In "Offshore", nuovo romanzo del noto giallista greco, la crisi è finita e il paese prospera all'ombra di denaro sospetto, senza però aver imparato nulla dalla depressione economica
Aveva detto che non si sarebbe più occupato della crisi greca nei suoi romanzi. E ha mantenuto la promessa Petros Markaris, il giallista ellenico autore della “Trilogia della crisi” (tradotta in Italia da Bompiani).
È stato di parola semplicemente perché la crisi, nella terra degli dei, ormai è finita. Le pensionate che frugano nei cassonetti dei rifiuti alla ricerca di avanzi di cibo? Un lontano ricordo. I bambini che a scuola svengono a causa della denutrizione e dell’assenza di riscaldamento perché mensa e carburante costano troppo? Immagini sbiadite come vecchie fotografie. E adesso che la crisi è finita, ditte estere continuano ad aprire i battenti in tutta l’Ellade, i dipendenti pubblici hanno ottenuto i sospirati aumenti di stipendio dopo sei anni di decurtazioni, nuovi posti di lavoro fioccano anche nel settore privato.
"Offshore", la Grecia del bengodi
Persino gli armatori greci, gli epigoni di Onassis e Niarchos, tutti scappati a Londra durante gli anni bui, sono tornati a dispiegare la bandiera nazionale sulle loro navi ormeggiate nel Pireo. Da questo straniante paradiso economico ha preso spunto Markaris nel suo ultimo romanzo “Offshore” (ancora in corso di traduzione in Italia).
L’ha fatto rimettendo il poliziotto-alter ego Kostas Charitos alla guida della sua malandata Seat nelle strade di Atene. Un’Atene con le trattorie piene, dove i soldi scorrono a fiumi dopo l’insediamento del “Governo dei quarantenni” di unità nazionale, arrivati al potere con un programma elettorale fatto di un solo slogan: “Gli altri hanno promesso tanto e hanno tutti fallito. Lasciateci provare per tre mesi. E se ce la facessimo?” Così la Grecia, da Paese cavia dell’austerity firmata Troika, è diventata - almeno nella penna del Camilleri greco - nel lampo di un trimestre la protagonista di una “success story”.
Merito delle privatizzazioni… ma non solo. Perché il poliziotto Charitos forse di politica e di alta finanza non se ne intende, ma quando un armatore - uno di quelli che non voleva tornare in Grecia - viene ucciso, seguito a ruota dal cadavere di un giornalista troppo curioso sulle origini dei tanti investimenti che piovono all’improvviso sul suo Paese, continua a chiedersi: “Ma tutti questi soldi, da dove vengono?”
Non c’è bisogno di tradurre il titolo del romanzo di Markaris “Offshore”. Nei paradisi fiscali si rifugiano tanti evasori fiscali: proprio un mese prima dell’uscita dell’ultimo giallo di Markaris in Grecia, è stata resa pubblica la lista degli imprenditori, calciatori, banchieri, armatori, giornalisti ed ex dirigenti pubblici ellenici che avevano un conto a Panama, nelle Seychelles, alle Isole Vergini o alle Bermuda. Vedi alla voce “Panama Papers”. Ma nei paradisi fiscali non si rifugia solo denaro per non pagare le tasse. Si riciclano anche fondi neri.
Così, a poco a poco, Charitos dipanerà la matassa. Ai lettori il piacere della lettura.
Non abbiamo imparato nulla dalla crisi...
Ma la morale di Markaris è espressa dai commenti sardonici della signora Adrianì, la moglie casalinga di Charitos insuperabile nel cucinare i “ghemistà”, le verdure ripiene di riso e aromi, che durante l’austerity aveva fatto i salti mortali per fare quadrare i conti della spesa e riciclare gli avanzi di giorni e giorni in modo appetibile: “Vedrete, mi darete ragione. Con la mentalità che abbiamo noi greci avremo nostalgia della crisi. Ai primi aumenti, tutti si precipitano in spiaggia e nei ristoranti. Presto seguiranno le ville in città e le case al mare”. E quando arriverà la seconda stangata sulle loro tasche, sarà peggiore della prima.
