Il regista e sceneggiatore croato, Rajko Grlić negli anni '90 è finito "tra gli emarginati, nemici del regime". Ha quindi deciso di lasciare il paese con la propria famiglia, rifiutandosi di condurre una vita dettata da un gretto nazionalismo. Un'intervista
(Originariamente pubblicato sul settimanale sloveno Mladina, poi ripreso dal portale Radio Gornji Grad il 23 giugno 2023)
In questi giorni, preparando un libro delle mie interviste realizzate per il Feral , ho letto una lunga conversazione che intrattenemmo in quel fosco, terribile 1993, quando nel cosiddetto nuovo stato democratico finimmo per essere inclusi nella bella comitiva di emarginati e nemici del regime. Già allora, noi cosiddetti traditori della Croazia, iniziammo una discussione tra amici chiedendoci se fosse più facile emigrare o rimanere e vivere un esilio interiore. Oggi credo che le due strade fossero ugualmente difficili. Tu cosa ne pensi?
Sì, anch’io penso che andarsene fosse tanto difficile quanto rimanere. Conoscendomi però giunsi alla conclusione che sarebbe stato meglio partire con la mia famiglia, anche perché non ero sicuro di essere capace di chiudermi in me stesso, vivere un esilio interiore e stare zitto, un atteggiamento che a quel tempo, nel mio caso, sarebbe equivalso ad una condanna alla povertà. L’unica differenza è che la partenza comporta una sofferenza che, secondo me, è diversa da quella provata da chi resta, diversa perché contiene anche una dimensione dell’ignoto, un’aura di incertezza, confusione e perplessità su dove e come andare. Poi, soprattutto nei primi anni, ci si trova davanti ad un dilemma particolarmente difficile: rimanere all’estero o ritornare?
Il protagonista del tuo film Čaruga, o meglio la storia della sua vita da ribelle si è rivelata profetica, preannunciando il tuo destino. Eppure, nel corso di quella conversazione di trent’anni fa spiegasti il motivo della tua decisione di lasciare la Croazia con una semplice affermazione: ‘Me ne sono andato perché avevo la sensazione di essere di troppo’. Non provavi forse anche una certa ripugnanza, il rifiuto di condurre una vita dettata da un gretto nazionalismo?
Certo. Mi sentivo completamente inutile in un ambiente che da un giorno all’altro aveva iniziato a trasformarsi in una realtà diametralmente opposta alla mia concezione del mondo. Il nazionalismo – con cui il socialismo per anni aveva flirtato con grande efficacia, al contempo mantenendo un atteggiamento di intransigente ostilità nei confronti di qualsiasi pensiero di sinistra – era diventato l’unico modo consentito di pensare e di agire. E quando il nazionalismo diventa l’ideologia del potere è inevitabilmente aggressivo, non solo dal punto di vista ideologico, ma anche nella vita quotidiana. Minacce telefoniche, urla in strada, liste di proscrizione, il bussare alla porta… per citare solo alcune delle azioni che – noi che ne fummo vittima lo avremmo capito solo molto tempo dopo – non venivano messe in atto da individui in preda alla follia, bensì facevano parte di una campagna di persecuzione organizzata dallo stato con l’intento di costringerci ad allinearci al potere o ad andarcene per sempre.
Negli anni di guerra molti comportamenti orribili venivano giustificati proprio con la guerra o, per dirla col linguaggio ufficiale, con l’aggressione alla Croazia. Ma è davvero possibile giustificare tutta quella malvagità – sfratti improvvisi, denunce, licenziamenti, distruzione della produzione culturale – invocando lo stato di guerra? Allo stesso tempo però, gli “artisti” di regime, come Antun Vrdoljak – che durante la guerra, da direttore della Radio televisione croata, aveva ripulito l’emittente pubblica dalla “quinta colonna” – venivano generosamente finanziati dallo stato. Così Vrdoljak ottenne una cospicua somma di denaro per la realizzazione del film General, un guazzabuglio inguardabile con cui il suo autore, insieme agli altri artisti di regime, fece assurgere il kitsch a standard culturale. Come possiamo oggi superare questa cultura del kitsch ormai profondamente radicata?
