Nessun premio alla 71ma edizione del festival di Cannes - ed è un'eccezione - per il regista turco Nuri Bilge Ceylan. Invece premio per la regia nella sezione Un certain regard per Sergei Loznitsa per “Donbass”, un film tra i migliori dell'intero festival
È la prima volta che il regista turco Nuri Bilge Ceylan torna a mani vuote dal Festival di Cannes . Nel 2014, era rientrato con la meritata Palma d'oro assegnatagli per “Il regno d'inverno – Winter Sleep”. In precedenza, dal Gran Prix per “Uzak – Lontano” nel 2003, che l'aveva fatto scoprire a molti, in poi aveva sempre ottenuto riconoscimenti prestigiosi. “Ahlat agaci – L'albero di pere selvatico” è una nuova riflessione sull'esilio, sul fallimento, sullo scendere a compromessi, sul rapporto con la terra d'origine e con il padre. Un'opera dal respiro romanzesco (chiamando come numi tutelari Franz Kafka e Lev Tolstoj, oltre al solito Anton Checov), strutturata su lunghi episodi molto parlati che funzionano come confronti del protagonista con diversi aspetti della vita.
Sinan è un giovane che, dopo la laurea, sta preparando il concorso per insegnare e cerca di pubblicare il suo primo libro. Dalla città di Canakkale, sullo stretto dei Dardanelli, torna torna a casa, un villaggio dell'interno nei pressi di Can. Se la distanza è piccola, i due luoghi evocano mondi molto diversi. Da una parte il turismo, il marketing legato ai luoghi della battaglia di Gallipoli o di Troia, con il modello del cavallo di legno usato nel film “Troy” visibile sul lungomare; dall'altra i ritmi lenti, il paesaggio agricolo, una società dove le relazioni familiari sono più strette. Subito Sinan si imbatte in un paesano che gli chiede indietro un presunto debito del padre, insegnante con la mania del gioco e l'ossessione di scavare un pozzo tra i campi, contro il parere di tutti in un punto dove l'acqua pare non esserci. Ceylan procede quasi a capitoli, ciascuno un incontro. C'è la telefonata con il compagno di studi che ora è militare e parla della repressione delle proteste a Istanbul. C'è il casuale imbattersi in Hatice, alla fontana a prendere l'acqua, vecchia amica con la quale fare un bilancio sentimentale e ritrovarsi in un momento di intimità che è tra le perle del film. Ancora gli antichi compagni, rispetto ai quali si sono imboccate strade diverse e con i quali ora prevalgono la gelosia e la distanza. Le discussioni con lo scrittore affermato Suleiman, che il protagonista accusa di cedere ai compromessi per ottenere il successo. Il confronto con il nuovo imam sulle interpretazioni del Corano.
Tanti temi e atmosfere (nell'ultima parte c'è pure la nevicata) sono in comune con “Il regno d'inverno”, in particolare il fallimento e la frustrazione degli intellettuali, qui giovane e non di mezz'età come nel lavoro precedente. È un film sui ricordi del passato, le occasioni mancate, il scendere a patti, sull'accettare la natura umana, le scelte di vita e cercare il proprio posto nel mondo. Si è figli della propria epoca, del proprio tempo, sembra dire l'autore. Sinan sembra battersi contro l'opacità, gli scambi di favori, gli interessi e i tornaconto personali, si scontra contro le logiche della politica, ma è a sua volta vittima del proprio egocentrismo. Ha sempre accusato il padre, che ha sperperato al gioco i soldi, e ne replica i difetti, compresa l'inconcludenza. Se nessuno legge, dovrà accorgersi che l’unico a leggere il suo libro è proprio il genitore. Forse la conclusione è che siamo destinati a continuare a scavare i pozzi dei nostri padri, testardamente alla ricerca dell'acqua.
Ha ottenuto invece la Palma di miglior attrice Samal Yesyamova, protagonista di“Ayka” di Sergei Dvortevoy. Un film che racconta pochi giorni nella frenetica e tormentata esistenza di Ayka, venticinquenne kirghisa immigrata a Mosca, che all'inizio abbandona in ospedale il neonato che ha appena partorito per riprendere il posto di lavoro. La chiamano insistentemente al telefono, tanto che dovrà cambiare scheda, e ha un disperato bisogno di soldi per pagare la macchina per cucire con cui vorrebbe aprire un negozio. Intanto soffre per un'emorragia.
È il sogno russo di un'immigrata dall'Asia ex sovietica, che sogna di aprire una sua attività. Assiste a un corso su come diventare ricchi, che magnifica le possibilità offerte dalla città di Mosca, e ovunque ci sono manifesti dei prossimi Mondiali di calcio. Nel contempo si sentono la diffidenza e il razzismo verso gli immigrati, ci sono frequenti controlli sui permessi, con relative minacce di denuncia e “deportazione”. La critica alla Russia di oggi, con il lavoro clandestino, lo sfruttamento di lavoratrici e lavoratori, gli approfittatori, la prepotenza diffusa, le minacce ricorrenti, è presente anche se non troppo sottolineata.
