Nel 1937 il quotidiano ateniese “Kathimerini” commissionò allo scrittore Nikos Kazantzakis un tour di tre settimane per il Peloponneso. “La mia Grecia”, ora pubblicato in italiano da Crocetti, raccoglie quegli scritti
Di Grecia ce n’è una sola. Come c’è un solo popolo. Non è come l’Italia, così diversa da nord a sud, non solo nel paesaggio, ma anche nei dialetti, nella gastronomia, nelle tradizioni, né come gli italiani, molto più identitari con la propria provincia, quando non con il proprio comune prima ancora che con il proprio paese o patria, che dir si voglia. Il filoellenismo di noi stranieri ha questa stessa matrice: amiamo la Grecia, tutta la Grecia, senza essere particolarmente fanatici di una città o una parte di essa.
Per cui, quando arriva in libreria un libro come “La mia Grecia”, scritto negli anni Trenta da uno degli scrittori greci più grandi, se non il più grande, del Novecento, come Nikos Kazantzakis, ci affrettiamo a comprarlo e a leggerlo, certi di ritrovare nelle sue pagine la Grecia che conosciamo, che amiamo, non un paese diverso, inedito, se non addirittura sconosciuto. E ci tuffiamo nelle pagine del libro, altrettanto certi di immergerci nei suoi colori, odori, sapori, nel calore umano e un po’ naif, sanamente naif, della sua gente e della filosofia di vita dalla forte influenza orientale che guarda con abbandono e passione all’attimo presente e, senza dimenticare il passato di cui sono orgogliosi, affidandosi alla volontà divina per il futuro. O Theos! Quante volte nei miei 52 anni di frequentazione della Grecia ho sentito questa esclamazione, pronunciata sollevando gli occhi al cielo, per esprimere l’accettazione di cose ineluttabili avvenute e di essere sempre preparati con questo spirito al domani. C’era mia suocera Despina, con una vita non priva di dolori alle spalle, come la obbligata (per matrimonio) emigrazione in Italia e la morte di due figli, che ogni mattina ringraziava il Signore per il nuovo giorno che le portava. Perché la vita portava non solo dolore, ma anche gioia, speranza, quelle che ha conosciuto da quando l’anno successivo alla morte in un incidente stradale del figlio ventiduenne è nata la nipotina Irene e subito dopo, l’anno successivo ancora, la seconda nipotina, Elena, nipoti alle quali si è dedicata con tutto l’amore e l’abnegazione di cui era capace restando per sempre nei loro cuori come un caposaldo della loro vita.
Ecco, tutto questo, cioè questa visione pregna di orgoglio del passato, di immersione nel presente, di equilibrato fatalismo, emerge dalle pagine de “La mia Grecia” di Nikos Kazantzakis, edito da Crocetti, per la traduzione della brava Gilda Tentorio, pagine scritte nel 1937 per il quotidiano ateniese “Kathimerini”, che aveva commissionato allo scrittore un tour di tre settimane per il Peloponneso, una regione che nutre in sé tutto ciò che è la Grecia. Nikos Kazantzakis la interpreta da par suo, da uomo colto, cresciuto, sì sui libri, attraverso il mito e la storia, ma anche capace di respirare in ogni pietra, in ogni sguardo, ogni paesaggio e a contatto stretto con la sua gente.
C’è già tutto nel primo capitolo del libro, intitolato “Partenza”, anzi, già nella prima pagina: “Il volto della Grecia è un palinsesto di dodici principali scritture sovrapposte (…) Te ne stai in piedi su un palmo di terra greca e ti prende un senso di vertigine. Una tomba profonda, dodici strati da cui salgono voci e ti chiamano. Quale scegliere? Ogni voce ha anche un’anima, e ogni anima brama il suo corpo: ne hai il cuore straziato e non sai decidere. Per un greco, il viaggio in Grecia è una tortura, seducente e sfibrante…” E racconta come trovandosi “accanto a un oleandro in fiore del fiume Eurota, tra Sparta e Mistrà, comincia la terribile lotta ancestrale fra cuore e mente”. Ed è tra questi due poli, tra il presente che si gode con il cuore e il passato che emerge con la mente, che il tour di Kazantzakis per le strade del Peloponneso prende corpo sulle pagine del libro, in un’alternanza di informazioni, riflessioni, incontri, rievocazioni e quant’altro, il tutto magistralmente “macinato” dalla penna densa, soave, ora poetica, ora aneddotica, ora diaristica, ora saggistica, e sempre intensa, di Nikos Kazantzakis.