Il nazionalismo si nutre di odio. È del tutto normale che un essere umano intriso di odio cerchi la felicità dall’altro lato di quello spettro in bianco e nero, nel mondo edulcorato, nel kitsch. Il nazionalismo e il kitsch convivono sempre felicemente. Giusto per chiarire, per me il kitsch è tutto ciò che si spaccia per qualcos’altro. È così che il nazionalismo croato ha partorito i suoi grandi “artisti”, dagli scrittori Ivan Aralica e Hrvoje Hitrec ai registi Jakov Sedlar e Antun Vrdoljak, solo per citarne alcuni. Le loro “opere” sono prodotti più o meno kitsch, serviti pomposamente su un tovagliolo di carta a quadretti rossi e bianchi.
Come commenti il fatto che tutti gli esponenti di spicco del partito di Tuđman, come anche Tuđman stesso, quindi un ex generale dell’Esercito popolare jugoslavo (JNA), si siano trasformati da comunisti incalliti in nazionalisti incalliti? Non è forse vero che questa dinamica si era rivelata un punto debole di tutti i paesi dell’est Europa dopo il crollo del comunismo?
Leggendo il libro Politika i domovina [La politica e la patria] di Josip Manolić, una straordinaria fonte di informazioni sulla trasformazione del socialismo in nazionalcapitalismo, ho scoperto molte cose su quel connubio tra comunisti, membri dell’Udba [servizi segreti jugoslavi], Chiesa e diaspora da cui è nata quella che oggi chiamiamo Repubblica di Croazia. I protagonisti di quello sviluppo avevano cambiato in fretta la propria concezione del mondo, adattandosi ad una nuova situazione, al contempo flirtando esplicitamente con l’ideologia ustascia e con una Chiesa in diaspora ormai radicalizzata. Peccato che questo libro, compreso il secondo volume uscito col titolo Špijuni i domovina [Le spie e la patria], non sia finito nelle mani di un buon redattore capace di compendiarlo radicalmente e renderlo così più leggibile e ancora più micidiale. Ad ogni modo, lo consiglio vivamente a tutti quelli che vogliono studiare il camaleontismo come atteggiamento politico dominante da queste parti.
Durante la formazione dello stato croato, a guidare lo schieramento nazionalista era stato proprio il generale Franjo Tuđman, che di certo non si poteva vantare di chissà quale intelligenza. La Slovenia invece, guidata da Milan Kučan, aveva intrapreso una strada completamente diversa…
È vero. Tuđman, come ben noto, non era dotato di grande intelligenza. Dapače [termine croato che significa anzi], come dicono a Zagabria. Per uno strano gioco di circostanze, il responsabile del personale della JNA era diventato responsabile dei dipendenti di uno stato. Le persone assunte da Tuđman lo avevano proclamato Dio, padre della nazione, ricostruttore di un sogno centenario, e così via. Per una persona come Tuđman non era difficile cedere a queste lusinghe e comportarsi in linea con esse. Anche l’attuale HDZ, così come l’attuale presidente della Croazia, che fingono di mantenere posizioni politiche opposte, continuano a giurare su Tuđman. Così facendo, non permettono alla Croazia di allontanarsi, anche minimamente, da idee che continuano a riportaci indietro nel tempo, fino al Medioevo.
La Slovenia invece ti sembra diversa?
Negli ultimi sei mesi mi sono spesso recato in Slovenia, chiedendomi in continuazione perché a questi due paesi, Slovenia e Croazia – e ancor di più alle loro capitali, una Lubiana così raffinata e una Zagabria ormai completamente trascurata – siano toccate sorti così diverse. Ne ho scritto anche per il portale Telegram e, cercando una risposta a questo interrogativo ho iniziato a riflettere sulle origini nei nostri stati. Perché come sappiamo, da Aristotele ai giorni nostri, il primo atto è sempre stato fondamentale per ogni dramma, ogni romanzo, ogni film e, volendo seguire questa logica, probabilmente anche per ogni stato. È il primo atto a stabilire le regole del gioco, a generare tutto il resto. E nel primo atto il ruolo principale spetta al protagonista. È il protagonista a incidere in modo decisivo su ciò che accadrà nel secondo e nel terzo atto. È lui a dettare il tono generale della storia.
