Il 17 novembre si è celebrato il World Prematurity Day. Il nostro Giovanni Vale, condividendo con i lettori la sua storia personale, ci accompagna nei reparti dell'ospedale "Sveti Duh" di Zagabria, dove ogni giorno medici e infermieri si battono per la salute dei bambini nati prematuri
Nel 2023 sono nati in Croazia 32mila bambini e di questi, 2200 circa sono nati prima del termine. Il dato è in linea con quelli dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), secondo cui, a livello globale, “un bambino su dieci nasce pretermine”.
Fino a qualche mese fa, di queste statistiche non ne sapevo nulla. Non sapevo che i neonati sono detti “pretermine" (o più comunemente “prematuri”) quando vengono alla luce prima della 37a settimana di gravidanza, e non sapevo cosa li aspetta – assieme ai loro genitori – una volta atterrati su questo pianeta. Ho scoperto questo mondo fatto di incubatrici e dottori, diagnosi e attese, in una sera d’inverno con la primavera già alle porte.
Il 23 febbraio, il sole era già sceso su Zagabria quando sono entrato per la prima volta in un reparto di Terapia intensiva neonatale (TIN). Sono salito al primo piano dell’ospedale pubblico “Sveti Duh”, ho indossato la mascherina, il camice e i copriscarpe messi a disposizione nella sala d’aspetto e ho suonato il campanello all’entrata del reparto.
"È la prima volta?”, mi ha chiesto un’infermiera aprendo la porta. Ho fatto cenno di sì e lei mi ha guidato lungo il corridoio e spiegato la procedura: lavarsi le mani col sapone, asciugarle e disinfettarle. Quando ho voltato le spalle al lavandino, mi sono trovato in una stanza grande e luminosa, dov’erano disposte quattro o cinque incubatrici.
Come avrei saputo più tardi, la fluttuazione nel reparto è molto alta. Il numero di bambini presenti dipende non solo da quanti parti avvengono nell’ospedale, ma anche dalla durata delle cure. “Chi nasce tra la 34a e la 37a settimana di gravidanza di solito non entra in terapia intensiva.
Sotto la 34a settimana, invece, le cure possono durare settimane o mesi”, mi ha spiegato un giorno la dottoressa caporeparto Rebeka Ribičić.
Il 23 febbraio non sapevo ancora quanto tempo io e mia moglie avremmo passato allo Sveti Duh. Mi sono avvicinato all’incubatrice che mi era stata indicata e ho salutato. “Ehi, ciao!”, mi è venuto spontaneo di dire. Dall’altra parte del vetro, un corpicino di 1,2 kg si muoveva appena, coperto da cavi e sensori.
Avevo di fronte a me “il paziente più piccolo e più fragile del reparto”, come mi ha detto con una voce gentile il pediatra di turno quella sera.
Genitori
Quando in passato mi è capitato di scrivere di sanità pubblica in Croazia, il tema è quasi sempre stato la mancanza di personale. Questa volta, al centro della storia c’è invece un caleidoscopio di umanità che ho visto mescolarsi e conoscersi in un ambiente difficile e per certi versi molto democratico qual è il reparto di Terapia intensiva neonatale.
I genitori che frequentano la TIN sono facilmente riconoscibili nei corridoi dell’ospedale. Silenziosi e a prima vista assorti, si muovono con cautela come a non volersi fare del male.
Vengono da ogni angolo del paese e rappresentano un po’ tutte le classi sociali, accomunati solo da storie di gravidanze difficili interrotte improvvisamente.
Allo Sveti Duh le visite nel reparto sono permesse due volte al giorno, ciascuna per una durata di mezz’ora, anche se le infermiere chiudono un occhio quando ci si trattiene un po’ di più.
Le mamme portano spesso con sé una piccola borsa frigo, in cui trasportano il latte che hanno estratto a casa, imbottigliato in contenitori sterilizzati e conservato in congelatore (l’intero processo – da ripetersi ogni tre ore – occupa praticamente tutta la giornata).
Altre volte i genitori hanno in mano delle confezioni di salviette detergenti per l’igiene dei neonati, oppure degli integratori, come il ferro, spesso prescritto ai prematuri, quasi sempre anemici.
Chi frequenta la Terapia intensiva neonatale ha solitamente poca voglia di fare conversazione, soprattutto nei primi sette-dieci giorni, considerati i più critici. Lo sforzo comunicativo è allora limitato all’essenziale, ai dialoghi con infermieri e medici e ai monologhi con gli inquilini delle incubatrici.
Chi tende l’orecchio, tra le culle riscaldate dello Sveti Duh, può riconoscere diverse lingue e diversi approcci. C’è chi parla della propria giornata, chi azzarda domande del tipo “che hai fatto oggi?” e chi prega sottovoce.
