Vent'anni fa, tre volontari del movimento di solidarietà partono in auto da Trieste per Spalato. La loro meta è l'ufficio del Consorzio Italiano di Solidarietà, aperto pochi mesi prima nella città dalmata. Una pagina di diario pubblicata nel contesto del progetto Cercavamo la Pace
Silenzio assoluto. Nell’auto pare essersi fermato il tempo. Fuori quattro soldati croati, dai quali aspettiamo il via per proseguire su un ponte transitabile costruito su chiatte. Il ponte che avremmo dovuto attraversare era quello di Maslenica, ora ridotto in macerie. Bombardano. Sembrano botti di capodanno, ma non portano allegria. Da quel giorno non potrò più sopportare nemmeno la lontana eco di fuochi artificiali o semplici petardi. Ogni volta, ancora oggi, sussulto come fosse quel giorno. Il mio primo incontro vis à vis con la Guerra.
E’ il 14 novembre del 1993. Che "culo", penso. Oggi è il mio compleanno, potrei lasciarci le penne all’esatta età di 28 anni. Sulla lapide, la data “14.11.1965 – 14.11.1993” potrebbe sollevare l’ilarità di amici e parenti: “Guarda! Come sempre Nicole deve sorprenderci, anche nel giorno della sua morte!”. Ho nello zaino lo spumante che mi sono portata dall’Italia. Arrivati a Spalato all’ufficio del Consorzio Italiano di Solidarietà, volevo festeggiare con i volontari conosciuti negli ultimi mesi. E se aprissi ora la bottiglia per sbronzarmi? No, impossibile scendere e tirarla fuori dal bagagliaio, potrei farmela addosso dalla paura.
Ecco, danno il via. Hanno contato il lento susseguirsi della caduta delle granate. Sanno che ora i serbi si fermeranno per ricaricare le armi. O meglio - penso in quell’istante - per ricominciare a sparare con maggior successo sulle auto e sugli autobus, che a passo di lumaca attraverseranno quel ponte di fortuna sull'Adriatico. Ma che ca... ci sto a fare qui?! Chi me l’ha fatto fare di partire per la Croazia in guerra, solo perché conosco la lingua e c’è da risolvere un problema nei campi profughi della Dalmazia, dove operano volontari italiani?!
Marco infila la prima e l’auto si muove. Siamo sul ponte di chiatte. Avanziamo per un tempo che mi sembra durare ancora oggi. Desidero correre, come faccio all’alba lungo i Navigli di Milano per cercare di superare la media dei 13 chilometri l’ora. Qui stiamo andando a cinque, penso. Se scendessi dall’auto e mi mettessi a saltare da una chiatta all’altra, arriverei molto prima e salva. Forse.
All’improvviso tremo e con me l’auto. Un boato spacca i timpani, una voragine si apre ad alcune decine di metri da noi. I finestrini che sembrano tenere solo perché lo vogliono loro. Silenzio. Non ci sento più, ma siamo a terra. Ora si infila la quarta: via, via, via. E’ una strana sensazione pensare che il bombardamento potrebbe aver ucciso qualcuno. Non c’è tempo, ridi isterico dentro di te perché TU sei ancora vivo. Poi, lentamente, con il calare dell’adrenalina sale la paura. Anzi, il terrore. Perché con il diradarsi della nebbia dell’incoscienza, sai che quel colpo poteva essere per te.
Spalato. Case di pietra bianca, leggera brezza, strade deserte. Giorgio Cardone, responsabile dell’ufficio Ics e Andrea Righini, arrivato da poco come volontario “semplice”, ci aprono la porta dell’appartamento. “Fatto buon viaggio?” chiede il primo sorridendo, dandomi la sensazione di nascondere a mala pena un sorriso ironico. Andrea più silenzioso, quasi schivo o forse disturbato dal nostro arrivo, pronuncia un “Ciao” salito da chissà quali viscere. Stanze tappezzate di manifesti, foto di persone forse passate prima di noi, foglietti promemoria di non so cosa.
Poi una cartina geografica che traccia gli spostamenti delle linee dei fronti in Croazia e in Bosnia Erzegovina. Per me sono le “mappe Risiko”. Piene di linee nere e punti rossi, tratteggi e asterischi, incomprensibili scritte cifrate, sono redatte con cadenza settimanale dall'Unprofor (la forza di peacekeeping istituita dal Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite nel febbraio del '92).
La mappa della guerra per professionisti, insomma. La guardo e mi ricordo con ironia che quando da bambina giocavo a Risiko con i miei fratelli, perdevo regolarmente. Incapace di entrare nella logica della strategia degli attacchi a sorpresa, dell’acquisto di carri armati e delle temporanee alleanze tra due giocatori, con l’obiettivo di fare piazza pulita degli altri.