A guidare la Croazia al momento della sua nascita era stato proprio il generale Tuđman, responsabile del personale della JNA che con le sue idee, e ancora di più con le sue azioni, nascondendosi dietro al paravento del grande patriottismo, aveva imposto la regola della corruzione e della rapina, dando il tono iniziale al primo atto. La Slovenia invece, al momento della nascita dello stato indipendente, era stata guidata da Milan Kučan, il quale si recava al lavoro con la propria macchina, ma solo dopo aver accompagnato la moglie al lavoro. Un uomo che frequentava gli intellettuali, spesso trascorrendo notti intere a discutere con loro su cosa funzionava e cosa non funzionava in Slovenia. In parole povere, in quel momento cruciale la Slovenia era stata guidata da un uomo normale. Ed è qui che risiede la differenza sostanziale. In Croazia a dettare le regole del gioco era stato un generale frustrato che immaginava di essere tre volte più grande di quel che era, ordinando di creare una bandiera raffigurante la corona di un impero mai esistito; un comunista convertito, ossessionato dal generalissimo Franco. In Slovenia invece le regole del gioco era state dettate da un giurista tranquillo e del tutto modesto che era semplicemente se stesso, senza mai rinnegare il proprio passato, cercando di trasformare la Slovenia in un paese capace di sfruttare appieno le proprie potenzialità, né più né meno.
So che non provi alcuna amarezza né per quello che avevi subito prima di trasferirti in America né tanto meno nei confronti di quelli che nella Jugoslavia del secondo dopoguerra avevano mandato i tuoi genitori sull’isola di Goli Otok affinché – questo valeva soprattutto per tua madre – “si riformassero” e “tornassero sulla retta via”. Anch’io custodisco la testimonianza dei miei genitori che erano rimasti segnati dalla paura, avendo trascorso mesi in attesa di essere portati a Goli Otok. Eppure nemmeno io percepisco il nostro ex paese comune esclusivamente attraverso il prisma dell’amarezza. Invece alcuni nostri amici, emigranti degli anni Novanta, hanno sempre nutrito una certa amarezza, che semplicemente li ha consumati dentro. Non credi che l’umorismo sia molto più sano ed efficace?
Sì, credo che l’umorismo e l’ironia – cose che ho imparato da molto giovane durante i miei studi nella Praga mitteleuropea – siano gli strumenti più efficaci nella lotta contro la becera stupidità. Il mio film Samo jednom se ljubi [Si ama una volta sola], definito come “melodramma politico”, fu vietato per “motivi politici”, mentre la commedia U raljama života [Nelle fauci della vita] che, secondo me, è molto più blasfema, non venne censurata in alcun modo perché non sapevano come affrontarla. Così ho imparato una lezione importante: i politici semplicemente non sanno come combattere le risate.
Per quanto riguarda la mia amarezza, sono cresciuto in una famiglia dove un sogno giovanile e utopico, trasformatosi in incubo, per diversi motivi rischiava di provocare amarezza. Eppure, i miei genitori, nel desiderio di vivere e di recuperare la gioia di una giovinezza rubata, avevano deciso di non guardare indietro, stando ben attenti a non intossicare me e mia sorella col rancore. È il regalo più bello che ci potessero fare.
Quanto invece all’amarezza dell’esilio, recentemente a Labin, partecipando ad una tavola rotonda dedicata agli artisti in esilio, con Slavenka Drakulić e Rade Šerbedžija ho discusso di quell’esilio che ci rode dentro fino a diventare fatale. Ho parlato di due donne, Mira Furlan e Dubravka Ugrešić, con le quali ho avuto l’onore di collaborare alla realizzazione di diversi film, donne che alla fine hanno pagato caro quell’amarezza, quell’atteggiamento intransigente per cui ogni ritorno al sistema dal quale e per il quale ce ne siamo andati equivale alla capitolazione e al collaborazionismo. A mio avviso, le loro morti premature, pur avendo cause totalmente diverse dal punto di vista medico, sono accomunate proprio dall’amarezza dell’esilio che le ha consumate dentro, portando i loro corpi al collasso.
