In molti ricordano il caso della piccola Madina Hussiny, la bambina afghana che venne investita e uccisa da un treno a soli 6 anni, dopo che la polizia croata aveva respinto lei e la sua famiglia in Serbia. Ora la Corte costituzionale croata ha emesso una sentenza a favore della famiglia, confermando le violazioni dei diritti dei rifugiati in Croazia
(Originariamente pubblicato da Lupiga , il 30 aprile 2021)
“Questa è la conferma che nella Repubblica di Croazia si stanno verificando violazioni dei diritti dei rifugiati sanciti dalla Costituzione”, hanno affermato gli attivisti del Centro per la pace di Zagabria commentando una recente sentenza con cui la Corte costituzionale della Repubblica di Croazia ha accolto tre ricorsi presentati dalla famiglia Hussiny proveniente dall’Afghanistan.
Secondo la testimonianza della famiglia Hussiny, nel novembre 2017 i membri della famiglia hanno attraversato il confine tra Serbia e Croazia e, subito dopo essere entrati in territorio croato, hanno manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale, ma gli agenti di polizia che li hanno fermati non hanno consentito loro di presentare la domanda di protezione. Una decisione che ha portato alla tragedia che segnerà per sempre la famiglia Hussiny.
“La famiglia con sei bambini, fermata al confine croato, ha chiesto protezione e asilo, ma la polizia si è rifiutata di procedere conformemente alle norme, ordinando alla famiglia di ritornare, in piena notte, nel territorio serbo seguendo i binari di una linea ferroviaria. [Gli agenti di polizia] si sono dimostrati sordi alla richiesta della madre di poter trascorrere la notte [in Croazia] con i bambini perché erano stanchi e intirizziti e ciò ha portato all’incidente fatale”, ha spiegato spiega a Lupiga l’avvocato Sanja Bezbradica Jelavić poco dopo quell’episodio.
All’epoca Sanja Bezbradica Jelavić probabilmente non immaginava nemmeno che avrebbe trascorso i successivi tre anni e mezzo combattendo per ottenere giustizia per la famiglia Hussiny che quella fredda notte del 21 novembre 2017 ha ricevuto dalla polizia croata l’ordine di tornare indietro in Serbia, seguendo la ferrovia. Gli agenti di polizia hanno caricato i membri della famiglia Hussiny su un furgone e li hanno portati fino ai binari, indicando loro la direzione verso cui dirigersi. Poco dopo un treno ha investito la famiglia Hussiny, uccidendo la piccola Madina, che all’epoca aveva sei anni.
A quel punto gli agenti della polizia croata, indifferenti di fronte alla tragica morte della bambina, hanno ordinato ai membri della famiglia Hussiny – come si legge nella sentenza della Corte costituzionale – di salire a bordo di un veicolo della polizia, poi li hanno portati al confine con la Serbia, consegnandoli alla polizia serba. Al momento dell’incidente il padre di Madina si trovava in Serbia con altri tre figli e avrebbe dovuto raggiungere il resto della famiglia in un secondo momento.
Un mese dopo il tragico incidente, la famiglia Hussiny ha sporto denuncia presso la procura generale della Repubblica di Croazia contro gli agenti di polizia, accusandoli della negligenza che ha causato la morte della piccola Madina, nonché di gravi violazioni dei diritti dei bambini, di abuso di potere e di aver sottoposto la famiglia Hussiny a trattamenti inumani arrecandole gravi danni morali e sofferenza. In quell’occasione la famiglia Hussiny ha fatto sapere, tramite il suo avvocato, di non aver sporto denuncia per motivi personali, bensì per tutti i bambini e i loro genitori trovatisi in una situazione simile, affinché una tragedia come quella che ha portato via la piccola Madina non accadesse mai più a nessuno. Tuttavia, la procura non ha accolto la denuncia presentata dalla famiglia Hussiny.