La musica ha un ruolo importante nel costruire un ponte tra il periodo in ospedale e quello che seguirà. Consapevoli di questo e carichi di ottimismo, noi cantavamo Three little birds di Bob Marley, anche se il giorno in cui abbiamo potuto aprire una finestrella dell’incubatrice, ci siamo resi conto che, all’interno, il ronzio del respiratore era così forte che probabilmente non vi arrivava nulla del nostro stonato ritornello: “Don’t worry about a thing / Cause every little thing is gonna be alright”.
Uno strano rapporto s’instaura anche con i macchinari. Uno schermo adiacente alla culla misura in tempo reale il battito cardiaco e il livello di ossigeno nel sangue.
Quando i valori registrati si scostano da quelli di riferimento, un segnale acustico si accende facendo sobbalzare i genitori, molto spesso nell’indifferenza del personale medico.
“Se vedete che io sono tranquilla, allora non dovete agitarvi. Quando ci sarà da preoccuparsi, lo capirete”, ci ha detto un giorno un’infermiera.
Infermieri
Non esiste un percorso comune a tutti i bambini (“ognuno è un caso a sé”, ripetono i medici), ma gli ostacoli che i piccoli devono superare sono molto spesso gli stessi.
Chi alla nascita non è in grado di respirare autonomamente dovrà dipendere per qualche giorno, settimana o mese da un respiratore (e a volte anche essere intubato).
Ogni piccola infezione necessita di antibiotici e può peggiorare in fretta in un corpo privo di difese immunitarie. Non sono rare le emorragie cerebrali, l’ittero che colora la pelle di giallo, o ancora i problemi cardiaci.
A volte s’impone una trasfusione e, nei casi più gravi, un trasferimento d’urgenza all’ospedale universitario Rebro di Zagabria. “Questa è una maratona e a volte si fa un passo avanti e due indietro”, ci ha messo in guardia un’infermiera durante una delle nostre prime visite.
Gli infermieri, presenti ad ogni momento a fianco delle incubatrici, condividono la quotidianità dei genitori. In Croazia, mi ha confermato più tardi la dottoressa Rebeka Ribičić, “è molto difficile trovare infermieri”.
Allo Sveti Duh questo problema nazionale si traduce in un carico di lavoro importante per i pochi impiegati (“siamo lontani dallo standard occidentale di un infermiere per ogni 1-2 incubatrici”, mi ha detto Ribičić).
Nonostante questo, però, non è raro vedere un infermiere abbracciare una mamma o ripetere con calma una cosa già spiegata in precedenza. È sempre un infermiere a scrivere per ogni culla il nome del suo inquilino su un foglio colorato a pastello.
Certo, capita che anche gli infermieri si arrabbino. “Per favore, non cerchi di leggere la cartella clinica. Finirà per mal interpretare qualcosa e spaventarsi. Mi chieda se ha delle domande”, mi ha detto un giorno un’infermiera con uno sguardo incendiario.
Con il passare dei giorni, comunque, genitori e infermieri imparano a conoscersi.
Quando finalmente una mamma è autorizzata a prendere in braccio il proprio bambino, spesso parecchie settimane dopo il parto, è un infermiere a supervisionare l’operazione e, se necessario, a scattare qualche fotografia.
Altre volte, invece, deve annunciare brutte notizie. In un pomeriggio di marzo, nella sala d’aspetto della TIN i genitori assistevano atterriti ad un viavai di medici dall’aria preoccupata. Ad un certo punto, dal reparto è uscita un’infermiera in lacrime.
“I vostri figli stanno bene, come li avete trovati ieri – si è affrettata a dire – ma oggi non possiamo farvi entrare. Abbiamo una situazione grave, un bambino che dobbiamo trasferire al Rebro. Mi dispiace”.
Quel giorno, ci siamo tolti lentamente mascherine, camici e copriscarpe, e siamo ripartiti in silenzio.
Dottori
“Anche se non dovremmo, ci leghiamo emotivamente al destino dei bambini e dei loro genitori e quando le cose non vanno come vorremmo o, peggio ancora, quando un paziente muore, è un colpo molto duro anche per noi”, mi spiega la dottoressa Rebeka Ribičić, seduta in un piccolo ufficio all’interno del reparto. “I casi di morte sono però rari e in linea con la media europea”, aggiunge prontamente.
Il giorno in cui la incontro per quest’intervista, Ribičić ha già passato la mattinata con i giornalisti. Casualmente, proprio la notte prima un neonato è stato abbandonato in un cassonetto della spazzatura a Zaprešić, un comune nella periferia di Zagabria, ed è stato trasportato d’urgenza proprio nel suo reparto (oggi il bambino sta bene ed è stato adottato da una famiglia).
Dopo aver fatto diverse dichiarazioni sul caso davanti alle telecamere, Ribičić è contenta di poter ora rispondere a qualche domanda più generale sul proprio lavoro.