Come spieghi la forte propensione alla vittimologia, molto diffusa da queste parti, cioè la tendenza al ranoholizam [termine coniato dal giornalista Viktor Ivančić per descrivere una costante propensione ad alimentare le ferite, ossia uno sforzo ideologico finalizzato a impedire alle ferite di guerra di rimarginarsi, ndt.], a esumare i resti mortali dalle fosse e a fare a gara a chi ha subito maggiori perdite e a chi ha fatto più morti?
Quando vivi un presente lontano dalla normalità, e il futuro sembra così incerto e vago, non ti resta che rovistare nel passato. Un po’ come le vecchiette che, sedute in cucina accanto alla stufa a sorseggiare il caffè turco, amano più di qualsiasi cosa parlare della morte, di chi e come se n’è andato nell’aldilà. Se è vero, com’è vero, che il nazionalismo si nutre di odio, è altrettanto vero che anche il più stupido dei politici sa che il modo più facile per mantenere vivo il nazionalismo è rovistare nel passato, contando “le nostre e le loro vittime”.
Hai a più riprese sottolineato di voler stare alla larga dalla politica. Non credi però che tutto quello che hai dovuto affrontare – dalla messa al bando dei tuoi film nell’ex Jugoslavia al tentativo di renderti la vita impossibile nella nuova Croazia – in realtà sia una sorta di politica? Perché i popoli ex jugoslavi, a differenza dei paesi democratici normali, tendono ad occuparsi esclusivamente della politica, invece di dedicarsi alle loro piccole e grandi attività quotidiane?
Qui tutto è politica, perché eravamo un piccolo paese, poi ci siamo ulteriormente ristretti fino ad occupare un’area grande quanto una città di medie dimensioni, un’area che però continua ad essere governata da un numero abnorme di politici e di burocrati che dipendono dai politici. In America, proprio perché si tratta di un grande territorio, per quanto in quei cinque anni la politica di Trump si sia rivelata deleteria per gli Stati Uniti e, di conseguenza, per il mondo intero, nella vita quotidiana non si percepiva, come invece si percepisce qui, quella presenza, quel predominio assoluto della stupidità politica di cui tutto è impregnato, dagli schermi televisivi alla carta igienica. [In America] hai il diritto, o almeno l’illusione di poter condurre la tua vita quotidiana evitando che venga direttamente intossicata con la politica. Ci sono anche i media che non si lasciano piegare da quella politica, quindi hai la sensazione di poter ottenere anche informazioni veritiere, non solo fake news. Da noi tutto questo risulta molto più difficile. La stragrande maggioranza dei media [croati], tra giornali e varie emittenti televisive, dipende economicamente e, di conseguenza, politicamente, dal governo. I quotidiani hanno sostituito con grande successo il vecchio Glasnik HDZ [Il Messaggero dell’HDZ, organo di stampa ufficiale dell’Unione democratica croata, il principale partito al potere in Croazia]. Il bello è che le due parti unite in questo connubio innaturale ormai non lo nascondono più.
Inoltre, oggi in Croazia la politica, per via dell’influenza esercitata dalla Chiesa, è molto più conservatrice rispetto al passato. Alcune cose che persino in quella “oscurità” [degli anni Novanta] erano consentite – oppure la politica fingeva di non accorgersene – oggi sono inconcepibili. Qualche giorno fa, su un’emittente radiofonica alternativa, ascoltavo un gruppo di musicisti rock che mandavano in onda canzoni degli anni Ottanta, canzoni che, come sostenevano i musicisti in questione, oggi nessuno registrerebbe, semplicemente perché nessuna emittente accetterebbe di trasmetterle per via dei loro testi disinvolti.
In diverse occasioni ho sentito dire, anche da persone intelligenti, che non tutti i nazionalismi sono necessariamente deleteri. Io invece credo che non esista un nazionalismo buono. Secondo te, qual è il punto in cui il nazionalismo si trasforma in fascismo? Ritieni che quanto sta accadendo oggi ad esempio in Serbia contenga qualche elemento di fascismo, considerando che tutto il potere è concentrato nelle mani di un uomo, peraltro assai squilibrato?
