Tramonto sulla penisola di Prevlaka (foto L. Zanoni)

Tramonto sulla penisola di Prevlaka (foto L. Zanoni)

Dejan Jović, professore presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Zagabria ed esperto di Balcani, analizza i cinque anni di Croazia nell’Unione europea, contrassegnati a suo avviso dall’intensificarsi della retorica nazionalista e dall’assenza di una chiara politica estera

29/06/2018 -  Sven Milekić Zagabria

Com’è cambiata la politica estera croata in questi cinque anni dall’adesione all’Unione europea?

Il processo di adesione della Croazia all’Ue è stato relativamente lungo e, per molti aspetti, più impegnativo rispetto ai percorsi compiuti da altri paesi candidati, ormai membri dell’Ue, e questo ha provocato diverse frustrazioni. Fino al 2013, in Croazia vi era una diffusa percezione che il paese non avesse alcun controllo sulla propria posizione sul piano internazionale, ovvero che questa posizione dipendesse da altri. Dopo l’ingresso nell’Ue, è cessata questa situazione di attesa e di incertezza che ha a lungo caratterizzato la politica croata. Tuttavia, alcune frustrazioni non sono mai state superate, tra l’altro perché la narrazione politica dominante ha continuato ad alimentarle anche dopo l’entrata nell’Ue.

Una parte dei cittadini croati riteneva ingiusto che l’Ue avesse posto alla Croazia alcune condizioni aggiuntive per l’adesione, inasprendo i criteri di Copenaghen ed esercitando pressioni su Zagabria in merito alla cooperazione con il Tribunale dell’Aja e la risoluzione di alcune questioni specifiche legate alle guerre degli anni Novanta. Ad essere sinceri, queste pressioni non erano né insostenibili né eccessive, e riguardo ad alcune questioni – come il confronto con il passato e il ritorno dei serbi fuggiti durante il conflitto – non c’è stata alcuna pressione da parte dell’Ue.

È inoltre interessante notare che dopo l’ingresso nell’Ue i temi legati all’Europa e all’Unione europea sono scomparsi dall’agenda politica croata. L’adesione all’Ue è stato l’obiettivo strategico della Croazia, ma la domanda è: oggi la Croazia ha una strategia per trasformare la sua appartenenza all’Ue in un espediente per perseguire sia gli interessi nazionali sia quelli comunitari? Penso che la Croazia non abbia alcuna visione del futuro dell’Unione europea né tanto meno idea di come potrebbe contribuire allo sviluppo dell’Ue. Questo però non deve stupire, dal momento che si tratta di un piccolo paese, che solo recentemente è entrato a far parte dell’Ue e pensa con ciò di aver raggiunto i suoi obiettivi.

Si può parlare di una politica estera croata perseguita a livello europeo?

Dejan Jović

La Croazia ha tentato un paio di volte di farsi promotrice di iniziative a livello europeo. Una di queste iniziative risale al novembre 2016 quando il premier Andrej Plenković aveva offerto l’aiuto della Croazia nel processo di reintegrazione pacifica dei territori ucraini occupati. Tuttavia, questa iniziativa si è rivelata un boccone troppo grande per un piccolo paese appena entrato a far parte dell’Unione.

Un’altra iniziativa vede come protagonista la presidente Kolinda Grabar Kitarović ed è solo in parte legata agli obiettivi perseguiti dall’Ue. Si tratta della cosiddetta “Iniziativa dei tre mari”, ovvero del tentativo di dar vita a un’unione economica, politica e di sicurezza tra i paesi situati nei bacini del Baltico, Adriatico e Mar Nero. Fin dal lancio di questa iniziativa, che coinvolge solo i paesi membri dell’Ue, si è cominciato a speculare sul fatto che si trattasse di un tentativo di creare un’unione dentro l’Unione europea, per cui neanche questa iniziativa ha portato a grandi risultati. Il fatto poi che all’ultimo summit dell’Iniziativa dei tre mari, tenutosi l’anno scorso a Varsavia, abbia partecipato il presidente statunitense Donald Trump, non l’ha certo resa più popolare all’interno dell’Ue. Oltre a ciò, la presidente croata non dispone né del potere politico né delle risorse operative necessarie per portare avanti una tale iniziativa, perché il potere esecutivo è nelle mani del governo, e quest’ultimo ha assunto un atteggiamento alquanto “freddo“ nei confronti dell'iniziativa.

