Dopo anni di diffidenza, grazie a un massiccio sostegno internazionale e nuovi indirizzi politici, l'agricoltura georgiana ha compreso che l'unione fa la forza. Reportage
Tutto cominciò con le trote. Dieci anni fa Otar Giorgadze capì che la natura incontaminata e l’acqua cristallina di Chkhakbura, la sua borgata nella regione di Guria, Georgia occidentale, potevano produrre le migliori trote “guruli” sul mercato e decise di mettere su una troticoltura.
Facile a dirsi, difficile a farsi, ma del resto la vita non è mai stata facile a Chkhakbura, sette famiglie e un pugno di case arroccate nella splendida gola tra Natakhtari e Bakhmaro, sorgenti dalle quali attingono due tra le migliori acque minerali del paese. Gli inverni sono crudeli, le nevicate si misurano a metri, manca una via di comunicazione che colleghi il borgo al mercato più vicino e l’ultimo tratto dell’unica strada non è asfaltato – d’inverno il pesce deve essere trasportato su slitta.
E infatti l’avventura durò poco. “Non ce la facevo. Non producevo abbastanza, arrivare al mercato più vicino era faticoso. Dopo alcuni mesi ho dovuto smettere,” spiega. Ma gli abitanti delle montagne di Guria hanno pelle dura e spalle larghe e Otar, 45 anni, viso gentile e volontà di ferro, non ha mollato. Nel 2007 convinse quattro compaesani che l’unione fa la forza. I cinque sono stati pionieri - allevando e vendendo trote, avannotti e uova – hanno lavorato di fatto come una cooperativa, una struttura associativa che però allora non esisteva.
Realtà assodata in Italia e nell’Unione europea (UE), le cooperative permettono ai piccoli produttori di produrre su economie di scala e di raggiungere una clientela mirata – nell’UE coprono circa il 60% della produzione agricola. Non nell’ex URSS. A dire cooperativa, gli agricoltori capiscono kolkhoz e la Georgia non faceva eccezione. Ogni tentativo da parte del governo, organizzazioni internazionali e ONG di sostenere il settore attraverso l’associazionismo è caduto nel vuoto e fino al 2013 le cooperative praticamente erano inesistenti.
Due anni fa i cinque hanno registrato la cooperativa Samegobro (gruppo di amici in georgiano), forti di un cambiamento politico nel sostegno all’agricoltura che ha dato nuova linfa al settore e nuove prospettive ai piccoli produttori.
Dalle stelle alle stalle
L’agricoltura georgiana ha pagato a caro prezzo l’indipendenza dall’Unione sovietica – aziende inefficienti e al limite della sussistenza, infrastrutture decrepite e una dipendenza cronica dalle importazioni di cibo hanno messo in ginocchio un settore che era il vanto dell’impero. Alle fine degli anni ‘80 la produzione cresceva al ritmo del 10% l’anno e nel 1990 l’agricoltura produceva il 30% del prodotto interno lordo. Frutta e verdura georgiane dominavano i bazaar da Kiev a Almaty mentre il vino georgiano con i suoi 8.000 anni di storia innaffiava le tavole dell’intellighenzia moscovita.
Disintegrato il sogno socialista, il settore è precipitato in caduta libera. Nel decennio 1997-2007 il Pil reale agricolo era in negativo, meno 9% secondo l’Organizzazione mondiale per l’agricoltura (FAO). Nel 2014 il settore occupava il 53% della forza lavoro, ma il contributo al PIL era al 9.4%.
Negli anni ‘90, il governo approvò una riforma agraria su larga scala, privatizzando terreni e cancellando il sistema della collettivizzazione e dopo decenni gli agricoltori divennero proprietari dei terreni che coltivavano. Ma gestire l’agognata proprietà privata non è stato facile spiega Juan Echanove, responsabile dello sviluppo rurale della delegazione UE a Tbilisi. “Il 95% sono piccoli produttori, con appezzamenti grandi in media un ettaro e mezzo e possiedono un paio di mucche, troppo poco per andare oltre la pura sussistenza. Una produzione al minimo significa che gli agricoltori non hanno i mezzi finanziari per reinvestire nell’azienda”.
Presi singolarmente, per molti agricoltori il salto dalla produzione al mercato era praticamente impossibile.