Il risultato è un reportage dall’intreccio unitario tra passato, mitologico e leggendario, della Grecia e il suo presente di allora, della fine degli anni Trenta, che è quello di una popolazione povera e devastata dalla malaria. “Le donne hanno un colorito giallastro, i bambini si aggirano con enormi ventri gonfi, anche qui la malaria ha messo in ginocchio la popolazione. Uno degli spettacoli più amari, se viaggi nel Peloponneso, è vedere la nostra stirpe appassire per le febbri”. Ma c’è anche gente piena di vita, dei piccoli Zorba, come il vecchio Kostandis che chiede alle ragazze di farsi toccare da lui, e loro lo accontentano, e nel vederlo piangere gli dicono: “Non piangere, nonno!” e lui risponde: “E come non piangere, figliola? Ormai sono vicino alla morte e mi lascio dietro il mondo pieno di belle ragazze”. Oppure il suonatore di sanduri che racconta come è nata la sua passione per quello strumento dalla prima volta che ha sentito da esso uscire le note di una musica. "Avevo da parte un gruzzolo per sposarmi" racconta "con quello mi sono comprato il sanduri. Eccolo, proprio questo qui. Con questo sono andato a Patrasso, dove ho trovato Kostakis, il grande maestro di sanduri, pace all’anima sua. Mi getto ai suoi piedi. ‘Che cosa vuoi, ragazzo’ mi fa. ‘Voglio imparare a suonare il sanduri’ ‘E perché ti getti ai miei piedi?’ ‘Perché non ho soldi per pagarti.’ ‘Figliolo, siediti. Non voglio essere pagato’."
Sembra una pagina tratta da “Zorba il greco”. Ma tutto “La mia Grecia”, se stiamo attenti, raccoglie molto del materiale, tracce, semi, che troveremo sviluppati più ampiamente nei suoi romanzi, che a loro volta rimandano alla storia più grande, a una di quelle dodici principali scritture di cui parla nell’incipit, e delle quali il Peloponneso è la terra che tutte raccoglie, e di cui parla quando va a Olimpia, o quando arriva a Mistrà, o a Sparta che gli evoca le bellissime pagine che lo scrittore dedica a Elena raffigurata come una dea, parlandone da un uomo innamorato, tanto è viva, quasi carnale, in lui la sua figura.
La conclusione del libro, dopo questo viaggio, è paradigmatica del viaggio stesso in Grecia, una sensazione che credo colga tutti coloro che ci vanno e ne ritornano con la mente e il cuore colmo della sua unicità, in un insieme di terra e persone, e non si sa da dove cominciare a raccontare questa terra, questo mondo. “Si è chiuso un cerchio” scrive “lo sguardo ha fatto il suo giro e ha goduto un po’ di Grecia. Monti, pianure fertili, città, villaggi, uomini, discorsi, ora tutte queste esperienze tornano in mente alla rinfusa, impazienti, e chiedono di essere riordinate in modo unitario e organico per trovare un senso. Infatti il viaggio non è una pura gioia per gli occhi o un semplice andare, ma uno slancio di anima e mente per una ricerca più profonda”.
Ricerca per la quale “La mia Grecia” di Nikos Kazantzakis offre una chiave di conoscenza, da confrontare con la propria, anche al viaggiatore di oggi. Si vedrà che la Grecia è sempre… la Grecia. La nostra Grecia.
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