Fabio Fiori e la sua bici fanno tappa a Pola. L'incontro inaspettato con la stazione ferroviaria, da poco restaurata ma con pochissimi treni che la attraversano, snodo della Ferrovia istriana risalente alla seconda metà del XIX secolo
“Il Golfo di Pola, in fondo al quale si trova la città, costituisce il più bello, ampio e sicuro porto dell’Adriatico Superiore”, scriveva Luigi Vittorio Bertarelli, nella Guida d’Italia, dedicata alle Tre Venezie. Chissà se Bertarelli arrivò mai a Pola in bicicletta? Lui che insieme ad altri 56 velocipedisti fondò nel 1894 il Touring Club Ciclistico Italiano. Il TCCI, quello che qualche decennio dopo perse malauguratamente la seconda C di ciclistico. Un cambiamento che idealmente sancisce la sconfitta della bicicletta, sostituita da rombanti automobili, motociclette e autocorriere, i nuovi mezzi del nascente turismo di massa. Bertarelli invece, geografo, speleologo, viaggiatore e scrittore, sperimentò la bicicletta e ne fece la sua macchina preferita. “Ero rimasto alpinista e camminatore; ma dal giorno in cui ho provato la bicicletta, in verità, ho capito quanto valga il ciclismo, ne ho sposato la causa e mi son fatto ciclista”, scrive nel 1897. Bertarelli, insieme a un nutrito gruppo di velocipedisti, si lanciò alla scoperta dell’Italia, su strade ancora quasi esclusivamente bianche, ma sfruttando per gli spostamenti anche il treno, perché le rotaie ormai andavano dalle Alpi alla Sicilia.
Ed è proprio la ferrovia, la mia inaspettata scoperta polesana. Avevo già visitato il centro storico veneziano e il monumentale lascito romano, conoscevo bene la sua storia navale e avevo visitato le fortificazioni austroungariche. Ma non avevo mai visto la stazione e tutta la limitrofa zona urbana ottocentesca, oggi un po’ decadente. Diverse volte mi ero chiesto dove andassero quei binari che partivano dallo Scoglio Olivi, collegato alla terraferma, che è da secoli il cantiere di Pola. Ma non li avevo mai seguiti, né per terra, né per carte, né per rete.
Questa mattina invece, dopo aver preso un caffè in un bar, all’interno dello storico Mercato Coperto, un gioiello secessionista che festeggia l’anno prossimo (2023, NdA) i centoventi anni, sono sceso alla Riva. E lì, dopo aver sostato un po’ per leggere e respirare aria portuale sulla panchina vicina al cancello dei cantieri Uljanik ho rivisto i binari. Leggo online sul sito de Il Manifesto, un articolo che racconta la chiusura dei cantieri, avvenuta nell’autunno del 2019. Una storia lunga un secolo e mezzo, che ha coinvolto centinaia di migliaia di polesani, operai, tecnici e ingegneri, che si sono dati il cambio di generazione in generazione. Gente che, come scrive Christian Elia, non ha nessuna intenzione di diventare cuoco o cameriere, barista o affittacamere. Ma sono quei binari, che corrono alle mie spalle in direzione nordest, che mi incuriosiscono oggi.
“Dobro jutro. Buongiorno”, dico a un vecchio seduto su uno sgabello, che sta pescando con due lunghe canne, vicino alla panchina.
“Buongiorno. Dimmi”, mi risponde in maniera un po’ burbera, senza distogliere l’attenzione dai galleggianti.
“Parla italiano?”
“Sì, dimmi”
“Sa dove vanno questi binari?”
“Alla stazione. Seguono le rive”, mi dice alzandosi e indicando.
“Di qui passavano materiali e pezzi di diverso tipo. Mi ricordo bene il traffico, negli anni Cinquanta, quand’ero bambino”.
“Poi anche io sono entrato a lavorare in cantiere. Come mio padre, figlio di pescatori. Entrambi carpentieri metallici. Abbiamo saldato tutta la vita”, continua cambiando registro sonoro e avvicinandosi.
“Ho appena letto che sono stati chiusi qualche anno fa”.
“E già! Stop …gotova priča. Qui costruire navi non rende più. Ma possiamo vivere di solo turismo? Ho due figli. Un maschio che ha studiato ingegneria e lavora in Germania. Guadagna e vive bene. L’altra invece, più piccola ha quasi trent’anni, ha studiato storia a Zagabria e fa la guida turistica qui, almeno per ora. Perché le piace, ma quello che prende non basta. Lavora solo pochi mesi all’anno e guadagna poco”. Arriva un suo amico che saluta e gli chiede qualcosa in croato.
“Vada, vada a vedere la stazione. L’hanno restaurata da poco, anche se di treni se ne vedono pochissimi”. Saluto entrambi con una stretta di mano, salgo in bici e seguo i binari. Tempo incerto, banchine semideserte, traffico feriale, vecchi palazzi decadenti. Qui il waterfront non è stato ancora rinnovato, la Pola turistica è lontana dalle rive. Cinquecento metri e appare l’Arena a destra, mentre il binario che segue la banchina piega a sinistra. Il nuovo molo d’attracco dei traghetti a sinistra, giardini ottocenteschi a destra. Parco Regina Elena, leggo sulla mia vecchia guida del TCI. I binari incominciano a moltiplicarsi, capannoni a destra e la stazione davanti a me. Binari vuoti, solo una gloriosa motrice FS835.040 a ricordo dei tempi andati del vapore. Oggi sulla Ferrovia Istriana, costruita dagli austroungarici nel 1876 che collegava Pola a Divaccia in Slovenia, nodo ferroviario minore sulla linea Trieste-Vienna, i treni sono un paio al giorno, semivuoti e arrivano solo a Pinguente, Buzet.
Il cielo schiarisce e devo rimettermi in sella, in direzione sud, verso Capo Promontore, Rt Kamenjak. Ma prima devo fare un tuffo anche qui, nelle acque portuali polesane, limpidissime. Acque dove per decenni i cittadini venivano a nuotare, nel Bagno Polese inaugurato nel 1886, di cui avevo letto sulla guida del TCI e di cui trovo in rete una bellissima cartolina. Mi asciugo al sole, leggendo altri versi di Rilke. “Il tuo tintinnio / m’ha gettata lontano. E non so dove sono. / Nessuno mi può riportare indietro.”.
PS
Il reportage che racconta la storia e la chiusura dei cantieri Uljanik di Pola è disponibile online .
Alla Ferrovia Istriana è invece dedicato un articolo pubblicato nel 1976 sull’Arena di Pola, anche questo disponibile online .
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