Quindi, alla Croazia non resta che occuparsi di quello di cui si è occupata anche prima di entrare nell’Ue, cioè dei Balcani occidentali, anche se la leadership politica croata sosteneva che aderire all’Ue avrebbe significato “uscire dai Balcani“. La Croazia si è trovata così nella situazione paradossale di voler essere influente in una regione che pretendeva di abbandonare. La Croazia ha perso gran parte della sua influenza nei Balcani occidentali proprio perché formalmente non appartiene più a questo gruppo di paesi, per cui dovrebbe elaborare una nuova strategia – coordinata con quella dell’Ue – nei confronti dei paesi della regione. Tuttavia, la Croazia spesso agisce di testa propria, compromettendo i suoi rapporti sia con altri stati membri dell’Ue sia con i paesi dei Balcani occidentali. A volte si tratta di tentativi di dare lezioni agli altri paesi, altre volte – come nel caso della Bosnia Erzegovina – di favorire un determinato gruppo etnico (i croato-bosniaci) a discapito di altri, e questo tipo di comportamento non è visto di buon occhio.

Se guardiamo ai temi di cui si occupano i deputati croati al Parlamento europeo, vediamo che sono particolarmente attivi sulle questioni che riguardano la Bosnia Erzegovina, a prescindere dallo schieramento politico a cui appartengono. Le loro azioni spesso appaiono come tentativi di strumentalizzare la propria funzione non solo al fine di assicurare il raggiungimento degli obiettivi della politica croata nei confronti della Bosnia Erzegovina, ma anche per aiutare i croato-bosniaci a realizzare i loro obiettivi particolaristici.

Per quanto riguarda i rapporti con la Serbia, la Croazia si è già avvalsa della facoltà di porre il veto sull’apertura dei nuovi capitoli negoziali nel processo di adesione della Serbia all’Ue. La risoluzione delle questioni bilaterali verrà probabilmente rimandata fino all’ultimo momento, ovvero fino a quando la Serbia non si troverà ad un passo dall’adesione all’Ue, che non potrà avvenire senza il consenso di Zagabria. La stessa strategia viene utilizzata anche nei confronti del Montenegro, in particolare riguardo al contenzioso sulla penisola di Prevlaka.

La Croazia sta utilizzando la sua appartenenza all’Ue per condizionare il processo di adesione dei suoi vicini. Per intenderci, questa è una strategia legittima, ma poco costruttiva. Anche la Croazia è stata sottoposta a simili pressioni da parte della Slovenia, quando quest’ultima era già diventata membro a pieno titolo dell’Ue, mentre la Croazia era ancora nella fase dei negoziati di adesione. Solo una volta entrata a far parte dell’Ue, la Croazia ha potuto reagire alla decisione, ad essa sfavorevole, di risolvere la questione del Golfo di Pirano tramite un arbitrato internazionale.

Riassumendo, direi che l’atteggiamento della Croazia nei confronti dei paesi dei Balcani occidentali era molto più cooperativo e costruttivo prima del suo ingresso nell’Ue di quanto non lo sia oggi. Prima dell’adesione all’Ue, la politica croata era guidata dall’idea “attraverso i Balcani fino a Bruxelles”, che sottintendeva che la cooperazione con altri paesi balcanici era cruciale per l’ingresso nell’Ue. Oggi invece è guidata dall’idea “attraverso Bruxelles fino ai Balcani”, il che significa che la Croazia sta sfruttando la sua appartenenza all’Ue per raggiungere i suoi obiettivi nei Balcani.

Quando parliamo di tentativi di utilizzare l’appartenenza all’Ue per esercitare pressioni sui paesi candidati al fine di conseguire determinati obiettivi, possiamo aspettarci che la Croazia riesca a condizionare l’adesione di altri paesi nella stessa misura in cui la Slovenia era riuscita a farlo nei suoi confronti?

Ciò dipende, naturalmente, dall’atteggiamento degli altri stati membri nei confronti di ulteriori allargamenti dell’Unione. Se alcuni stati membri dovessero mostrarsi scettici nei confronti di un ulteriore allargamento, la Croazia potrebbe, volendo, condizionare o bloccare il processo di adesione ad esempio della Serbia o della Bosnia Erzegovina. Da sola non può farlo. Nessun piccolo paese membro dell’Ue dispone di un tale potere; i condizionamenti di questo tipo sono sempre espressione di un sentimento ampiamente diffuso all’interno dell’Ue.

Nell’Unione europea vige la regola: “Uno come nessuno”, nel senso che la differenza tra uno e due è più grande che la differenza tra zero e uno. Due paesi rappresentano già un serio ostacolo. Quindi, se l’Europa dovesse decidere che è nel suo interesse accelerare il processo di adesione di tutti i paesi dei Balcani occidentali – e questa, secondo me, sarebbe la cosa migliore da fare, anche se l’atteggiamento prevalente è un altro – i tentativi di bloccare l’adesione di alcuni paesi non sarebbero visti di buon occhio, anzi sarebbero considerati inopportuni.

