È un belvedere poetico quello di Cittanova. Una bella loggia, costruita nel XVI secolo e più volte rimaneggiata. Un piccolo spazio protetto, con tre arcate che si aprono su un Adriatico antichissimo. Quinta tappa della pedalata istriana di Fabio Fiori
L’inaspettata, interessante sosta al Monastero di Danja mi costringe a un rapido passaggio a Cittanova che meriterebbe molto più tempo. Mi limito invece ad attraversare il centro storico, a entrare nella cattedrale, a una breve pausa nell’ombra ariosa del Belvedere. Una bella loggia, costruita nel XVI secolo e più volte rimaneggiata. Un piccolo spazio protetto, con tre arcate che si aprono su un Adriatico antichissimo, solcato dai coloni greci e poi da quelli romani che fondarono questa città, chiamandola Emonia. Un belvedere poetico, che invita alla contemplazione o alla lettura. Per riascoltare voci antiche leggo Delfini di Rilke, esseri “felici e spensierati, invulnerabili” che accompagnano da sempre il navigante nella sua “perigliosa solitudine”.
Solo una quindicina di chilometri separano Cittanova da Parenzo, un vero gioiello veneziano, un sestiere che, con fiabesca fantasia, immagino andato alla deriva in un nebbioso inverno di tanti, tanti secoli fa. La sua relazione con la Serenissima è antichissima, perché nel 1267, “prima fra le città istriane, si dette spontaneamente a Venezia”. Una storia lunga e intrecciata, perché dopo lo spopolamento causato da piraterie e pestilenze del XIV e XV secolo, venne ripopolata da candiotti, morlacchi e albanesi. Un legame con l’oriente mediterraneo che è però di mille anni precedente e lo si può far partire con la vita e le architetture di Eufrasio e della sua Basilica, capolavoro di stile bizantino ravennate. Parenzo, così come Rovigno, è stata costruita su una piccola penisola protesa a ovest, proprio in direzione di Venezia. La sua riva meridionale è un sicuro approdo naturale, protetto da Scirocco, Ostro e Libeccio dall’isola di San Nicola e dagli altri isolotti che formano una corona. Una geografia felice che ammiro dalla cima del campanile, alto 35 metri, uno dei tanti pinnacoli costieri istriani. Seduto sul suo massiccio parapetto sommitale, ho davanti a me un Adriatico che commuove e, parafrasando Jean-Claude Izzo, mi appunto sul taccuino che “davanti al mare la spiritualità è una cosa semplice”. Una spiritualità potentissima, che respiro anche all’interno della basilica, al cospetto del ciclo musivo dell’abside che ha contribuito a far diventare la basilica Patrimonio Culturale dell’Umanità.
Ma la bici è musa e arpia, dolce ispiratrice che regala visioni celesti e spietata sovrana che obbliga tempi precisi. Tempi che dilatano la percezione dinamica e restringono la sosta contemplativa. Perciò devo rimettermi in bici, volendo raggiungere Rovigno prima del tramonto. Distanza 40 chilometri, dislivello 400 metri, insomma almeno due ore e mezza in sella, con la bici carica; che diventeranno sicuramente quattro, tra soste previste e impreviste.
Ad Orsera la prima. Il paese è un nido di gabbiani costruito all’ingresso del Canale di Leme, uno dei fiordi più spettacolari dell’Adriatico. Lì in una grotta visse l’eremita Romualdo, giovane nobile ravennate inquieto, poi frate benedettino, che peregrinerà tra le due sponde adriatiche, fondando diversi monasteri e dando vita alla Congregazione Camaldolese. La strada che pedalo corre in alto tra una fitta macchia mediterranea che nasconde il canale, una splendida incisione nella pietra d’Istria, che lì è stata estratta per secoli. Ría la chiamano i geologi, lunga quasi dieci chilometri, larga solo 500 metri, con pareti verticali alte fino a centocinquanta metri, via via più basse fino ad arrivare al fondo, dove incomincia la più larga Valle di Leme. Da qui la D75 risale, in direzione di Pola, ma io dopo qualche chilometro svolto a destra per andare a Rovigno. Una decina di chilometri su una strada trafficata che mi porta direttamente in Val di Bora, un toponimo che per me anemofilo vale il viaggio. Ma cos’è l’anemofilia? Una smodata, spesso insana, passione per i venti. Quelli che riempiono le vele dei marinai, ma anche le fantasie dei sognatori. Perciò da inveterato anemofilo negli anni ho compilato una mia personale anemotoponimia, un catalogo di luoghi legati al vento. E chi più della Bora è regina d’Istria, anzi una vila istriana, una maga, una fata, una fanciulla invisibile che può essere amabile o furiosa, maschile o femminile per i triestini a seconda dell’intensità. Ed è un piacevole Borìn serale quello che mi accoglie all’arrivo a Rovigno. Una dolce brezza che mi invita a un tuffo rigenerante, da uno dei moletti della spiaggia di Val di Bora, prima di piantare la tenda nel campeggio retrostante.
PS
I venti riempiono le mie vele da quando ero bambino. I venti li inseguo per mari, terre e pagine. Ai venti ho dedicato un libro, Ánemos. I venti del Mediterraneo, da pochissimi giorni ripubblicato in versione molto ampliata da Mursia. Ai venti adriatici ho dedicato un racconto che potete leggere online .
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