Profughi greci a Smirne - Wikimedia

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Sono stati tradotti in italiano due classici della letteratura greca sulla cacciata della popolazione greca autoctona dall’Anatolia nel 1922, "Il numero 31328 – Il libro della schiavitù" di Ilias Venezis e "Addio Anatolia" di Didò Sotiriu

29/12/2022 -  Diego Zandel

Cent’anni fa, tra l’agosto e il settembre del 1922, si consumava una tragedia che i greci ricordano come la Mikrasiatikì Katastrofì, ovvero la Catastrofe dell’Asia Minore. Nella memoria del popolo greco ha la stessa valenza del genocidio degli armeni e dei greci del Ponto, attuato da turchi nel 1915-1916. Lo ricordano due romanzi classici della letteratura greca del Novecento usciti

recentemente in contemporanea. Si tratta de “Il numero 31328 – Il libro della schiavitù” di Ilias Venezis, edito da Settecolori nella traduzione di Francesco Colafemmina e la prefazione di Antonia Arslan; e di “Addio Anatolia” di Didò Sotiriu edito da Crocetti nella traduzione di Maurizio de Rosa. Sono due opere complementari in qualche modo: il primo, molto autobiografico, racconta il trattamento riservato dai turchi all’esercito greco con la decimazione dei soldati e della popolazione maschile in sperduti campi di concentramento dai quali ben pochi si salvarono (e Ilias Venezis, l’autore, fu uno di questi), mentre alle donne, vecchi e bambini veniva data la possibilità di andarsene; il libro di Sotiriu si concentra, invece, sui profughi costretti a lasciare la costa anatolica con mezzi di fortuna, un esilio che, con il successivo cambio delle popolazioni sancito dal Trattato di Losanna del 1923 avrebbe d’allora cancellato il secolare ellenismo di quei territori.

Cos’era accaduto? Subito dopo la Prima guerra mondiale e il crollo dell’Impero ottomano si fece strada tra i greci l’idea, anzi la Grande Idea (Megali Idea), sostenuta dal primo ministro Eleftherios Venizelos, di una Grecia che tornasse ai fasti del passato, che andasse dal mar Ionio alle prime pendici dell’Anatolia, compresa la Tracia e Costantinopoli. Un’idea che era stata resa credibile dalla incoraggiante avanzata dell’esercito greco nell’Asia Minore che nel 1919, vi era sbarcato con il pretesto ufficiale di proteggere la popolazione greca dalle ostilità della maggioranza turca. Tre anni dopo, però, nell’estate del 1922, il sogno si sgretolò a causa di un giovane generale turco Mustafa Kemal Ataturk, che nel giro di due settimane diede corpo a un’offensiva tale da portare alla riconquista dei territori ottomani e alla metodica cacciata della popolazione greca autoctona dall’Anatolia. Questi due momenti, dell’entusiasmante avanzata dell’esercito greco e del tragico ripiegamento seguito all’attacco da parte delle armate di Kemal, sono ben raccontate anche dal punto di vista psicologico, oltre che storico, da Panos Karnezis nel bel romanzo “Il labirinto”, edito da Guanda una ventina di anni fa e che vale la pena di rileggere oggi.

Tornando al libro di Venezis, cito quanto scritto da Antonia Arslan nella prefazione, in cui ricorda che i greci dell’Anatolia erano i discendenti dei bizantini, e ancora: “La sua capitale era Smirne, il grande porto mediterraneo, una città profondamente greca, vivacissima, tradizionale e moderna insieme, dove convivevano greci, turchi e armeni, ebrei, levantini e gente di tante etnie. Una spina nel fianco del generale Kemal, che non a caso – dopo aver respinto a mare lo sconfitto esercito greco – la abbandonò al fuoco, che cancellasse anche il ricordo degli splendori del passato”.

Ma non ci fu solo l’incendio. “Subito dopo” ricorda ancora la Arslan “venne condotto contro i sudditi ottomani di etnia greca un gigantesco e capillare rastrellamento che portò alla deportazione verso l’interno dell’Anatolia di decine di migliaia di uomini fra i diciotto e quarantacinque anni – avviati per la maggior parte alla morte – e nell’esodo forzato dalla patria ancestrale (abbandonando tutto, terra, case, beni, secondo lo schema collaudato contro gli armeni) di tutti gli altri, donne, vecchi, bambini: circa un milione e mezzo di persone”.

Ilias Venezis, allora diciottenne, si trovava tra questa popolazione e racconta come, dopo il vano tentativo di sottrarsi al forzato arruolamento cercando di dimostrare che avesse 17 anni, si ritrovò invece nell’ottobre del 1922 con gli altri prigionieri del suo villaggio, Aivalì, nel “carnaio sommario” dei battaglioni di lavoro. Ci restò per più di un anno, fino alla fine del 1923, quando venne liberato per prendere la strada dell’esilio, raggiungendo con barche di fortuna l’isola di Mitilene. Ricorda Venezis: “Di 3000 uomini che presero i turchi ad Aivalì, il fiore della popolazione, ci salvammo e arrivammo, dopo molte sventure, in Grecia in ventitré anime”.

Didò Sotirìu, in “Addio Anatolia” racconta, invece, la storia di coloro, donne, vecchi e bambini (Didò all’epoca aveva 13 anni) che, scampati all’eccidio, raggiunsero con mezzi di fortuna e molte traversie la Grecia. In questo caso, protagonista del suo romanzo è Manolis, l’io narrante che dà voce ai greci tutti dell’Anatolia, arruolati forzatamente e fuggiaschi, ma senza dimenticare quei turchi che, cresciuti in amicizia con i greci durante l’Impero ottomano, si sono prodigati per salvarli, come e dove potevano, dalla furia di Kemal, sottraendo così la sua opera letteraria a una testimonianza di condanna pregiudiziale di tutti i turchi. Ci sono, comunque, a riguardo pagine strazianti che qualsiasi esule può fare proprie, come quando da lontano vedi la terra che hai lasciato. “Dall’altra parte avevamo lasciato case confortevoli, bauli carichi di tesori, icone sormontate da corone di fiori, i nostri morti nei cimiteri. Avevamo lasciato figli, nipoti e fratelli. I morti non erano stati sepolti. I vivi erano senza casa. I sogni erano diventati incubi. Dall’altra parte c’era quella che fino al giorno prima era la nostra patria”.


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