Dopo l’ingresso della Croazia nell’Ue, si sono verificati anche alcuni notevoli cambiamenti sul piano interno...

Uno di essi riguarda il riemergere della retorica, e in parte la prassi politica nazionalista, che è stata attenuata e relegata in secondo piano – pur non essendo mai del tutto sparita – durante il processo di adesione. Durante i negoziati di adesione sarebbe stato troppo rischioso esprimere apertamente certe idee nazionaliste. La Croazia doveva mostrarsi disposta a cooperare con il Tribunale dell’Aja, ma anche riguardo alla questione dello status delle minoranze. Del resto, questi obblighi derivano dalle condizioni alla base del riconoscimento internazionale della Croazia nel 1992. Tuttavia, dopo l’ingresso nell’Ue è scomparso ogni freno al nazionalismo. L’intensificarsi della retorica nazionalista – soprattutto nel periodo compreso tra il 2012 e il 2016 – è una conseguenza anche dell’emergere di tendenze analoghe in altri paesi membri situati alla periferia dell’Ue, e simili alla Croazia per certi aspetti, come ad esempio la Polonia e l’Ungheria. Il nazionalismo, tuttavia, non è una caratteristica esclusiva dei Balcani né dei paesi dell’Europa centrale – lo abbiamo visto riemergere in Gran Bretagna, che si è auto-emarginata dopo la vittoria dei nazionalisti al referendum sull’uscita dall’Ue.

Anche per quanto riguarda alcune delle riforme adottate prima del 2013, considerate concluse e irreversibili – nel senso che si riteneva che la Croazia avesse riformato con successo la magistratura, il sistema economico e quello politico – , è emerso che le previsioni iniziali erano state un po’ troppo ottimistiche, ovvero che alcune di queste riforme erano state simulate. Nel processo di adesione vale la regola: “Riformatevi o imparate a fingere di averlo fatto”. Insieme ad altre due: “Aumentate il numero dei vostri migliori amici e diminuite il numero dei vostri nemici all’interno dell’Ue” e – questo è un messaggio rivolto innanzitutto ai politici filoeuropei nei paesi dove vi è una diffusa indifferenza nei confronti dell’Ue – “Ignorate l’opinione pubblica”. La Croazia è un paese “euro-indifferente”, dove la maggior parte dei cittadini non è andata a votare al referendum sull’ingresso nell’Ue. I paesi euro-indifferenti non sono delusi di quello che hanno ottenuto entrando a far parte dell’Ue, perché non si aspettavano molto.

Ci può spiegare meglio cosa intende per euro-indifferenza?

È l’atteggiamento dell’opinione pubblica che non corrisponde né all’euro-entusiasmo né all’euro-scetticismo, bensì si basa sull’idea che l’ingresso nell’Ue è inevitabile, perché i principali paesi europei sostengono che “non c’è alternativa”. Quindi, l’ingresso di un paese nell’Ue avverrà quando i più potenti stati membri giungeranno alla conclusione che quel paese è “pronto” per l’adesione, per cui la decisione non dipende tanto dai progressi compiuti dal paese candidato quanto dalle dinamiche politiche interne all’Ue. Il paese candidato non detiene alcun controllo sul processo di adesione, lo detengono altri, pertanto non ha senso essere né pro né contro l’Europa.

Nei paesi dei Balcani occidentali ci sono molte persone che, per quanto riguarda il processo di adesione all’Ue, ragionano in termini di “sarà quel che sarà”, per cui si comportano come oggetti piuttosto che come soggetti di quel processo. Questa considerazione è in parte valida perché la sovranità dei paesi dei Balcani occidentali è condizionata da fattori esterni, tanto che questi paesi non hanno il pieno controllo nemmeno su tutte le questioni legate alla politica interna.

