"Pedalabondo istriano che fa soste contemplative davanti a una quercia così come a uno spomenik, che sceglie di fare tappa in una città d’arte come in una d’industria". Fabio Fiori si avvicina alla conclusione del suo viaggio in bici tra le bellezze dell'Istria
Cicloturista non mi piace e non mi sento. Preferisco cicloviaggiatore o, forse ancor più, pedalabondo, che tiene insieme la gioia del pedalare e la magia del vagabondare. Cicloviaggiatore mi sembra un po’ snob, un volersi per forza distinguere da un fenomeno pervasivo, che sottende tutti i vizi e le storture del turismo. Pedalabondo invece ha qualcosa di fiabesco, una riuscita fusione di uomo e macchina, un nuovo, ecologico centauro, indipendente dalla schiavitù animale e da quella energetica, altrettanto ingiusta. Perché anche chi va in auto o in moto schiavizza risorse comuni, consumando energie fossili. Ma pedalabondare significa anche riscoprire un modo di viaggiare a misura d’uomo, aggiornandolo. Poi magari la bici la carichiamo su un treno o su un aereo, ma il pedalabondo trova comunque il tempo per una relazione carnale con la geografia, con la terra e il cielo. Il pedalabondo è per la modernità e il progresso, aggiorna criticamente alcuni principi del futurismo, ne sperimenta e ne scrive una pagina nuova, un ciclo-eco-futurismo. Così ironicamente aggiorniamo il punto 5 del Manifesto: “Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il manubrio, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita”.
Pedalabondo istriano che fa soste contemplative davanti a una quercia così come a uno spomenik, che sceglie di fare tappa in una città d’arte come in una d’industria. Dopo Arsia, eccomi dunque in un tardo pomeriggio di settembre all’ingresso di Albona, il Municipium Albonesium romano, la Labin jugoslava prima e croata oggi. Qui per 37 giorni nel 1921 sventolò la bandiera della Repubblica di Labin, miracolosamente conservata ed esposta ora al Narodni Muzej Labin. Un’esperienza socialista, passata alla storia come la prima rivolta antifascista. Una storia che non conoscevo, e più in generale poco conosciuta in Italia, ma che irrompe sulla strada entrando più precisamente a Podlabin, Piedalbona, già Pozzo Littorio d'Arsia dal 1942 al 1943, la “seconda” Albona, città di fondazione, la parte nuova sviluppatasi proprio nei primi decenni del Novecento, in relazione agli interessi minerari. Una storia preannunciata da una grande scultura in pietra bianca, posta in un campo ai margini della strada. Scoprirò poi che si tratta di Tri galeba, Tre gabbiani, della scultrice Milena Lah. Realizzata nel 1970 e posizionata proprio su quello che era il confine della Repubblica, in direzione di Rasa. Una storia subito dopo annunciata dalla grande scritta “Tito” che troneggia sulla torre metallica, chiamata Šoht, al centro del dismesso centro minerario. Una storia dettagliata qualche centinaio di metri dopo nella cartellonistica realizzata per celebrare il centenario, posta all’esterno dell’ingresso della Biblioteca Comunale di Albona. Biblioteca ospitata all’interno della “sala dei marmi”, nell'ex edificio amministrativo della società che ha gestito la miniera, chiusa nel 1988.
Così il pedalabondo si perde inaspettatamente nei meandri della miniera e della storia, rievocati dalle fotografie e dai testi che le accompagnano. Prima di salire in paese, pedalo per le strade di Piedalbona, tra casermoni, casecapi (come venivano chiamate le abitazioni più confortevoli del personale qualificato) e villette, tra Torre-Casa Ceva e la Chiesa di San Francesco, fermandomi per una meritato reintegratore salino… alias una pivo ghiacciata nel bar della Piazza dei Minatori, di quella che qui inevitabilmente, per suggestioni metafisiche, torna ad essere Pozzo Littorio d'Arsia. Così il pedalabondo si riprende dalle fatiche e si riperde nella storia, questa volta come di consueto, chiacchierando a un tavolino con Gordan che da ragazzo, per vent’anni a partire dagli anni Sessanta del Novecento, ha fatto il manutentore della Šoht. “La nostra torre Eiffel… anzi più alta, perché da terra s’alza di trenta metri, ma sotto scende per cinquecento!”, mi dice sorridendo e alzando il bicchiere di birra, “Živjeli!”. Sarà Gordan a farmi una breve ma accorata microstoria della miniera, dei tempi d’oro, “oro nero… carbone”, quando ci lavoravano migliaia di persone e di quelli tragici, della grande tragedia di Arsia nel 1940, quando morirono 186 minatori. Ma mi racconta anche dello spirito libertario degli anni Venti e di quello multietnico degli albori, quando qui lavoravano uomini di ogni angolo dell’Impero asburgico. Parlavano lingue diverse, ma si intendevano sull’importanza del lavoro, anche come occasione di riscatto sociale, di necessaria fratellanza.
Raggiungo il centro storico, giusto in tempo per vedere la seicentesca facciata della Chiesa della Natività della Beata Vergine e del teatrino ottocentesco, la fontana celebrativa dell’acquedotto istriano del 1937, la lapide musiva che ricorda la Repubblica di Albona, con tanto di logo, motto: “Kova je nasa”, “La miniera è nostra” e data: 1/III/1921. Per godermi poi il crepuscolo con vista sul mare della terza albona: Portalbona, il porto diventato località turistica, oggi la più affollata almeno d’estate. Sono sul balcone-belvedere di San Marco, sugli antichi bastioni meridionali; aria fresca e luce metallica, che trasformano le sottostanti acque del golfo in una lamina preziosa. “Ci volgiamo alle cose che di noi nulla sanno, / all’albero che dirama e ci sovrasta, / a ogni luogo appartato, ogni silenzio; / …” e io alzo gli occhi dalla numero 63 delle Poesie sparse di Rilke per volgere lo sguardo al cielo, ai cirri che sono graffi bianchi, alle rondini che sono lapilli neri.
PS
Alla tragedia di Arsia (Rasa) è dedicato un articolo di Giorgio Di Giuseppe, pubblicato su OBCT. Mentre per entrare virtualmente nella ricca storia etnografica dell’Istria segnalo la pagina FB del Museo di Albona e il sito istituzionale , che mette in rete alcuni importanti musei istriani.
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