È quell’antico discorso sulla differenza tra patriottismo e nazionalismo. Un patriota ama la propria città, il proprio villaggio, la propria terra, il proprio paese. I nazionalisti invece, per poter provare tale amore, devono prima odiare qualcuno. A mio avviso, ogni nazionalismo, proprio per via dell’esclusivismo che lo caratterizza, prima o poi si trasforma in fascismo. La logica del nazionalismo semplicemente non ammette eccezioni. Non esiste buono o cattivo nazionalismo, esistono il patriottismo, che possiamo scegliere di coltivare o meno, e il nazionalismo, la cui principale fonte di energia, ossia l’odio, finisce inevitabilmente per trasformarsi in fascismo che, a sua volta, sempre sfocia in scontri e guerre.
Come possiamo opporci ad una leadership politica, come quella croata, che continua ostinatamente a screditare l’antifascismo, al contempo incoraggiando l’utilizzo del saluto ustascia, ignorando il fatto che in molte città croate ci sono ancora delle strade intitolate ai criminali ustascia? Come siamo arrivati al punto in cui intere generazioni sono talmente indottrinate da considerare il campo di concentramento di Jasenovac come un luogo irrilevante sulla mappa dei crimini? Come vedi queste manipolazioni e il revisionismo storico, soprattutto considerando che quasi l’intera famiglia di tua madre, di origini ebraiche, fu vittima di persecuzioni da parte del regime ustascia dello Stato indipendente di Croazia (NDH)?
L’atteggiamento ipocrita del governo croato verso il fascismo, ossia verso quella variante locale del male nota come ustaštvo [ideologia ustascia], è imperdonabile. Il governo, insieme alla Chiesa, coltiva il culto delle “vittime di Bleiburg”, fingendo di non sapere che le vittime di Bleiburg erano principalmente membri dell’esercito ustascia che [nel 1945, durante la ritirata verso l’Austria dopo la resa della Germania nazista] utilizzarono i civili come scudo umano. Per di più, quello ustascia fu l’unico esercito in Europa ad aver continuato a combattere a guerra finita, dopo che tutti gli altri eserciti collaborazionisti si erano ormai arresi. Ritengo discutibile l’idea secondo cui, essendo tutti ugualmente degni di compassione, il carnefice e la vittima meriterebbero lo stesso rispetto. Quando mai si è visto il governo tedesco rimpiangere l’esercito nazista e la Chiesa celebrare una messa in onore dei nazisti?
Nel saluto ustascia Za dom spremni [Per la patria pronti] – che l’attuale governo croato ripudia a gran voce all’estero, al contempo però rifiutando di distanziarsi apertamente da esso per esigenze interne – si condensa l’intera storia delle bugie e dell’ipocrisia su cui continua a poggiare la politica ufficiale della Croazia. Io tendo a semplificare al massimo questa storia in cui passato e presente si intrecciano, e sostengo che se fossi stato membro dell’esercito ustascia anche solo per due giorni, avrei avuto una pensione più alta di quella che ho ottenuto dopo aver lavorato quarant’anni portando in Croazia oltre cento riconoscimenti internazionali.
Ormai è risaputo che il sistema educativo croato non funziona, che migliaia di libri “scomodi” sono stati bruciati e che quasi tutti i monumenti antifascisti sono stati distrutti. Come valuti l’attuale stato di salute della cultura croata? Ritieni che in uno stato ottuso, clericale e corrotto, come quello croato, la cultura possa contribuire in qualche modo a migliorare la situazione sociale?
Temo di no. In Croazia la cultura certamente non può opporsi a quell’ambiente ottuso, clericale e corrotto con un’azione collettiva o con un movimento. Nello “splendore” di oggi, come nella “oscurità” di allora, le escursioni individuali nell’ignoto sono l’unica opzione a disposizione delle persone dotate di un minimo di coraggio e di audacia. Tali azioni sono sempre state formidabili eccezioni, e ogni giorno lo sono sempre di più, eccezioni che però, purtroppo, non fanno cultura. Il partito al potere, l’Unione democratica croata, ha letteralmente ucciso la cultura. Gran parte della responsabilità grava però anche sui cosiddetti “kulturnjaci [esponenti del mondo culturale], artisti e intellettuali” che, avendo flirtato con il nazionalismo negli anni Novanta, oggi ne pagano le conseguenze, dipendendo totalmente dallo stato e dall’attuale ministra della Cultura, una persona del tutto incompetente, che si sforza sistematicamente di insabbiare il passato vedendovi una scomoda prova del fatto che in Croazia c’era vita anche prima dell’HDZ. Qui la cultura e l’arte hanno decisamente perso la battaglia contro la politica, diventando realtà subalterne, spogliate di ogni prestigio, per non parlare della capacità di influire sulla società. Di conseguenza, la politica tende a trattare la cultura con il disgusto di un padrone che, pur sembrando educato, in realtà disprezza profondamente i suoi servi.
