L’Oruç Reis ancorata ad Istanbul - Kagan Kaya/Shutterstock

L’Oruç Reis ancorata ad Istanbul - Kagan Kaya/Shutterstock

Gli ultimi sei mesi hanno registrato alta tensione nel Mar Egeo tra Grecia e Turchia. In questo approfondimento gli elementi di un contenzioso che è sempre sul punto di sfociare in scontri armati

04/03/2021 -  Antoine Laurent

Nel 1832, i greci, sostenuti da Russia, Regno Unito e Francia, ottengono l’indipendenza, ponendo così fine a quasi quattro secoli di dominio ottomano. Nel 1923, la vittoria dei partigiani di Mustafa Kemal contro la Grecia e le truppe del sultano Mehmed VI, portano l’Impero ottomano al collasso, portando alla nascita della Repubblica turca, uno stato laico e risolutamente rivolto verso occidente. La storia di Grecia e Turchia è quindi intimamente legata e le controversie che li caratterizzano debbono essere analizzate nel lungo periodo.

Le crisi che hanno ritmato le relazioni tra Grecia e Turchia hanno a volte rischiato di portare i due paesi al confronto militare aperto – questione di Cipro nel 1964 e nel 1974, o degli isolotti di Imia/Kardak nel 1996 ad esempio. Tale situazione ha un che di sorprendente: entrambi gli stati appartengono infatti alla Nato dal 1952 e mantengono rapporti di varia natura con il progetto europeo: la Grecia ha aderito alla Comunità economica europea nel 1986, mentre la Turchia ha raggiunto con l’Unione europea un accordo di unione doganale entrato in vigore nel 1996. Nonostante i pochi progressi compiuti in questo campo, la Turchia è comunque stata confermata come candidato ufficiale all’adesione al progetto europeo nel 1999.

I due paesi hanno inoltre dimostrato anche la loro capacità di dialogo e cooperazione. Gli anni ’90 del secolo scorso sono per esempio stati segnati dal miglioramento della situazione della minoranza musulmana in Grecia (in Tracia occidentale in particolare), dalla diminuzione delle pressioni esercitate dal governo turco sul Patriarcato greco di Costantinopoli (Istanbul), o per il forte sostegno della Grecia alla Turchia dopo il terremoto del 1999. Inoltre dal 2002 al 2016 i due paesi hanno avviato un lungo dialogo volto a risolvere le dispute territoriali che li contrappongono da parecchi decenni.

Eppure, da parecchi mesi, tutto sembra indicare che sia tornato un clima di estrema tensione . All’origine vi è una controversia di lunga data: la delimitazione delle loro acque territoriali e delle loro zone economiche esclusive; un problema risvegliato nel 2009 dalla scoperta di ingenti giacimenti di idrocarburi nel Mediterraneo orientale.

Gli avvenimenti degli ultimi mesi 

Il 10 agosto 2020, l’Oruç Reis, una nave turca di ricerca sismica, è stata inviata - sotto scorta militare - a sud dell’isola greca di Kastellorizo per svolgere attività di ricerca di idrocarburi. Quel settore del Mediterraneo orientale è però rivendicato dalla Grecia. Il governo greco del primo ministro Kyriakos Mitsotakis, forte  del sostegno diplomatico di Cipro, della Francia e dell’Italia, ha subito inviato sul posto navi da guerra e aerei da combattimento per monitorare le attività turche. Il tutto ha scatenato retorica infuocata su entrambe le sponde dell’Egeo.