Tuttavia, direi che negli ultimi sette, otto anni l’euro-indifferenza è diventata un fenomeno molto diffuso anche in altri paesi situati alla “periferia interna” all’Ue. Questi paesi ritengono di non aver tratto sufficienti benefici dall’adesione all’Ue, oppure di non essere trattati alla pari di altri paesi membri, o persino che alcune decisioni prese dai più potenti stati membri – come ad esempio quelle riguardanti la crisi dei rifugiati o la politica monetaria – li danneggiano direttamente. Crescono le divergenze all’interno dell’Ue. Oggi possiamo parlare di un’Europa che assomiglia a una cipolla. Vi è un centro, poi vi è il primo cerchio intorno al centro – la cosiddetta “periferia interna” – , poi un altro cerchio, ovvero la periferia esterna dell’Ue che comprende i paesi candidati all’adesione. Infine, vi è un terzo cerchio, molto più attivo dei primi due, che comprende gli attori esterni in grado di incidere sulle politiche europee, come gli Stati Uniti, la Russia e la Turchia, che rappresentano una sorta di alternativa all’Ue, propugnando idee illiberali o persino antiliberali. A questi attori esterni a breve si aggiungerà anche la Gran Bretagna, che cercherà il suo posto tra i paesi della periferia esterna e sarà sempre più attiva nei Balcani occidentali, e questo emergerà già in occasione del prossimo summit dei Balcani occidentali che si terrà a breve a Londra.

Quindi, l’Europa sta diventando una realtà sempre più complessa. La promessa di “un’unica Europa” oggi è sfidata dalla politica di “più Europe”. Nei paesi della periferia europea è sempre più diffusa la convinzione che il centro sia l’unico a trarre vantaggi dall’Ue. D’altra parte, però, questi paesi non mostrano un grande desiderio di uscire dall’Ue, perché temono che in tal caso verrebbero ancora più marginalizzati rispetto al centro dell’Europa, o che potrebbero diventare bersaglio delle pretese della Russia, degli Stati Uniti o della Turchia. C’è chi lo auspica, ma in molti lo temono. Mi sembra che nella periferia interna, compresa la Croazia, stiano emergendo atteggiamenti contraddittori nei confronti dell’Ue. Da un lato c’è chi dice “è meglio che stiamo dentro” perché è l’unica soluzione, o quella meno peggiore, mentre dall’altro lato nessuno mostra un eccessivo euroentusiasmo, e così nemmeno i cittadini croati. Sono in molti a pensare che la Croazia non possa fare più di tanto per rafforzare la sua posizione all’interno dell’Ue.

Prima ha menzionato l’Iniziativa dei tre mari. Pensa che la Croazia potrebbe tentare di rafforzare ulteriormente i legami con i paesi che si stanno già allontanando dall’Ue?

Considerando gli attuali rapporti di forza sulla scena politica croata, penso che la Croazia rimarrà un leale membro dell’Ue. Non mi sembra probabile che la Croazia decida di scontrarsi apertamente con Bruxelles.

Ciononostante, la Croazia, così come gli altri paesi della periferia europea, starà in guardia di fronte alla possibilità che ai bordi dell’Ue si verifichi una situazione bipolare o multipolare in cui l’Ue non sarebbe l’unico protagonista. Il coinvolgimento di attori esterni nella politica interna croata è più forte di quanto non lo fosse in passato, come dimostra il caso del consorzio Agrokor, passato in mano alle banche russe, oppure il progetto di realizzazione di un terminal Gnl fortemente sostenuto dagli Stati Uniti. Sul versante della politica estera, già a partire degli anni Novanta ha preso corpo l’idea di dover avere un’alternativa all’Europa, “un’opzione B”, e questa alternativa erano gli Stati Uniti, il cui appoggio la Croazia cercava nei periodi in cui l’Europa dimostrava scarsa efficacia o si mostrava poco propensa a sostenere la politica croata.

La Croazia si appoggiava agli Stati Uniti quando non era soddisfatta dell’atteggiamento dell’Europa nei suoi confronti, come ad esempio durante le operazioni militari dell’esercito croato del 1995, o più recentemente, riguardo allo stallo nei rapporti con la Slovenia. Questa politica è perseguita anche dall’attuale presidente croata Kolinda Grabar Kitarović, seppur senza grande successo.

Tuttavia, come ho già detto, credo che la tendenza dominante della politica croata rimarrà orientata verso Bruxelles, almeno finché Andrej Plenković sarà premier. Nel frattempo, come accade anche in altri paesi, continueranno a emergere le forze antieuropee, come Živi zid, che insistono sul fatto che l’ingresso della Croazia nell’Ue abbia avuto non solo effetti positivi ma anche quelli negativi. Non bisogna dimenticare che, a partire dal 2004 – anno del primo allargamento dell’Unione europea ad Est – dagli stati membri dell’est europeo sono emigrati 25 milioni di persone. Oltre al deficit demografico, in questi paesi esiste anche un grande deficit commerciale. Così si è creato uno spazio per la manipolazione politica, un terreno fertile per l’emergere di forze antieuropee e antiliberali che propugnano la chiusura delle frontiere, l’abolizione del trattato di Schengen e altre idee populiste.