Attualmente vivi tra America e Croazia. Pensi che un’ottima accoglienza riservata al tuo interessante libro Neispričane priče [Le storie mai raccontate] in – come si suol dire oggi – tutta la regione, la possibilità di lavorare ad alcuni film e di ottenere spazio nei media possano in qualche modo compensare ciò che è andato perduto, alleggerendo il fardello della lunga emarginazione? Quando torni a casa, in Croazia, cosa vedi intorno a te?
Purtroppo, vedo tanta tristezza e frustrazione, poca gioia di vivere e allegria. Tanta rabbia e rancore, accompagnati da una forte tendenza a rinunciare a tutto e a rassegnarsi alle condizioni in cui si è costretti a vivere. Quanto a me, non credo che qualcuno possa o debba compensarmi per ciò che è andato perduto né cercare di alleggerirmi retrospettivamente il peso dell’esilio. Innanzitutto perché io quegli anni non li considero affatto persi. Ho vissuto un’altra vita in un altro continente, facendo cose diverse e fuggendo convulsamente dal cliché di un rifugiato frustrato che non fa altro che sognare vendetta. Certo che all’inizio è stato difficile, certo che all’età di 47 anni non è facile semplicemente iniziare una nuova vita e rimanere se stessi. Però quella cesura drastica mi ha aiutato a mettermi in discussione con molta calma, a ritrovarmi, per quanto sia possibile ritrovarsi a quell’età, e a costruire un nuovo campo da gioco dove poter giocare nuovamente. Quel gioco si è rivelato essere la mia felicità interiore. Avendo ritrovato la felicità, ho dimostrato a me stesso che nessun regime o individuo può togliermela. Questo mi ha dato un’immensa sicurezza. Come dice la mia Ana, è Tuđman che dobbiamo ringraziare. Senza di lui nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile. Non so però come spiegare a chi me lo chiede, figuriamoci a me stesso, il fatto che tutto ad un tratto, dopo trent’anni di assenza, io abbia cominciato a godere di grande spazio mediatico, per di più nei media pubblici rigidamente controllati.
Riesci a fare un paragone tra il mestiere del cinema in ex Jugoslavia e oggi in Croazia? Come trovare le risorse necessarie per realizzare un film in un paese, come la Croazia, che continua a destinare cifre vergognosamente basse alla cultura? Quante difficoltà avete dovuto affrontare e quanto tempo avete speso tu e Ante Tomić raccogliendo risorse per i vostri film, tra cui Karaula [Posto di frontiera] e Ustav Republike Hrvatske [La Costituzione della Repubblica di Croazia]? Stai perdendo la speranza per i progetti futuri?
Tra le molte differenze partirei da quelle riguardanti la produzione. In Jugoslavia, ogni repubblica federale aveva una propria industria cinematografica, e su questo fronte la situazione non è cambiata dopo la dissoluzione del paese. Quindi, non è mai esistita, a parte forse nei primi anni del secondo dopoguerra, una cinematografia jugoslava. Ciascuna delle cinematografie delle repubbliche jugoslave fu controllata dagli sceriffi politici locali. Se entravi in conflitto con questi sceriffi, potevi andare a lavorare in un’altra repubblica federale, dove ai potenti locali non importava quello che stavi facendo poiché il compito di controllare un regista spettava ai politici della sua repubblica di provenienza. Così Žika Pavlović realizzò diversi film a Lubiana, Branko Bauer a Skopje, e io, dopo essere stato bandito dal cinema croato a seguito dell’uscita del mio film Si ama una volta sola, andai a Belgrado, realizzando nella loro produzione il più zagabrese dei miei film, Nelle fauci della vita. Oggi, invece, chi non viene ammesso ad un bando di finanziamento statale non può, per motivi burocratici, richiedere risorse in nessun altro paese europeo, compresi i paesi vicini. La burocrazia ha capito come tenere sotto controllo chi non è allineato al potere.
