Per l'autore di questa recensione "Il quaderno scomparso a Vinkovci" di Dragan Velikić non è un libro qualunque: Zandel e Velikić hanno in comune la stessa "piccola patria". Un libro che quindi chiama inevitabilmente al dialogo
Ci sono libri con i quali, a leggerli, si instaura un dialogo. E’ quanto mi è accaduto con “Il quaderno scomparso a Vinkovci”, romanzo molto autobiografico dello scrittore serbo Dragan Velikić, edito da Keller, per la traduzione di Estera Miočić. Mio quasi coetaneo – ho cinque anni più di lui – siamo cresciuti entrambi sulle ceneri della Seconda guerra mondiale, lui dalla parte dei vincitori, io da quella dei perdenti. Nel 1948 io nascevo, da genitori istro-fiumani, in uno dei 109 campi profughi allestiti dal governo italiano per accogliere gli italiani che fuggivano dalla Jugoslavia di Tito, dieci anni dopo, Dragan, bambino di cinque anni, arrivava con la famiglia da Belgrado a Pola, dove sarebbe cresciuto. Non era stato un viaggio facile: alla stazione di Vinkovci il loro bagaglio sarebbe stato rubato e, con esso, il quaderno in cui la mamma di Dragan annotava dettagliatamente i suoi viaggi al seguito del padre, giovane tenente della marina militare jugoslava, compresi i nomi degli alberghi, quasi rappresentassero questi ultimi delle tappe esistenziali. Per la madre, una grave perdita quel quaderno, senza il quale, come fosse una bussola, si sarebbe smarrita, come poi in realtà avvenne, da anziana, quando cadde nel buio dell’ Alzheimer: un evento che avrebbe suggerito allo stesso Velikić l’idea non banale di questo romanzo che ripercorre la sua vita tra gli alberghi che l’hanno attraversata. Il primo ricordo arriva grazie a una fotografia. “Ho un anno. Sono ancora senza ricordi. E’ la mia prima volta in un hotel…” sul retro della foto “Hotel Palace, Ohrid, 22 giugno 1954”.
A Pola è l’Hotel Lipa, dove alloggerà prima che venga assegnata alla loro famiglia uno dei tanti appartamenti che gli italiani in fuga hanno dovuto abbandonare. E sarà a Villa Maria, dimora condivisa con la dirimpettaia, Lisetta, un’italiana “rimasta” il cui destino è legato a un albergo in Grecia, a Salonicco, per essere lei la figlia del proprietario dello “Xenodohion Benedetti” (dal nome della famiglia italiana di Lisetta), albergo che l’autore, nella selva dei ricordi, legati alla stesura del romanzo sulla trama degli alberghi, andrà a cercare.
Ma a Lisetta altri importanti elementi sono collegati. Il primo quando la vede accompagnare al loro appartamento una signora a cui farà d’interprete. E’ la proprietaria dell’appartamento, tornata provvisoriamente dall’Italia nella sua città, che aveva espresso il desiderio di vedere la casa occupata che le apparteneva. Velikić racconta la reazione della mamma: “Dovevi vedere – disse mia madre a mio padre quella sera – mi ha chiesto se poteva fare il giro delle camere. Vedere l’appartamento che un tempo era suo. Dopo si è trattenuta a lungo sul terrazzo, a guardarsi intorno”, mentre il padre, subito dopo commentava “Questa sì che è una perdita. Altro che il nostro vagone a Vinkovci”. Non senza il commento di Lisetta, che userà in altra occasione: “Ci sono persone che riescono a essere felici nelle case altrui”. Oppure, più avanti: “Mia cara signora. Così è la vita. C’è chi perde la città, chi le valigie”.
Il ricordo di Lisetta torna più volte nel romanzo, anche quando, attraverso la sua figura, il protagonista imbatterà nella nobile famiglia triestina di origine tedesca dei von Hutterott, dei quali Lisetta, quando negli anni venti era tornata in Italia dalla Grecia, era diventata molto amica della figlia di questi, Barbara Elisabetta. I von Hutterott, proprietari delle isole di fronte a Rovigno, dove andarono a vivere, furono i pionieri del turismo rovignese, che avrebbero sempre più sviluppato con l’idea di farne una stazione climatica in concorrenza con Abbazia, sulla costa liburnica.