L'isola di Kastellorizo - © Lemonakis Antonis/Shutterstock

L'isola di Kastellorizo - © Lemonakis Antonis/Shutterstock

Di fronte al persistere delle attività turche, la tensione tra Turchia da una parte, e Grecia, Cipro e Francia dall’altra è continuata a salire. Il 13 agosto 2020 Florence Palry, ministra delle Forze armate, ha annunciato che la Francia aveva dispiegato a sostegno della Grecia due aerei da combattimento (che avevano prima fatto tappa a Cipro) e due navi da guerra nel Mediterraneo orientale. Dal 19, le manovre ravvicinate delle navi da guerra greche e turche sono sfociate in una collisione tra due fregate. Due giorni dopo, il 21, è stata la volta dell’arrivo a Creta di quattro aerei da combattimento degli Emirati arabi uniti. Il 26, Grecia, Cipro, Francia e Italia hanno promosso un’esercitazione militare aeronavale congiunta (Eunomia) a sud-est di Cipro. Il 28 agosto poi la Grecia ha dichiarato di avere concluso un accordo di delimitazione delle proprie frontiere marittime con l’Egitto. Un accordo i cui contenuti sono in contrasto con un trattato dello stesso genere firmato dalla Turchia e dal governo di unità nazionale libico nel novembre 2019, al quale la Grecia si era vigorosamente opposta. Il 12 settembre infine Atene ha dichiarato di voler rinforzare la propria aviazione militare con l’acquisto di 18 caccia Rafales dalla Francia. Il giorno seguente, l’Oruç Reis, la cui missione era stata prolungata a più riprese, ha lasciato le acque rivendicate dalla Grecia.

Durante questi mesi di tensioni la Germania, che presiedeva la presidenza di turno dell’Unione europea (luglio-agosto 2020) non ha risparmiato sforzi di mediazione, al fine di spingere i due paesi al dialogo. La ripresa dei negoziati è stata annunciata da Atene il 22 settembre. Il primo di ottobre è stato avviato in seno alla Nato un un meccanismo di de-confliction volto a “ridurre il rischio di incidenti [militari ndr] nel Mediterraneo orientale” sotto l’egida del segretario generale Jens Stoltenberg.

Una mappa del Mar Egeo

Mar Egeo (Di Eric Gaba Wikimedia - CC BY-SA 3.0)

Tuttavia, dal 14 ottobre al 30 novembre, le prospezioni sismiche dell’Oruç Reis nelle acque rivendicate dalla Grecia sono ricominciate, sempre sotto scorta militare. Una volta ancora la durata iniziale della missione sarebbe poi stata più volte prolungata. Nel frattempo, il governo greco ha confermato la sua intenzione di acquisire dai 18 ai 24 caccia F35; il 18 ottobre Atene ha sottoscritto un accordo difensivo di mutua assistenza con gli Emirati arabi uniti.

Dall’11 dicembre l’UE ha deciso di sanzionare alcune personalità turche implicate nelle attività di ricerca svolte dalla Turchia nel Mediterraneo orientale, qualificate come “illegali e aggressive”. I 27 paesi Ue hanno però progressivamente rinviato la pubblicazione di questa lista (per ora non è stata divulgata) e ordinato una relazione sull’evoluzione della situazione alla Commissione europea  per il 21 marzo 2021, lasciando così al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan la possibilità di adottare un atteggiamento più conciliante. La decisione europea è stata definita come “distorta e illegittima” dal ministero turco degli Affari esteri. Il 23 dicembre il ministero turco della Difesa dichiara di avere condotto un esercizio navale di tiro nel Mediterraneo orientale.

Lo stesso giorno l’Oruç Reis è salpata nuovamente, accompagnata questa volta da due navi civili di rifornimento. Le prospezioni, che dovrebbero prolungarsi fino a giugno 2021, dovrebbero svolgersi questa volta in un settore non conteso di Mediterraneo a sud di Antalya, in acque territoriali turche. Tuttavia, la Grecia non ha abbassato la guardia: il 5 gennaio 2021 il governo ha firmato un contratto di circa 1,8 miliardi di euro con Israele, che prevede in particolare l’istituzione in Grecia di una scuola per piloti a vantaggio dell’aeronautica militare greca, così come l’acquisto di dieci aerei da addestramento italo-israeliani M-346.

