L'ultimo lavoro pubblicato dal professor Dejan Jović indaga il conflitto degli anni Novanta e la sua narrazione ufficiale nella Croazia odierna. Una recensione
Pochi libri trovano immediato riscontro nella cronaca come l’ultimo lavoro di Dejan Jović, dedicato al ruolo della guerra combattuta negli anni Novanta nelle narrative ufficiali della Repubblica di Croazia.
Laddove una parte importante dell’opera consiste nella descrizione delle pressioni esercitate dal mondo della politica e dagli apparati di Stato perché il conflitto venga definito come esclusivamente difensivo, solo pochi giorni dopo l’uscita del volume si è consumato il suicidio del generale croato Slobodan Praljak, un gesto teatrale compiuto nello sforzo estremo di evitare una sentenza in grado di acclarare il coinvolgimento dell’esercito regolare croato nel conflitto in Bosnia.
Il testo trae l‘abbrivio dalla nota tesi per cui la riforma costituzionale jugoslava del 1974 avrebbe innescato un processo di nation building nelle varie Repubbliche. Nel momento in cui la caduta del muro di Berlino e la conseguente riunificazione tedesca segnalarono tanto la necessità del mondo ex comunista di adeguarsi alle forme dello stato democratico quanto la possibilità di una revisione degli assetti geopolitici della Guerra Fredda, la Jugoslavia entrò in crisi. Nella Federazione infatti la prospettiva di un orientamento democratico fece temere alle repubbliche più piccole di trovarsi in minoranza rispetto al blocco serbo, e alle varie minoranze di trovarsi prive dei diritti concessi dal governo comunista. Un simile timore innescò la secessione tanto delle Repubbliche rispetto alla Jugoslavia quanto delle minoranze nei confronti delle Repubbliche (vennero creati infatti territori secessionisti a base etnica quali la Republika Srpska Krajina, la Herceg Bosna e altri).
Venendo allo specifico croato – l‘autore stesso indica peraltro che i processi innescati in Serbia furono, almeno per gli anni Novanta, assai simili – Jović mette in evidenza il sostanziale debito della leadership nazionalista rispetto al precedente sistema politico comunista, di cui vengono conservate sia le strutture che, soprattutto, i metodi. È questa fondamentale continuità di sistema a permettere l‘ingresso di 97.000 ex membri della Lega dei comunisti di Croazia nell‘HDZ (nell‘SDP ne sarebbero confluiti appena 46.000) (p. 240), partito che si può dunque considerare il vero successore di quello comunista. In perfetta coerenza con il principio stalinista dell’autodeterminazione, alla leadership croata, capeggiata da Tuđman (che ancora nel 1989 dichiarava di essere “croato, marxista e rivoluzionario”), non rimaneva che porre la nazione a obiettivo della palingenesi rivoluzionaria innescata dalla guerra, conflitto che in Croazia viene significativamente definito “Guerra patriottica”(Domovinski rat), lo stesso nome con cui la Seconda guerra mondiale era nota in Unione Sovietica (p. 189).
Delle transizioni iniziate negli anni Novanta, l’unica a rimanere consistentemente è quella “dalla guerra alla pace”, vale a dire la creazione di una società plurale e di un sistema politico effettivamente democratico. Come nella Jugoslavia socialista l’élite al potere aveva avocato a sé la funzione di arbitro, come conseguenza del ruolo svolto nella creazione dello Stato attraverso la guerra partigiana rivoluzionaria, così nella Croazia indipendente tale ruolo è stato assunto dall’HDZ e dai reduci, cui è garantito uno status privilegiato
Il risultato di simili premesse è quella che si può descrivere come una rivoluzione nazionale permanente (l’autore cita come affine l’esempio della Turchia kemalista), il cui obiettivo è l’illimitata omologazione ideologica e nazionale della popolazione. Il lavoro di Jović offre un’agevole chiave di lettura per aspetti della società croata che all’estero vengono tendenzialmente ignorati o fraintesi.
In Croazia l’interpretazione della Guerra patriottica è infatti tutelata da un atto parlamentare, la Dichiarazione sulla Guerra patriottica approvata nel 2000. A riprova del fatto che in tempi recenti la situazione non sia migliorata, ancora nel 2014 il segretario di HDZ e all’epoca leader dell’opposizione Tomislav Karamarko ha dichiarato che “chiunque a casa sua potrà pensare ciò che vuole, ma pubblicamente dovrà rispettare i valori fondamentali dello Stato croato: la Guerra patriottica, i branitelji, i nostri morti, Franjo Tuđman e Gojko Šušak” (p. 213).
Ancora più recentemente, lo schema interpretativo descritto nel libro offre validi spunti di interpretazione sulla singolare protesta di un gruppo di veterani che, accampatisi illegalmente di fronte al ministero dei Reduci di guerra a Zagabria nell’ottobre 2014, vi rimasero per 555 giorni, ovvero fino alla formazione di un governo di centro-destra guidato da HDZ, dopo aver indebolito in vari modi la posizione del precedente governo a guida socialista, proclamato “antipopolare”.
Infine, l’evidente recrudescenza di fenomeni di tipo autoritario all’indomani dell’ingresso della Croazia nell’Unione Europea nel 2013 trova un riscontro nell’interpretazione per cui le politiche di omologazione nazionale ed ideologica connaturate alla leadership croata fossero state attenuate proprio con il fine di completare simbolicamente l’indipendenza nazionale con la partecipazione alla UE e alla NATO, che ha in qualche modo sancito l’allontanamento del paese dai Balcani.
Poiché la valutazione della candidatura della Croazia includeva la verifica delle sue credenziali democratiche, è proprio all’indomani dell’adesione che le politiche descritte sono state perseguite con rinnovato vigore. Dal momento che il rapporto della Commissione europea sulla Croazia del 7 marzo 2018, nel criticare “l’esistenza di categorie privilegiate come quella dei reduci di guerra” sembra quasi recepire alcune delle critiche di Jović, sarà interessante vedere come evolverà la situazione.
*Federico Tenca Montini, dottore di ricerca in storia contemporanea presso le università di Teramo e Zagabria e autore di svariati saggi su riviste scientifiche italiane, slovene e croate
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