Lo stesso Markaris, in un’intervista al quotidiano To Vima, ha affermato che “il maggiore problema della nostra società è che non abbiamo imparato nulla dalla crisi. Soffriamo senza capire nulla. Nessun popolo accetta di soffrire, è ovvio. Ma alcuni quando stanno male imparano qualcosa, ragionano sulle vere cause della propria malattia. Noi, invece, ci limitiamo a sognare il paradiso perduto. Non ci importa la prospettiva del futuro, ma il ritorno al passato”.
Forse non è un caso che i più recenti sondaggi mostrano una voglia di ritorno ai vecchi modi di fare politica: secondo quello della società KapaResearch del 10 settembre, 59 greci su cento pensano che se ci fossero elezioni a breve il primo partito sarebbe il centrodestra di Nuova Democrazia, mentre l’attuale premier Tsipras con la formazione Syriza sarebbe fermo al 23 per cento delle preferenze. Eppure nessuno dei due leader in lizza convince gli elettori: se Alexis Tsipras è ritenuto il miglior primo ministro da 27,4 su cento dei suoi connazionali, l’oppositore Kostantinos Mitsotakis, figlio del 98enne presidente emerito di Nuova democrazia Kostas Mitsotakis, non supera il 29,6 %. Nessuno dei due raggiungerebbe la maggioranza del 41%, soglia di consenso necessaria per governare in Grecia.
Sia Tsipras sia Mitsotakis sono quarantenni, ma non si sognano di formare la coalizione di unità nazionale immaginata nel romanzo di Markaris. Soprattutto, non pensano di guarire in soli tre mesi le piaghe della Grecia malata. I greci, insomma, sembrano amareggiati e delusi da tutti.
La crisi ha fatto bene ai greci?
Proprio come è scoraggiante la conclusione della signora Adrianì e del suo inventore Markaris: “Da questa crisi, non abbiamo imparato niente”. Eppure c’è stato qualcuno che ha creduto esattamente nel contrario: “Questa crisi ci farà bene”. È stato Serafeim Fyntanidis, ex direttore del quotidiano Elefterotypia intervistato da OBC nel 2009, quando il baratro economico ellenico stava iniziando a essere sotto i microscopi degli analisti e della stampa internazionali.
Lui era ottimista, pur denunciando la corruzione e il clientelismo che avevano portato il Paese allo sfascio: “Ce la faremo” ci diceva Fyntanidis sette anni fa. “E sa perché? Nessun altro Paese occidentale ha passato quello che abbiamo attraversato noi nell'ultimo secolo: due guerre mondiali seguite da una guerra civile durata 5 anni, fame, povertà. Ancora prima, nel 1922, in seguito alla nostra sconfitta nel conflitto contro il nuovo Stato turco uscito dalla disfatta dell'impero ottomano, la deportazione di due milioni di greci dall'Anatolia alla madre patria: il famoso scambio di popolazioni, noto come la "megali katastrofì" (“il grande disastro” ndr) in una Grecia che all'epoca aveva sei milioni di abitanti. Come se in Italia arrivassero ora venti milioni di italiani emigrati da secoli all'estero! Eppure ora siamo nell'Unione europea, nell'euroclub e siamo i primi in Europa per consumo di carne rossa, i primi nelle classifiche dell'obesità, i primi nel possesso della prima e anche della seconda casa, i primi per incidenti stradali (tutti hanno almeno un'automobile!). È come se negli ultimi 30 anni abbiamo voluto rifarci da tanta fame e povertà. Ma non è vero che siamo al collasso: 40 anni fa i greci emigravano in America, ora abbiamo in casa un milione di emigrati dall'Afghanistan ai Balcani, che da noi riescono a vivere. Siamo davvero un Paese così allo stremo? Mi fanno ridere quelli che dicono che un terzo dei greci è sotto la soglia di povertà: e l'evasione fiscale? E il secondo lavoro (molti sono dipendenti pubblici e poi hanno, per esempio, il campo di ulivi al paesello d'origine)? L'ho detto: da questa crisi impareremo a indossare due anni di seguito un cappotto, a fare durare una macchina almeno dieci anni. Ci farà bene”.
Ora Fyntanidis è passato da due anni a miglior vita, il giornale che ha diretto non esce più in edicola, chiuso per mancanza di fondi. La sua, in fondo, era la filosofia della “povertà dignitosa” della signora Adrianì. Che i greci davvero non abbiano imparato nulla da tanti patemi? La risposta può essere in “Offshore” di Markaris. O nelle prossime elezioni.
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