Il nuovo corso
Nel 2012 la prospettiva dell’accordo di associazione e di libero commercio con la UE e l’apertura ad un mercato di oltre 500 milioni di potenziali clienti per i propri prodotti spinse il governo a un cambio di rotta: dopo anni di abbandono l’agricoltura tornava in cima all’agenda politica e stimolare l’associazionismo era una delle priorità.
Due anni fa il via a una serie di incentivi, come l’esenzione fiscale su immobili, ricavi e donazioni, e l’istituzione dell’Agenzia di sviluppo cooperativo (ADC) che si occupa di aiutare le cooperative a gestirsi, con corsi di formazione ad hoc – come preparare un business plan, come distribuire gli ingressi, come accedere al mercato. L’Unione europea non è rimasta a guardare. I 52 milioni di euro del programma quinquennale per l’agricoltura e lo sviluppo rurale approvato nel 2013 (Enpard) nel contesto della politica di vicinato dell’Unione hanno iniettato nuova linfa al settore.
Ma i soldi poco possono contro il muro di gomma della diffidenza e il nuovo messaggio per gli agricoltori era: dividete costi e lavoro, nessuno vuole prendervi la terra. Due anni e migliaia di incontri, depliant informativi, talk show, i numeri parlano da soli: da marzo a fine agosto 2015, ADC ha registrato 1.168 cooperative che producono di tutto, dai vini ai frutti di bosco, dal miele ai pesci.
Una frazione di Enpard, 16 milioni di euro, viene distribuita a cooperative selezionate attraverso cinque consorzi di ONG sotto forma di sovvenzioni, a volte vitali.
Come per Malkhaz Kukholeishvili e i suoi dieci soci. Quando lo scorso anno gli undici produttori di nocciole di Tkaia, un villaggio di 323 famiglie sulla linea di demarcazione tra Georgia e Abkhazia, si sono uniti nella cooperativa omonima sapevano che il lavorare duro non sarebbe bastato. “La qualità delle nostre nocciole dipendeva dal tempo,” spiega il 42enne che dirige la cooperativa. “Essiccavamo il cuore delle nocciole nei cortile dietro casa, senza alcun controllo su umidità e temperature. Avevamo bisogno di un essiccatore.”
Un prestito agevolato di 78.000 euro ha portato macchinari per la raccolta e un essiccatore – la cooperativa ha raddoppiato la produzione e migliorato la qualità, vendendo in toto le 70 tonnellate di nocciole a un distributore turco.
L’associazionismo ha avuto profondi risvolti umani. In Abasha, Georgia occidentale, Vardi – rosa in georgiano - è una cooperativa tutta al femminile che con 7.790 euro ha costruito una serra dove crescono circa 1.800 rose destinate al mercato locale. Nel 2013 una delle cinque socie si stava preparando per tentare la carta dell’emigrazione in Turchia, la cooperativa le ha dato la possibilità di rimanere con la sua famiglia.
L’incognita del mercato
Le nuove coop sono in larga parte piccole, con al massimo 15 soci e appezzamenti comunque limitati, e il passo successivo è creare gruppi di cooperative. A fine settembre ne esistevano cinque. Per le altre rimane l’incognita della sopravvivenza alla prova del mercato. E non solo
Per Eric Livny, economista e direttore dell’International School of Economics presso l’Università Statale di Tbilisi, capacità manageriali e di lavoro di squadra possono rivelarsi un vincolo troppo stretto per gruppi senza esperienza. In un recente articolo Livny spiega che “le cooperative possono fallire come qualsiasi altra attività se non riescono a raggiungere una posizione competitiva nel proprio mercato. Il fiasco può anche essere determinato da una cattiva gestione nell’approvvigionamento delle materie prime o dalla concorrenza con produttori più grandi ed efficienti”.
La differenza tra il kolkhoz e le cooperative di oggi è proprio nella variabile che mancava al tempo dei Soviet, il mercato. Oggi le coop agricole sono un business come un altro.
Per Eschanove sostenerle è un modo per selezionare e “distinguere i veri produttori da chi si occupa di agricoltura perché non ha altre alternative di lavoro, dando così una possibilità reale a chi dimostra di poter produrre e vendere”. Per gli altri serve una chiara politica di sviluppo rurale con la creazione di settori paralleli all’agricoltura.
Per Giorgadze e gli allevatori di Samegobro, la possibilità di crescere è già realtà – ampliata la struttura, hanno prodotto 15 tonnellate di pesce (dalle 7 al momento della registrazione delle coop) e forti di un potente Pick-up, questo inverno le loro trote non arriveranno ai compratori su una slitta.
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