Il 25 gennaio sono poi ripresi i negoziati tra Atene e Ankara. L’Ue ha accolto favorevolmente il dialogo tra le parti pur non aspettandosi alcun progresso di rilievo. I due paesi ad oggi non hanno raggiunto alcun accordo neppure sull’elenco dei temi da discutere. Nikos Dendias, ministro degli Esteri greco, confuta peraltro l’uso del termine “negoziati” preferendo “discussioni informali”.  Inoltre, Atene ha confermato, proprio il 25 gennaio, l’acquisto di aerei da combattimento alla Francia.

Più elementi potrebbero contribuire a spiegare il cambiamento di atteggiamento da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan: tra tutte l’elezione alla presidenza Usa di Joe Biden, il quale sembra trovarsi su posizioni nettamente meno concilianti di quelle del suo predecessore rispetto al presidente turco; la necessità di evitare le sanzioni europee; l'onere della gestione dell’epidemia di Covid-19 in Turchia.        

Origini e sfide della controversia greco-turca nel Mediterraneo

Frontiera marittima della Grecia (blu) e della Turchia (rossa) se fissata a 6 miglia marine (Perfect at Sunrise, Wikimedia — CC BY-SA 3.0)

 

Il contenzioso che oppone Grecia e Turchia prosegue da decenni. Alla radice del problema vi è principalmente la delimitazione delle acque territoriali  e delle zone economiche esclusive  (ZEE) di entrambi gli stati. Nel diritto internazionale e più specificamente nel diritto del mare, regolato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (detta Convenzione di Montego Bay ), esistono delle regole che permettono in teoria di risolvere il problema. Secondo questo testo, il limite delle acque territoriali (o mare territoriale) di uno stato è fissato a massimo 12 miglia marine delle sue coste (pari a circa 22 km). Le ZEE dal canto loro, possono estendersi fino a 200 miglia marine (pari a circa 370 km) delle coste.       

Nella pratica tutto risulta enormemente più complesso. Da quando l’Italia ha dovuto cedere il Dodecaneso alla Grecia, nel 1947, la quasi-totalità delle isole del mare Egeo e del Mediterraneo orientale sono territori greci. Per giunta, queste ultime sono talvolta situate a poca distanza delle coste turche – ad esempio, meno di due chilometri separano l’isola di Kastellorizo dalla Turchia. Attualmente e dal 1936, l’estensione delle acque territoriali greche e turche è fissata a 6 miglia marine. In questa configurazione le acque territoriali greche occupano il 43,5 % del mare Egeo, contro il 7,5 % per le acque turche. Se le acque territoriali di entrambi gli stati fossero ampliate a 12 miglia marine, il mare Egeo diventerebbe in un certo senso un lago greco: proprio perché la Grecia possiede un gran numero di isole in questo spazio. Le acque territoriali elleniche occuperebbero in questo caso il 71,5% dello spazio del mare Egeo, e quelle della Turchia solo l’8,7%. Peraltro, lo spazio marittimo di alto mare (o acque internazionali), non soggetto alla giurisdizione degli stati costieri, ne risulterebbe pesantemente frazionato. La sua superficie non rappresenterebbe più del 19,7 % del mare Egeo (contro il 49% oggi).

Di conseguenza, il transito per la regione diventerebbe in pratica impossibile per le navi turche (civili e militari) senza attraversare un territorio controllato dalla Grecia, mentre tre dei principali porti commerciali turchi si troverebbero all’interno del mare Egeo (porti di Haydarpasa , di Ambarlı  e di Izmir ), per non parlare delle basi navali militari. La piena sovranità della Turchia ne verrebbe quindi minacciata. Inoltre, Ankara si troverebbe privata dell’accesso alle risorse della zona a favore della Grecia. Proprio per questo la Turchia, contrariamente alla Grecia, non ha mai ratificato la Convenzione di Montego Bay. Dal giugno 1995, il Parlamento turco ha peraltro approvato una risoluzione avvertendo che tale estensione delle proprie acque territoriali nel mare Egeo da parte della Grecia costituirebbe un casus belli.