“A guardare sembra un gioco, vero?” mi dice Giorgio quasi mi leggesse nel pensiero. “Sì, un gioco terribile dove le pedine non sanno ancora di esserlo” conclude lapidario scuotendo leggermente il suo codino biondo. Vent’anni dopo, quella frase appuntata sul mio diario di viaggio rappresenta un’analisi illuminante. Pedine non coscienti di essere usate per arrivare alla conquista di territorio e risorse, all’annientamento totale dell’ “altro”, alla pulizia di qualsiasi forma di resistenza e convivenza pacifica. Questo è stata la dissoluzione della ex-Jugoslavia.
Le nostre chiacchierate vengono interrotte da telefonate dall’Italia, di persone del massiccio movimento di solidarietà nato negli ultimi due anni. Le parole si mischiano al suono dei fax in arrivo: liste di generi alimentari da distribuire o elenchi di persone scappate dalla Bosnia in attesa di essere accolte in Italia. Decidiamo di stappare lo spumante. Marca di media qualità, bevuto in quella situazione mi pare champagne francese.
I racconti di Giorgio e Andrea viaggiano su binari paralleli. Da un lato ironia e sarcasmo, dall’altra serietà assoluta. Ci preparano al giorno dopo, in cui dovremo incontrare le autorità croate che gestiscono i campi profughi nell'area spalatina. In questi campi abbiamo piazzato da settimane regolari turni di volontari, coordinati dal "Network Ics Dalmacija" di cui io e Sara Chiappori siamo responsabili da circa due mesi. Il compito dei volontari è aiutare gli accolti ma anche osservare che vengano rispettati i diritti minimi: un luogo dove dormire e pasti decenti. I profughi sono in gran parte musulmani (bosgnacchi) di Bosnia.
Da quando in Bosnia i croati e i musulmani hanno rotto l’alleanza contro i serbi e son diventati nemici, in Croazia i profughi bosgnacchi non sono benvenuti. La polizia ha cominciato a minacciarli, a sbatterli fuori, per strada. La caccia al “non-croato”, secondo voci che non abbiamo possibilità di confermare, si abbatte anche sui cittadini di Spalato. Dicono che gli uomini vengono arrestati e portati al fronte a raccogliere cadaveri o mandati al massacro sui campi minati, o addirittura incarcerati e torturati perché sospettati di essere delle spie del nemico.
Nei campi, i profughi raccontano che i responsabili locali si intascano i generi alimentari per piazzarli sul mercato nero, mentre nella mensa vengono distribuiti pasti striminziti. Ora le autorità ci chiedono di pagare gli arretrati dei pasti che i nostri volontari hanno consumato finora! Pasti finanziati al governo croato dalla comunità internazionale. Mischiati agli aiuti che arrivano anche dai nostri camion, raccolti in estenuanti sit-in davanti ai supermercati delle tante città d’Italia da dove proveniamo.
Notte fonda, fumo di sigaretta, parole e risate si intrecciano nell’aria. Sono ad uno sputo da casa, un’ora di aereo, eppure sono in un altro mondo. Là il traffico di Milano, la movida dei Navigli accanto a casa mia, gli amici davanti alla tv a sorbirsi chissà quale noioso dibattito politico. Qui, l’assurdo. Ecco, la parola giusta è: assurdità.
Ascolto Giorgio e Andrea, rapita e sorpresa. A tratti rabbiosa. Questo paese è anche il mio paese, dove ho parenti e amici con cui ho passato tutte le mie estati. Ma per la prima volta mi sento una straniera: non può appartenermi un paese che fa questo a uomini, donne, bambini e anziani. Un paese in guerra.
Prima di stendere a terra i sacchi a pelo, Andrea mi si avvicina. “Se senti degli spari, non è nulla. Sono solo giovani croati arruolati che quando tornano in licenza si sfogano, girando per le strade pieni di alcol”. Giovani, arruolati, ubriachi. Anch’io sono giovane e ora anche un po’ brilla. Ma non mi hanno obbligato a indossare la divisa e sparare. Una fortuna, penso. Una fortuna sfacciata che io sia donna e che io viva oltre Adriatico.
Ringrazio Andrea per il suo gentile tentativo di rassicurarmi. Purtroppo non chiuderò occhio, rigirandomi nel sacco a pelo come uno strudel. Non per gli sporadici spari in aria che costelleranno la notte ma per una domanda che mi assillerà fino al mattino: questa è anche la mia guerra?
Vent’anni per darmi una risposta. Lo era eccome. Semplicemente perché esisteva, sulla terra in cui vivo, che colpiva uomini e donne come me. Io non ho pagato con dolore e morte solo grazie alla fortuna sfacciata di abitare due passi più in là. Uno sputo, appunto.
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