Lingua, cibo, paesaggio sono - secondo Paolo Rumiz - gli elementi costitutivi dell’ethnos, che si contrappone al concetto moderno di stato-nazione: un popolo che si riconosce in un luogo attraverso le proprie caratteristiche peculiari ma che non sono fisse, al contrario sono in continuo divenire
Da settembre è tornato in libreria Vento di Terra per Bottega Errante Edizioni, un po’ reportage e un po’ brevi saggi che Paolo Rumiz ha dedicato all’Istria, a Fiume, e a tutte quelle terre di mezzo in cui valgono leggi non scritte diverse dai luoghi circostanti. Pubblicato per la prima volta nel 1994, questo libro anticipa La linea dei mirtilli (Editori Riuniti), la raccolta di articoli e saggi dalle guerre in Jugoslavia che Rumiz documentava direttamente sul campo in qu
anto inviato della redazione de il Piccolo, e Maschere per un massacro (Feltrinelli editore): un trittico di opere di natura composita, ma con al centro i cari Balcani, definizione che da lì comincerà a identificare la perduta Jugoslavia.
Vento di Terra prende dunque le mosse da un rapporto molto particolare dello scrittore con la frontiera attorno a Trieste, sua residenza: come Rumiz ha commentato dialogando con la sua casa editrice al Pordenonelegge 2020, “ero molto preso dalla diversità di una terra a due passi da casa mia, oltre un confine che è sempre stato aperto.” E poi continua: “Vivere con questa linea è contraddittorio. Da un lato mi intralcia perché divide, ma è anche una garanzia della permanenza delle diversità.”
Oltrepassare le linee di demarcazione come atto di trasgressione e anche come opportunità di conoscenza: l’essenza della letteratura di viaggio sin da tempi non sospetti. In particolare quando, negli anni ‘90 della turbolenta guerra, l’al di là era rappresentato dal mondo slavo-comunista, un'incognita inquietante per molti italiani, mentre oggi è solo una vaga curiosità. Il governo croato - identificato in Zagabria, come piace dire all’autore - non aveva ancora mosso le proprie mire di conquista sulle frontiere abitate dai serbi, e restava invece in disparte ad osservare con occhio critico l’Istria, una “terra plurale senza paura” perché abitata pacificamente da istro-veneti italiani, sloveni e croati. Come rispondeva l’Istria a quelle pressioni? Rumiz lo riporta in questi reportage, facendo trasparire l’ammirazione e l’attaccamento a quei luoghi e senza preoccuparsi di nasconderlo.
Il lettore affianca l’autore, uno sguardo posizionato proprio sopra la sua spalla e alla stessa altezza del suo: vede gli stessi paesaggi, descritti con grande dovizia, i dettagli della flora, dove talvolta fa capolino qualche lepre o animale di piccola taglia. Gli ulivi sono spesso protagonisti, a volte hanno persino un’identità precisa come la Bianchera istriana, ambasciatori di un ruolo molto importante: determinano non solo la salute della terra, ma anche la sua ricchezza, trattandosi di zone in cui spesso gli abitanti, letteralmente, “tornano alla terra” per lavoro. Rumiz racconta di quegli uomini semplici che facevano dell’Istria un’isola culturale e linguistica, come direbbero oggi un melting pot, insomma un composto disomogeneo di identità diverse che però costituivano in maniera così precisa l’essenza inafferrabile del luogo, il suo genius loci.
Si tratta di terre difficilmente catalogabili, quelle a sud-est di Gorizia, che non rispondono dei confini a cui appartengono e se ne fanno beffa. La questione linguistica rimane una delle più interessanti, come l’esempio della Dragogna e della “difesa del minestrone”, in un’area di dieci chilometri dove esistono tre espressioni diverse per dire la stessa cosa, a sostegno del modo di dire “Ogni linguaggio ha la sua voce” in uso in quelle zone. In altre invece, quella mescolanza crea una “lingua dei vinti” (come fu il greco della koinè durante l’Impero Romano) che è destinata a incrociarsi e imbastardirsi di continuo. A dimostrazione che la periferia di tutti gli imperi è ricca di sollecitazioni e di confini mobili che si spostano.
Lingua, cibo, paesaggio sono gli elementi costitutivi dell’ethnos secondo Rumiz, che si contrappone al concetto moderno di stato-nazione: un popolo che si riconosce in un luogo attraverso le proprie caratteristiche peculiari ma che non sono fisse, al contrario sono in continuo divenire. Per questo e per tante altre ragioni spiegate nel libro, l’Istria viene spesso accomunata alla Bosnia Erzegovina: per la sua capacità di tenere insieme quella famosa pluralità culturale, che oggi invece cede sotto il peso del ritorno dei sovranismi nazionali, ad esempio.
Quale momento migliore dunque per ripercorrere i 14 itinerari di questo libro, in questo momento storico così influenzato dalla fissità e dalla riflessione, per immaginarsi sotto un pergolato istriano con l’immancabile calice di malvasia (altro protagonista vero della raccolta), o per provare ad allenare la mente a una maggiore apertura mentale, quando sarà di nuovo possibile quella dei confini.
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