Quindi, i giovani di oggi si trovano in una situazione assai più difficile, sono costretti a girare film in condizioni molto più dure e, purtroppo, tendono ad accettare tali condizioni. Quanto a me e Ante, dopo il film La Costituzione della Repubblica di Croazia, per punirci, per ben due volte ci hanno esclusi dai bandi di finanziamento indetti dal Centro audiovisivo croato (HAVC). A quel punto ho detto: “Basta. Non mi lascio più umiliare”. Però Ante ha insistito: “Per favore, proviamo ancora una volta. Voglio che nella mia biografia ci sia scritto che dopo La Costituzione, il film croato più premiato di sempre, ci hanno negato il sostegno tre volte”. Quindi, abbiamo riprovato una terza volta, è andata bene, e adesso, in condizioni davvero misere, per non dire umilianti dal punto di vista economico, stiamo preparando un film dal titolo provvisorio Svemu dođe kraj [Tutto finisce]. Intanto continuo ad andare in giro cercando ulteriori risorse, manca solo che io mi metta in mezzo alla piazza e, allungando la mano, inizi a ripetere: “Signore, dia due soldi ai poveri, Dio la aiuterà”.
Negli ultimi dieci anni le risorse destinate [dallo stato croato] alla realizzazione di lungometraggi sono state quasi dimezzate come conseguenza della tendenza della ministra competente a manipolare l’HAVC, a partire dalla rimozione di Hrvoje Hribar dall’incarico di direttore. Una tendenza che ci costa caro e non contribuisce in alcun modo allo sviluppo del cinema croato.
A differenza della realizzazione di un film, che è sempre un progetto collettivo, la scrittura implica la solitudine. Come e perché hai deciso di trasformare i tuoi appunti, raccolti nel corso degli anni, in un libro? Sei rimasto sorpreso dal grande interesse suscitato dal tuo libro che ad oggi ha avuto diverse ristampe?
Non ero partito con l’idea di pubblicare un libro. Nel corso del mio esilio lungo trent’anni avevo raccolto diversi appunti nel mio computer, per poi decidere ad un certo punto di sistemarli con l’intento di lasciarli ai miei nipoti nati in America in modo da far loro conoscere alcune vicende precedenti alla loro nascita. Poi Ante ha visto questi appunti, parlandone con l’editrice Marina Vujčić, la quale ha insistito per quasi un anno, titillando la mia vanità, sollecitando il mio ego, e così alla fine è uscito il libro. Ad oggi il volume ha avuto diverse ristampe in sette paesi e mi ha dato grande gioia, cosa che di certo non mi aspettavo.
Continui a percorrere in lungo e in largo le nostre terre, quindi sai che da Belgrado alla Slovenia – dove tu peraltro sei particolarmente benvenuto – passando per Skopje, esistono ancora forti legami tra amici e artisti [provenienti da diverse repubbliche ex jugoslave]. Eppure, assistiamo a polemiche piuttosto accese sulla presunta “illusorietà”, se non addirittura nocività del postjugoslavismo, tanto che persino questo termine viene considerato una parolaccia, non solo da parte della destra, ma anche da alcuni rinomati politologi, ex membri della Lega dei comunisti della Jugoslavia, che in quella stessa Jugoslavia godevano di uno status molto migliore di quello riservato a noi, registi spregiudicati e giornalisti disobbedienti…
Ritengo che tali polemiche siano sciocche e che chi le porta avanti stia sostanzialmente cercando di ripulire il proprio passato comunista, cosa che “i nostri intellettuali” fanno ormai da una trentina di anni. Continuano a confondere due concetti distinti: da un lato, il concetto di ordinamento statale, ossia di regime politico, e dall’altro uno spazio culturale unito da una lingua più o meno comune. I regimi passano, lo spazio culturale e la lingua restano come l’unica costante di queste terre che con tanta nonchalance cambiano regimi e confini. Similmente a quanto accade negli attuali piccoli paesi [post-jugoslavi], anche in Jugoslavia i politici delle repubbliche federali, nella lotta per i propri piccoli imperi, rigidamente recintati, cercarono di dividere queste terre, che però furono mantenute in vita, in modo quasi artificiale, proprio dalla cultura e dalla lingua.