Dvortevoy, kazako di nascita, aveva già vinto il premio Un certain regard a Cannes nel 2008 con l'esordio “Tulpan”. Lo stile stavolta è completamente diverso, il regista pedina la protagonista, le sta molto addosso con la macchina a mano, ricorda “In the Dark” come stile di riprese. Ma l'effetto è molto diverso: se in quel documentario c'era empatia con l'anziano cieco protagonista, qui sembra che cavalchi l'odissea e la sofferenza di Ayka in modo sentimentalmente ricattatorio. Una vicenda prevedibile, piatta, con un brutto parallelo tra la cagna che deve allattare i cuccioli e la donna. Samal Yesyamova regge la pellicola e il premio ci può stare, anche se sarebbe stato forse più azzeccato alla polacca Joanna Kulig magnifica interprete di “Cold War” di Pawel Pawlokowski, melodramma ai tempi della Cortina di ferro.
Il premio per la regia nella sezione Un certain regard è andato a Sergei Loznitsa, ucraino che vive in Germania, per “Donbass”, un film tra i migliori dell'intero festival. Il regista di “My Joy”, “Anime nella nebbia”, “A Gentle Creature”, “Maidan” o “Austerlitz”, lavora sia sul terreno del documentario sia su quello della finzione con pari risultati. Una pellicola che inizia e finisce sul set di un film in lavorazione. Loznitsa cerca di mettere in scena l'orrore e la follia della vita quotidiana nell'Ucraina di oggi, attraverso diversi episodi che si susseguono, tra dramma e grottesco, con il primo che prevale. Per quanto sia riconoscibile la mano decisa del regista con i suoi lunghi piani sequenza, si respira l'atmosfera di alcuni lavori di Alexei Balabanov e di Pavel Lungin oltre a “La polveriera” di Goran Paskaljevic per la struttura e il cercare di comporre il quadro di una terra in preda a una violenza assurda mettendo insieme diversi tasselli. C'è un disinteresse diffuso verso ciò che accade, mentre si pagano le conseguenze di un passato cristallizzato e mai elaborato: dopo aver accusato di fascismo e minacciato un giornalista tedesco che cerca solo di fare il suo lavoro, i soldati filorussi concludono che “almeno tuo nonno è stato fascista”. Una situazione sul filo del precipizio, dove si cerca di trafficare e fare affari, mentre l'altro da sé può essere solo solo nemico.
Loznitsa sembra voler tenere disperatamente insieme i pezzi e non risparmia nessuna delle due parti in lotta, né l'Ucraina, né gli indipendentisti della parte orientale. La fine che attende truccatrici e attrici del film ammonisce che non è possibile raccontare davvero ciò che sta avvenendo in quel Paese.
Se la commedia italiana “Troppa grazia” di Gianni Zanasi (“A domani”, “Non pensarci” e “La felicità è un sistema complesso”) con Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston e Valerio Mastandrea ha vinto il premio Label Europa Cinéma della 50° Quinzaine des realisateurs, nella stessa sezione è stato presentato “Teret – The Load” del serbo Ognjen Glavonić. Un regista conosciuto per l'esordio “Dubina dva – Depth Two” (2016) e per il documentario “Zivan makes a Punk Festival”. È la primavera 1999 e sono da poco iniziati i bombardamenti Nato sulla Serbia. Leon Lučev interpreta Vlada, un uomo di Pančevo che ha perso il lavoro e cerca di arrangiarsi per mantenere la famiglia. Accetta così di compiere trasporti con un camion dal Kosovo a Belgrado. Sul carico non si sa nulla e non si chiede, il cassone è chiuso, ci sono poche essenziali disposizioni da rispettare e soprattutto un orario di consegna. Il protagonista conosce già il da farsi, parte ma trova il ponte bloccato ed è costretto ad allungare la strada, finendo anche nella zona di Kruševac, dove si imbatterà in una festa di matrimonio. Lungo il percorso dà un passaggio al giovane autostoppista Paja, un musicista stanco della situazione in patria e diretto in Germania. Piano piano si scopre qualcosa sul riservato Vlada, soprattutto il suo ricordo del padre e dello zio che avevano combattuto come partigiani nella storica battaglia di Sutjeska. Più che il viaggio in una terra segnata da ciò che sta accadendo, è il ritorno a casa a mettere il protagonista davanti alle conseguenze di quanto fatto. “Teret” regge la tensione e l'interesse fino alla fine, per quanto un po' spiazzante, il problema è che lascia il suo “carico” troppo addosso allo spettatore, troppo aperto alle interpretazioni secondo la propria conoscenza o il proprio pregiudizio. Nella visione si mescolano le suggestioni del precedente film di Glavonić, “Dubina dva”, che ricostruiva l'affondamento nel Danubio di un veicolo carico di cadaveri kosovari. Così la lettura politica c'è, ma forse senza prove; forse resta a metà, forse già tanto nella Serbia odierna.
Nella Semaine de la critique, vinta da “Diamantino” di Gabriel Abrantes & Daniel Schmidt, il Prix Sacd è andato a Benedikt Erlingsson e Ólafur Egill Egilsson, sceneggiatori dell'ottimo islandese “Woman at War”: la storia surreale di un'ecoterrorista che finirà in Ucraina per adottare una bambina. Tra i cortometraggi, il Prix Découverte Leica è stato assegnato al greco “Ektoras malo: i teleftea mera tis chronias” di Jacqueline Lentzou.
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