Per quanto riguarda la politica interna croata, possiamo aspettarci che si continui ad insistere sulle questioni nazionali e identitarie, oppure la situazione potrebbe cambiare, visto il perdurare della stagnazione economica?

Le questioni identitarie continuano ad essere importanti, tanto da costituire l’ossatura dei programmi dei due principali partiti politici croati, l’Unione democratica croata (HDZ) e il Partito socialdemocratico (SDP). La maggior parte dei cittadini croati continuano a votare uno di questi due partiti, nonostante – come dimostrano i sondaggi dell’opinione pubblica – non siano soddisfatti della loro politica. La politica identitaria affonda le sue radici nella storia della Croazia, contrassegnata da momenti di grandi divergenze. In altre parole, nasce dalle fratture geografiche, regionali e culturali che caratterizzano la società croata. Queste divergenze si sono temporaneamente, e solo in parte, attenuate con la definizione di grandi “obiettivi nazionali“, quali l’indipendenza, la reintegrazione territoriale e l’adesione alla Nato e all’Ue. Ora che questi obiettivi sono stati raggiunti, si cerca di creare una divisione artificiale tra “noi” e “loro”, sicché i cittadini votano soprattutto in base a questa logica, piuttosto che in base ai successi e agli insuccessi di diverse politiche pubbliche. Il discorso sulla necessità di unificarsi e mobilitarsi per contrastare il trend demografico negativo ha come scopo quello di dar vita a una nuova “politica nazionale” che dovrebbe porre un freno alla polarizzazione e pluralizzazione della politica croata. Vedremo fin dove arriverà questa retorica.

Quanto all’ideologia nazionalista, essa è stata finora utilizzata come arma contro i serbi e gli “jugoslavi”, nonché contro i “comunisti”, ma oggi è più che evidente che queste idee sono ormai superate. Il nuovo nazionalismo croato sarà sempre più antieuropeo, antiliberale e anti-immigrazione. Sarà legato al neopopulismo di destra, si ispirerà alla politica di Orbán e insisterà sulla riduzione dei diritti individuali, in parte conquistati durante il periodo del socialismo liberale che ha preceduto l’inizio delle guerre in ex Jugoslavia, e in parte durante il processo di adesione all’Ue, al fine di dimostrare che la Croazia era una società aperta.

Tuttavia, per quanto questo nuovo nazionalismo croato possa assomigliare a quello polacco o ungherese, si è dimostrato che in Croazia la società civile e i media indipendenti sono in grado di contrastare alcune tendenze regressive. Penso che l’esito dello scontro tra liberali e antiliberali sarà cruciale per il futuro della Croazia. Al momento, entrambi gli schieramenti hanno la possibilità di vincere, ma a prescindere da come finirà, nessuna delle due opzioni è destinata a scomparire a breve termine. In questo senso, penso che la Croazia non finirà necessariamente come la Polonia o l’Ungheria, perché c’è ancora la possibilità di intraprendere un’altra strada. Una strada che l’HDZ di Plenković sembra aver già imboccato, adottando un atteggiamento filoeuropeo e sorprendentemente liberale, che è in una certa misura in contrasto con le tendenze politiche dominanti in altri paesi.

Per fare un esempio, l’HDZ non si è mai scontrato così apertamente con la Chiesa cattolica come ha fatto recentemente in merito alla ratifica della Convenzione di Istanbul. Contemporaneamente, le sfide poste dalla Chiesa cattolica e dai populisti di destra oggi sono più grandi che mai. Alcune nuove organizzazioni non governative, conservatrici e di destra, godono di un forte sostegno internazionale e fanno parte di diverse reti internazionali. Queste organizzazioni stanno cercando di reinterpretare in modo radicale tutte le conquiste dell’Europa liberalsocialista e quelle dell’umanesimo e del repubblicanesimo croato. Si tratta di un tentativo molto serio, davanti al quale non si possono chiudere gli occhi, così come sono serie le tendenze al revisionismo storico, presenti non solo in Croazia ma anche in molti altri paesi europei. In Croazia le prime tendenze revisioniste sono apparse già nel 1991, quindi prima che nei paesi dell’est Europa. Altrettanto preoccupante è il diffondersi di idee nazionaliste tra la popolazione, così come il ritorno del conservatorismo sulla scena politica croata.

Tuttavia, c’è ancora speranza per la Croazia. Le giovani generazioni stanno dando vita a nuove tendenze progressive. Molti giovani sono stufi della retorica nazionalista e del costante riferimento alle guerre degli anni Novanta. Spero che almeno una parte di questi giovani decida di rimanere in Croazia, impegnandosi a renderla un posto migliore in cui vivere.


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