Come possiamo costruire un futuro comune insieme ai nostri vicini se le élite politiche mantengono un atteggiamento fazioso e revisionista nei confronti del recente passato e se ogni riferimento ad una responsabilità collettiva, per non parlare della colpa, ad esempio per lo smembramento della Bosnia Erzegovina da parte della Croazia [durante la guerra degli anni Novanta], viene considerato scandaloso?
Temo che sarà difficile. Qui, attraverso il sistema scolastico e la Chiesa, intere generazioni sono state educate in una bolla nazional-clericale unidimensionale. Se a questo aggiungiamo le nuove tecnologie con le quali e dentro le quali i giovani vivono ventiquattro ore su ventiquattro, temo non ci sia molto spazio per l’ottimismo. Forse il tempo, un periodo di tempo tremendamente lungo, si porterà via tutto. Un incorreggibile ottimista come me non può che sperare.
La serie Grlom u jagode [The Reckless Years/ Gli anni spericolati] è un progetto collaborativo realizzato [nel 1975] da te e il regista belgradese Srđan Karanović. Nel corso di quell’intervista del 1993 mi avevi detto di pensare che qualcosa di simile non sarebbe mai più stato possibile. Però ti eri sbagliato, no?
Ammetto con grande gioia di essermi sbagliato. Di brutto. Il primo film che ho realizzato qui dopo quindici anni di assenza, Karaula del 2005, è ufficialmente la prima coproduzione post-bellica che ha visto coinvolti tutti i paesi sorti dalle ceneri dell’ex Jugoslavia. Una collaborazione che però non è rimasta limitata agli aspetti tecnici e finanziari. La realizzazione di questo film è stata un’occasione per riunire i migliori attori, scrittori e operatori del cinema di tutti i paesi post-jugoslavi. Ricordo la gioia provata da questi straordinari professionisti nel lavorare nuovamente insieme dopo tanti anni. Il cinema, come gioco collettivo, ha capito per primo – seguito poi dalla televisione – che, quando si tratta di produzione, i confini politici contano ben poco e che, considerando che in gran parte dello spazio ex jugoslavo si parla più o meno la stessa lingua, siamo inevitabilmente orientati gli uni agli altri dal punto di vista culturale, ma anche per quanto riguarda il mercato.
Soffermiamoci infine sui tuoi progetti per il futuro, visto che sei nel fiore degli anni. Qualche nuovo libro? Un altro film? E gli occasionali ritorni in Istria, come li vivi? A me sembra che i margini – dove ormai si sono ritirati molti letterati, cineasti e artisti croati – offrano un punto di osservazione privilegiato per riflettere sullo stato di salute, tutt’altro che buono, della nostra società…
Innanzitutto ti ringrazio per aver definito i miei settantasei anni come fiore dell’età. Tale definizione mi lusinga ma, come diceva il compagno Tito: “È pure un impegno!”. Si vede sempre meglio osservando a distanza, soprattutto se la distanza è grande e se contiene elementi di una veduta a volo d’uccello.
Nell’osservare la mia patria mi ha aiutato molto il mio soggiorno a Praga e poi in America. Una volta a Londra, per più di due mesi ero impegnato nella post-produzione di un film. Ad aiutarmi c’era anche un uomo di Zagabria. Trascorrevamo insieme intere giornate in studio, vivendo anche nella stessa casa. Pur avendo notato alcuni piccoli cambiamenti nel suo comportamento, non ci avevo dato molta importanza finché un giorno, nel grande salotto della casa, non aveva acceso un falò su un vecchio tappeto persiano, indossando un paio di giacche a vento, cercando di scaldarsi come se fossimo nel bel mezzo dell’Antartide. Quando poi erano arrivati i vigili del fuoco, la polizia e i produttori, chiedendomi come mai non mi fossi accorto prima che quell’uomo, a quanto pareva ormai da tempo, soffriva di una grave forma di schizofrenia, avevo cercato di giustificarmi affermando che ero sempre con lui e che per questo non mi ero reso conto di quella trasformazione causata dalla malattia. Semplicemente gli ero troppo vicino. Lo stesso in un certo senso vale per le società. Occorre distanziarsi da una società per poter vedere il suo vero volto.
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