Questa situazione rende particolarmente complessa la delimitazione delle ZEE, nel mare Egeo come, più a sud, nel Mediterraneo orientale: in particolare perché Grecia e Turchia non si accordano sugli elementi giuridici e geologici in base ai quali la superficie delle loro ZEE potrebbe essere stabilita. Atene, appoggiandosi sulla convenzione di Montego Bay, afferma che la superficie della propria ZEE deve essere calcolata a partire delle isole soggette alla propria autorità. La ZEE della Turchia ne risulterebbe estremamente ridotta. Ankara dal canto suo, sebbene accetti il principio secondo il quale una ZEE venga delimitata a partire dell’estensione della piattaforma continentale  di

Frontiera marittima della Grecia (blu) e della Turchia (rossa) se fissata a 12 miglia marine (Perfect at Sunrise, Wikimedia — CC BY-SA 3.0)

ciascun stato (Convenzione di Montego Bay), ritiene un gran numero di isole greche come semplici elementi emergenti della piattaforma continentale turca. Dal suo punto di vista quindi l’esistenza di queste isole non deve essere presa in considerazione dalla Grecia nel definire la propria ZEE. La ZEE turca dovrebbe quindi inglobare una grande parte delle isole greche orientali (escluse le loro acque territoriali); una posizione ribadita mediante il concetto di patria blu (Mavi Vatan), che illustra la volontà di una parte dell'élite turca di difendere lo statuto di potenza marittima della Turchia. 

Dal 2009, la controversia marittima che oppone Atene e Ankara si trova inoltre esacerbata dalla scoperta di rilevanti giacimenti sottomarini di gas naturale nel Mediterraneo orientale (l’equivalente delle riserve della Norvegia, cioè uno dei più ampi giacimenti al mondo). Lo sfruttamento di tali risorse permetterebbe alla Turchia di affrancarsi della propria dipendenza energetica, particolarmente marcata nel campo del gas, nei confronti di altri stati (soprattutto dalla Russia). Permetterebbe altresì alla Turchia di affermarsi come piattaforma energetica della regione, un ruolo a cui sembra aspirare. La Grecia dal canto suo mira a diventare uno degli anelli essenziali della distribuzione del gas mediterraneo in Europa. Dal gennaio 2020, il paese si è associato con Cipro e Israele per costruire un oleodotto tra i giacimenti israeliani e ciprioti e la Grecia (progetto Eastmed ). Atene, la cui economia è stata duramente colpita dalla crisi del 2008, ha peraltro autorizzato numerose prospezioni di idrocarburi nelle acque che considera proprie (a sud di Creta ad esempio).

Conflitti giuridici e sfide energetiche permettono di capire perché il governo turco abbia inviato l’Oruç Reis a compiere ricerche di idrocarburi in prossimità alle acque

Una mappa che rappresenta la politica turca della cosiddetta "Patria Blu" (Cihat Yaycı, Wikimedia -  CC BY-SA 4.0)

territoriali dell’isola di Kastellorizo e perché Atene non l’accetti. Come si comprende perché Turchia e Grecia abbiano sottoscritto in questi ultimi mesi accordi di delimitazione delle proprie ZEE (confliggenti) in Mediterraneo orientale con soggetti terzi (rispettivamente il governo di unità nazionale libico e l’Egitto). 

Ora ci sono varie modalità per affrontare la questione del controllo delle materie prime. Si può considerare opportuno cercare di accaparrarsene la più ampia quantità possibile, potenzialmente a scapito di altre nazioni e rischiando la guerra: in caso di successo, tale decisione potrebbe  costituire una garanzia di prosperità sul piano interno. Ma i rischi sono altissimi. Oppure si può percorrere la strada di una gestione comune, per vantaggi oggettivi comuni. E’ la strada che in passato è stata intrapresa– seppur in condizioni diverse – da nazioni che per più di mezzo secolo si erano combattute nel cuore dell’Europa e che decisero di istituire la Comunità europea del Carbone e dell’acciaio (CECA) che definì un quadro comune allo sfruttamento di materie prime altamente strategiche. E che ha permesso lunghi decenni di pace.


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