Così è iniziata la battaglia legale della famiglia Hussiny che non finisce con la recente sentenza della Corte costituzionale croata, perché la famiglia ha presentato un ricorso anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo, chiedendo giustizia per la morte della figlia.
Già all’epoca dell’incidente in cui la piccola Madina ha perso la vita diverse organizzazioni non governative avevano denunciato la prassi della polizia croata che, invece di consentire ai rifugiati di presentare domanda di protezione internazionale, cercava in tutti i modi di costringerli a tornare indietro. La polizia croata ha sempre respinto tali accuse, affermando di non effettuare i cosiddetti pushback, bensì di ricorrere ad una strategia di “dissuasione”.
“La linea che separa la dissuasione dai pushback è molto sottile. Nel primo caso, gli agenti di polizia, con la loro presenza alla frontiera, mettono in chiaro dove corre il confine con l’intento di costringere le persone che, secondo l’UE, non hanno bisogno di protezione, a rinunciare al tentativo di attraversare la frontiera, mentre i cosiddetti pushback, ovvero i respingimenti delle persone che chiedono asilo, rappresentano una violazione dei diritti umani e sono illegali”, spiega a Lupiga l’attivista Gordan Bosanac.
Nel marzo 2018 la famiglia Hussiny è riuscita ad entrare in Croazia ed è stata subito sistemata in un centro di accoglienza per migranti in transito, dove la libertà di movimento dei migranti è fortemente limitata. I membri della famiglia Hussiny sono comunque riusciti a chiedere asilo, ma la loro richiesta è stata respinta.
Nella richiesta di protezione internazionale i membri della famiglia Hussiny hanno spiegato che alcuni anni prima avevano lasciato l’Afghanistan e, attraverso il Pakistan e l’Iran, erano arrivati in Turchia, attraversando poi la Grecia e la Bulgaria, per giungere in Serbia dove avevano trascorso più di un anno nei centri di accoglienza di Bogovađa e Tutin. Avevano deciso di andarsene dall’Afghanistan perché temevano per la propria incolumità, dato che il padre di Madina, Rahmatshah, aveva ricevuto una serie di lettere minatorie dai talebani perché lavorava per l’esercito statunitense. Aveva anche subito un’aggressione da parte dei talebani, rimanendo ferito, mentre una delle sue figlie era stata aggredita con l’acido di cui porta ancora le cicatrici. I membri della famiglia Hussiny hanno inoltre spiegato che in Afghanistan era in corso una guerra, quindi temevano per la propria sicurezza, e le scuole erano chiuse. Per quanto riguarda invece la loro decisione di lasciare la Serbia, hanno precisato che “lì non c’era lavoro” e i bambini non potevano andare a scuola.
Tutti questi motivi non sono bastati affinché le autorità croate accogliessero la domanda di asilo presentata dalla famiglia Hussiny. Le autorità croate non hanno nemmeno esaminato la fondatezza della domanda, decidendo invece di applicare il concetto di “paese terzo sicuro”, considerando la Serbia come un paese che garantisce il rispetto dei diritti fondamentali e delle minoranze.
La famiglia Hussiny ha presentato ricorso contro il diniego di riconoscimento della protezione internazionale al Tribunale amministrativo di Osijek. Il tribunale ha respinto il ricorso, affermando che pur avendo la polizia, nella motivazione del diniego, citato l’articolo di legge sbagliato, anche se avesse fatto riferimento alla norma giusta la decisione non sarebbe cambiata. La famiglia Hussiny ha poi fatto ricorso anche contro questa sentenza, ma invano, perché l’Alta corte ha confermato la sentenza di primo grado.
A quel punto la famiglia Hussiny ha presentato alla Corte costituzionale croata tre ricorsi, che poi sono stati riuniti in un unico processo, accusando la polizia croata di aver usato metodi illegittimi durante l’interrogatorio di alcuni membri della famiglia e di non aver consentito loro di parlare con l’avvocato, allo scopo di intimidirli. La famiglia ha denunciato anche le condizioni all’interno dei centri di accoglienza, paragonandole a “condizioni carcerarie”, una questione su cui è più volte intervenuta anche la Corte europea dei diritti dell’uomo.