Il racconto della loro sanguinosa fine per mano dei titini nel maggio del 1945 che fa lo scrittore è drammatico. Velikić la scopre per caso, proprio nel corso delle ricerche per questo romanzo, scritto praticamente in fieri e per il quale era tornato appositamente a Pola da Belgrado, dove vive. Ormai senza più l’appartamento a Villa Maria che la famiglia, in quanto serba, aveva dovuto a sua volta abbandonare ai primi sentori della guerra che avrebbe portato alla distruzione della Jugoslavia, si sistema all’Hotel Scaletta. E fa un salto a Rovigno, a pochi minuti di bus, per andare a parlare con la direttrice del locale Museo civico che raccoglie beni, oggetti, lettere e quant’altro era rimasto degli Hutterott e la direttrice, tra l’altro, gli confessa che: “A causa della tragica fine di due membri della famiglia, Mari e sua figlia Barbara, scomparse subito dopo la Seconda guerra mondiale, ci siamo spesso, per non dire sempre, trovati di fronte a un muro di silenzio, a sguardi sospettosi”. Cosa precisamente era successo? Scopre che c’era di mezzo l’Ozna, la polizia politica di Tito, e tra i nomi delle persone che compaiono c’è quello di un certo Vesko Krmpotić, che la mamma un giorno gli aveva nominato quasi incidentalmente, dicendogli: ”Sai, forse avrei dovuto sposarmi con Vesko Krmpotić”.
La curiosità in Dragan si fa, a questo punto, più forte. Per saperne di più, a Pola cerca l’orologiaio Maleša, arrivato a Pola nel 1947 e stabilitosi in uno dei tanti negozi espropriati agli esuli e conosciuto come l’orologiaio di Tito, perché periodicamente veniva chiamato a Brioni, nella residenza del dittatore per aggiustare i vari orologi che aveva (racconta: “Patek Philippe, Certina, IWC Schaffhausen. L’orologio più costoso che abbia mai avuto in mano era il suo Marvin…”). Maleša era stato in confidenza con Lisetta ( “Lisetta? Quella sì che era una tosta. Certo non come Tito, ma comunque capace di cavarsela in ogni occasione”), ed era stata lei a raccontare all’orologiaio cos’era successo alle due donne Hutterot, madre e figlia, nel maggio del 1945: “Le torturarono per ore, accanendosi su di loro, e alla fine le massacrarono a mazzate. Il giorno dopo caricarono i loro corpi su una barca a motore e li buttarono in mare aperto, vicino all’isoletta Bagnola, là dove l’acqua è più profonda. Era la squadra degli esecutori dell’Ozna”. Maleša continua il racconto facendo nomi e cognomi degli autori, tra cui un certo Benussi, rovignese, e quello che fecero dopo della loro roba una volta entrati nel castello, ufficialmente espropriato dallo Stato, di fatto “devastato e svaligiato” dai singoli (che magari, annota Velikić, avevano coltivato la loro invidia per gli Hutterott fin da ragazzi) e che, potendolo fare s’erano introdotti nella loro residenza per dare soddisfazione a quella invidia, depredando tutto (“resti di cibo, bicchieri rotti, scatole di gioielli… ) senza neppure avere la cultura per goderne il valore (“E’ stato proprio negli uffici dell’Ozna che abbiamo trovato una parte dei servizi da tavola più pregiati del castello, nonché tappeti di ogni genere. Un piccolo tappeto persiano è stato in gran parte rovinato a furia di essere usato in corridoio come zerbino”). L’elenco che riporta Velikić nel romanzo, così come la loro destinazione è straziante, a parte i tanti oggetti finiti nel mercato nero.