“La neonatologia è una branca che migliora in continuazione e, rispetto a 15-20 anni fa, i bambini prematuri hanno oggi molte più chance non solo di sopravvivere, ma di farlo senza danni neurologici”, afferma la dottoressa, “i nuovi respiratori, ad esempio, utilizzano l’intelligenza artificiale per riconoscere i bisogni dei neonati e attivarsi solo quando necessario. Gli studi statistici ci fanno capire quali medicinali funzionano meglio e sappiamo molte più cose sull’alimentazione”.
Lavorare nella TIN rimane un lavoro “difficile” e “molto stressante”, ma “ci sono tante soddisfazioni”, assicura Ribičić, che conclude “in ogni caso, qualunque sia la famiglia e il contesto da cui provengono, tutti i neonati qui ricevono lo stesso trattamento”.
Qualche settimana prima di quest’intervista, avevo incontrato la dottoressa nel reparto, in un momento in cui ero decisamente spaesato. Doveva essere fine aprile, perché i ciliegi a Zagabria erano già tutti in fiore.
Entrando nella TIN, avevo trovato l’incubatrice presso la quale ci sedevamo ogni giorno da settimane, completamente vuota. Il suo inquilino era stato trasferito nella stanza accanto, in un lettino. “Ha visto che sorpresa?”, mi ha chiesto allora Ribičić sorridendo sotto la mascherina.
Era l’inizio di una seconda fase, meno critica ma comunque fondamentale, in cui medici e infermieri iniziano a preparare i genitori al giorno delle dimissioni dall’ospedale.
L’allattamento, l’igiene, la cura del bambino, ma anche i rischi a cui fare attenzione e le eventuali patologie da tenere a mente… i dottori passano più volte in rassegna i punti più importanti, mentre nei genitori crescono contemporaneamente gioia e ansia.
In quegli ultimi giorni, le conversazioni nella sala d’aspetto della TIN si fanno gradualmente più distese. “Ma i lavori di ristrutturazione li avete finiti?”, chiede un giorno una mamma. “Che tipo di lettino avete preso voi?”, domanda un’altra. Gli scambi di consigli continueranno anche dopo, online, sui tanti gruppi e canali ricchi di comprensione e dedicati ai palčići, letteralmente “i pollicini”, il soprannome con cui sono noti i bambini prematuri in Croazia. Offline, non è raro che tra i genitori nascano delle sincere amicizie.
Bambini
“Spero che vi siate riposati bene, perché da oggi è finita”, scherza il medico che ci accoglie il giorno in cui siamo chiamati a prendere nostro figlio.
È inizio maggio e il sole già picchia forte su Zagabria e sulla collina dove si trova l’ospedale. Noi siamo in fibrillazione. Nella TIN ci sono dei documenti da firmare, una lunga lettera di dimissioni da leggere con attenzione e poi qualche raccomandazione e una foto di gruppo.
Le infermiere mettono l’ormai ex paziente nell’ovetto per l’automobile e accompagnano all’uscita i genitori, che vorrebbero ancora chiedere tante cose, ma nel reparto un nuovo ciclo è già ricominciato.
Mentre usciamo con la sensazione di aver rubato qualcosa, sentiamo un dottore informare una coppia arrivata da poco: “Vostro figlio ha oggi cinque giorni e la sua situazione è stabile”. La frase ci suona fin troppo familiare.
Mentre scrivo queste ultime righe, il protagonista di questa storia, che nell’incubatrice si staccava regolarmente i sensori dalla pelle, sta ora cercando, sdraiato nel suo lettino, di afferrare gli animaletti di peluche che ruotano sopra la sua testa.
Il suo punto di vista, così come quello degli altri inquilini della Terapia intensiva neonatale, rimane un mistero. Che cosa rimarrà in lui di quei lunghi mesi allo Sveti Duh?
Dal punto di vista fisico, ogni genitore spera che non ne resti alcuna traccia. Ma nella coscienza, sarebbe bello rimanesse l’esperienza di un’umanità bellissima. La consapevolezza che, anche in un mondo come quello attuale, si può fare affidamento, nel momento di massima fragilità e bisogno, a degli sconosciuti ed essere certi che questi faranno il massimo affinché, alla fine, vada tutto bene.
Lo faranno a prescindere dalla tua nazionalità, credo o classe sociale e senza chiedere nulla in cambio, nemmeno se hai o meno un’assicurazione privata.
Alla mia destra, improvvisamente, una giraffa perde quota, mentre la musica rallenta. Mi sporgo verso il lettino e vedo una manina trascinare l’animale inerte verso il basso.
Il carillon sembra emettere un piccolo grido d’aiuto. Suonano le ultime note, mentre la giraffa scende di un altro centimetro, poi due. Alla fine, crolla tutta la struttura. “E adesso?”, gli chiedo divertito. Coperto dagli animali di peluche, lui mi guarda stupito, poi scoppia in una risata.
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