“Non vi è alcun motivo per tenere i bambini, i fratelli e le sorelle di Madina, in condizioni detentive”, ha affermato ora la Corte costituzionale.
L’avvocato Sanja Bezbradica Jelavić nel suo ricorso aveva sottolineato che negli ultimi dieci anni la Serbia ha concesso lo status di rifugiato a 47 richiedenti protezione internazionale, mentre lo status di protezione sussidiaria è stato riconosciuto a 62 richiedenti, cifre irrisorie rispetto al numero di rifugiati presenti nel paese. Pertanto, i membri della famiglia Hussiny non potevano essere sicuri di ottenere la protezione internazionale in Serbia, anzi, rischiavano di essere rimpatriati in Afghanistan. Ha inoltre citato l’appello dell’Unhcr che qualche hanno fa aveva sollecitato gli stati membri dell’UE a non rimandare i rifugiati in Serbia soprattutto a causa dell’assenza di una procedura giusta ed efficace di esame delle domande di protezione internazionale, ma anche perché c’era il rischio che i rifugiati, una volta presentata la richiesta di protezione in Serbia, venissero rimandati nel paese dal quale erano entrati in Serbia.
La Corte costituzionale croata, esaminando i ricorsi presentati dalla famiglia Hussiny, ha preso in considerazione il rapporto sulla Serbia, relativo all’anno 2019, redatto dal Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli in cui si afferma che nel 2019 in Serbia è stato registrato un aumento dei respingimenti per cui almeno 16mila persone bisognose di protezione internazionale sono state respinte dalla polizia di frontiera serba verso la Bulgaria e la Macedonia del Nord.
Nella sentenza della Corte costituzionale si afferma che durante lo stato di emergenza introdotto nel 2020 in Serbia a causa della pandemia da coronavirus “tutti i rifugiati, richiedenti asilo e migranti sistemati nei centri per asilanti e nei campi di accoglienza prima dell’introduzione dello stato di emergenza sono stati privati della loro libertà illegalmente e arbitrariamente sulla base di un atto di rango inferiore rispetto alla legge, violando così tutte le norme internazionali che tutelano il diritto alla libertà e alla sicurezza personale, nonché la Costituzione della Repubblica di Serbia”.
I giudici della Corte costituzionale croata hanno inoltre messo in luce una tattica utilizzata dalla polizia serba. I rifugiati, una volta fermati dalla polizia di frontiera croata e consegnati alla polizia serba, vengono tutti portati, indiscriminatamente, davanti al giudice di pace che infligge loro una sanzione per l’ingresso o il soggiorno irregolare nel territorio della Serbia, e poi in un secondo momento viene loro consegnato il provvedimento di rimpatrio o di allontanamento dal territorio serbo.
“Alla luce della prassi di cui sopra si può concludere che i rifugiati e i richiedenti asilo non dovrebbero essere rimandati in Serbia senza aver prima esaminato tutti i fatti legati al loro status giuridico”, si legge nella sentenza della Corte costituzionale.
Nella sentenza si afferma inoltre che se uno stato decide di allontanare un richiedente asilo dal proprio territorio, rimandandolo in un paese terzo senza aver nemmeno verificato la fondatezza della sua richiesta di asilo, tale decisione deve essere preceduta da “un esame approfondito volto ad accertare se la procedura di asilo nel paese terzo offra garanzie sufficienti in modo da evitare che il richiedente asilo venga rimandato, direttamente o indirettamente, nel suo paese di origine senza un’adeguata valutazione dei rischi che potrebbe correre”.