Impossibile, per uno come me, non dialogare con un libro come questo di Velikić, capace di suscitare emozioni le più diverse, e non solo per queste terribili testimonianze, ma anche altre piacevoli: dalla sorpresa, di quando Velikić, passando per Arsia, della cui zona è originaria la mia famiglia paterna, e dove farà più di una puntata per parlare dell’unico hotel esistente, la pensione Raša, lo vedo imbattersi in un mio caro amico, Marijan Milevoj, storico ed editore della zona (a lui devo la pubblicazione in croato del mio romanzo “Una storia istriana”, lì ambientato) e mi trovo a riconoscere il coraggio di certe affermazioni (“Sbirciare nelle tenebre del 1947, quando colonne di cittadini, futuri profughi, abbandonavano le loro case e appartamenti, e carichi di roba si incamminavano verso il porto per imbarcarsi sulle navi Toscana e Pola) ”, così come, viceversa, provo fastidio per certe reticenze, seppur con ogni probabilità non dovute all'autore direttamente ma alla manipolazione della storia ricevuta negli anni della formazione, del resto non esente neppure in Italia che per anni ha rimosso queste pagine di storia nazionale, conseguenza di una guerra persa da tutti gli italiani. Fastidio, ad esempio, quando lascia intendere con “epoca italiana” la presenza degli italiani solo i pochi anni dell’amministrazione italiana, per cui dopo il passaggio di Pola dagli angloamericani agli jugoslavi, gli italiani “tornarono in patria”, quasi i polesani lasciassero una città non loro, quando Velikić, sa benissimo che la definizione “epoca italiana”, merita un’interpretazione più ampia, intendendo con la presenza degli italiani, della lingua e della cultura italiane, un arco di tempo molto più vasto, di secoli, per cui il loro lasciare Pola ha le stimmate non di un ritorno in Italia, ma di un vero e proprio sradicamento. Lo iato è avvenuto solo dopo il 1947, con l’esodo.
D’altra parte, tutto ciò è molto ben rappresentato quando leggiamo del momento in cui la Jugoslavia prese possesso della città: “Gli altoparlanti pubblici che riecheggiavano discorsi, canzoni e marce partigiane. Sventolavano bandiere. Slogan ovunque. Pannelli con i volti degli eroi del popolo. I cinegiornali immortalavano l’euforia in tutto il Paese, che aveva finalmente conquistato la propria integrità” (ho un sussulto, ma vado avanti e subito dopo leggo) “Ciò che non si vedeva nel repertorio di notizie del cinegiornale, le Filmske Novosti, erano i destini individuali. Città deserta, case abbandonate... un esercito in partenza, un altro in arrivo. Vite di profughi per gli italiani dell’Istria nei campi di concentramento vicino Trieste e Udine.”
So anche che la sua è una Pola diversa. E lo sa anche lui, quando dice che l’Hotel Central, a cui Velikić fa spesso riferimento, è in realtà l’Hotel Impero, così come le vie che lui nomina e continuerà a nominare nel romanzo e dove lui svolgerà la sua vita da adolescente e giovanotto, da via Gupčeva a via Kandlerova a via Prvomajska e così via, appartengono solo alla sua geografia personale. Che non è, ad esempio, la stessa di Lisetta. Parlando di un negozio dove lavorava il padre del suo compagno di banco a scuola, Velikić scrive: “Era uno dei tanti negozietti nella ripida via che sbuca su Narodni Trg, Piazza del Popolo, che Lisetta chiamava Piazza Verdi. Così come chiamava la mia scuola Dante Alighieri e non Moše Pijade”. Sì, sono gli stessi posti, ma appartenenti a geografie dell’anima diverse, a dispetto delle mappe che le riproducono, così come sono diversi i residenti e gli spazi che occupano (mi ricordano i miei genitori che a Fiume, quella che sotto la Jugoalavia si chiamava “Trg Togliatti” e sotto la Croazia “Trg Republike” hanno continuato a chiamarla “Piazza Regina Elena”, neppure interessandosi a come hanno voluto chiamarla dopo).
E, a proposito di Fiume, tra i ricordi di Velikić nel libro c’è anche quello di quando, trovandosi con la madre a Fiume (Hotel Bonavia!) , scendendo da Tersatto per la lunga scalinata che, dal santuario, porta in riva all’Eneo, la sente dirgli : “Una volta tutto quello che vedi là era Italia…” per poi, davanti alla confusione del figlio, ripetere: “Tutta Fiume, Abbazia, Quarnero; un tempo tutto era italiano”. E, in tono di rivolgersi più a se stessa: “I Paesi sono come le persone, nascono e muoiono”. Sarà anche per la Jugoslavia. Cinquant’anni dopo, a Pola, scrive Velikić dallo stesso molo da cui “per quasi tutto l’inverno le navi Toscana, Pola e Grado avevano trasportato i profughi a Trieste e Venezia (…) era salpata una nave carica di famiglie di ufficiali della marina jugoslava”. Anche Dragan abbandonerà Pola. Ma, al contrario del polesano Sergio Endrigo, che avrebbe voluto essere come “un albero che sa dove nasce e morirà”, è potuto tornare in patria, dov’è nato.
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