a quello che Juričan definisce “l’amico numero 1 dello stato (croato)” nonché un “intoccabile”: Ivica Todorić, una delle persone più ricche ed influenti del paese, essendo il datore di lavoro, attraverso le imprese del suo gruppo Agrokor, di oltre 60mila persone (in un paese da 4 milioni di abitanti).
Il film ripercorre la storia della famiglia fin dalla fondazione di Agrokor nel 1976, per poi passare attraverso la guerra d’indipendenza della Croazia e gli anni delle privatizzazioni che hanno accompagnato il passaggio dal modello socialista all’economia di mercato. Proiettato per la prima volta a inizio ottobre a Zagabria, Gazda sarà a breve esportato oltre confine.
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