Nella sentenza della Corte costituzionale si fa riferimento anche ad alcune sentenze emesse della Corte europea dei diritti dell’uomo che riguardano alcuni casi che per certi versi sono simili a quello della famiglia Hussiny. La Corte costituzionale ha infine stabilito che la Serbia non può essere considerata un paese terzo sicuro e questo è il principale motivo alla base della decisione della Corte di accogliere i ricorsi presentati dalla famiglia Hussiny.
Dopo aver letto la motivazione della sentenza, non possiamo non fare paragone con la situazione in Croazia e chiederci se la Croazia possa essere considerata un paese sicuro.
“A questa famiglia che, dopo tutti gli orrori e le guerre, ha perso la figlia durante il viaggio intrapreso per chiedere protezione, non è mai stata data la possibilità di chiedere protezione internazionale nel nostro paese, perché il ministero dell’Interno ha fatto ricorso esclusivamente al concetto di paese terzo sicuro, in questo caso la Serbia. Con tale comportamento, che è stato successivamente riconosciuto legittimo sia dalla Corte amministrativa sia dall’Alta corte, il ministero dell’Interno, oltre ad aver negato a questa famiglia di rifugiati il diritto di asilo, li ha esposti al rischio di maltrattamenti, tortura e/o trattamenti inumani avendo considerato la Serbia un paese terzo sicuro”, hanno affermato gli attivisti del Centro per la pace di Zagabria, ricordando che il caso della piccola Madina è finito davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata ad esprimersi sulla responsabilità della Croazia per la violazione dei diritti umani della famiglia Hussiny, compreso il diritto alla vita della piccola Madina.
Anche l’avvocato della famiglia Hussiny, Sanja Bezbradica Jelavić, sottolinea l’importanza di questo caso, denunciando inoltre scarsi risultati ottenuti durante l’indagine della polizia sulla morte di Madina.
“Questo caso non riguarda solo la famiglia [Hussiny] e la bambina morta tragicamente, riguarda anche lo stato di diritto, i valori fondanti dell’ordinamento costituzionale e il diritto di ogni persona che ha subito un’ingiustizia, sia che si tratti di un cittadino croato o straniero, ad un’indagine efficace e conforme alle leggi di questo paese. Se abbiamo le leggi che prevedono l’applicazione di certe procedure nei confronti dei cittadini croati o nei confronti dei rifugiati, allora tutti sono obbligati a rispettare queste leggi”, afferma Sanja Bezbradica Jelavić.
Jelavić spiega inoltre che, secondo il parere di uno psicologo che parlava ogni giorno con i membri della famiglia Hussiny mentre si trovavano in un centro di detenzione, le loro condizioni psicofisiche erano pessime.
“Tutti erano affetti da disturbo post-traumatico da stress, avevano bisogno di costante aiuto psicologico che non hanno mai ottenuto. Tutti avevano difficoltà e problemi molto particolari, ma sono stati abbandonati a loro stessi”, afferma Jelavić.
Secondo il Centro per la pace di Zagabria, la recente sentenza della Corte costituzionale è di grande importanza per la protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo in Croazia ai quali viene sistematicamente negato l’accesso alla protezione internazionale.
“Numerosi rapporti delle organizzazioni non governative sottolineano la tendenza a impedire l’accesso alla protezione internazionale, e questa sentenza conferma che le istituzioni devono tenere in considerazione tali rapporti quando prendono decisioni che incidono direttamente sulla vita delle persone. I rapporti [delle organizzazioni non governative] e il loro impegno nel documentare i respingimenti illegali, pur essendo spesso ignorati dalle autorità competenti, rappresentano un importante passo avanti nella difesa dei diritti umani”, conclude Lovorka Šošić del Centro per la pace.
Tutto questo è di ben poca consolazione per la famiglia Hussiny che non si trova più in Croazia. Vive in un altro paese europeo dove i fratelli e le sorelle della piccola Madina frequentano regolarmente la scuola, come hanno sempre desiderato.
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